Sulla copertina della nuova silloge di Cettina Caliò (Di tu in noi, La Nave di Teseo, 2021) è rappresentata una tela di Fontana. I famosi tagli, che tanto, da sempre, dividono. Guardandoli è impossibile non pensare che dalle ferite aperte esca il buio della notte, ma anche la luce dell’anima. E che se non ci fossero, i tagli, nulla potrebbe essere comunicato da una parte all’altra dello squarcio, tra i due mondi estremi che mettono in comunicazione e che tutti conosciamo, pur senza saperlo.

Un giorno il ginecologo, quando già ai primi mesi di gravidanza gli dicevo di aver paura di partorire, non per il dolore ma per il passaggio obbligato tra i due mondi, mi invitò a guardarmi in giro, camminando per la strada: “Tutti quelli che incrocia – aggiunse – sono nati”: l’andare cioè, dall’altrove a qui, e viceversa, è molto più naturale di quanto noi non crediamo.

Cettina Caliò lo sa bene, quantomeno dal giorno che il suo compagno – scrittore, editor, traduttore – ha scelto di non essere più, lasciandole un messaggio d’addio e per la polizia una lettera. Di queste, nella sua prefazione all’antologia, la poetessa ricorda due frasi: “ti canterò per sempre, mia formica, amore mio” e “amore mio enorme, tu e io per sempre, all’infinito”. Anche Cettina Caliò non ha smesso infinitamente di cantare, anzi.

E se la tela di Fontana ha un fondo d’appoggio, un muro, su cui il quadro è inevitabilmente appeso, così non accade per le parole della poetessa che viaggiano attraverso i mondi senza mai frenare, e senza distinguere più, se mai l’hanno fatto, tra quel che era vivo e ciò che continua ad esserlo, nell’eco delle parole.

Caliò impara “la figura paziente dello zero”, “solo fino a un certo punto/ si spiega lo strappo/ fra il non domandare e il non importa”, vive “l’illusione di esserci perché/ qualcuno dice il nostro nome accidentalmente”. Sono parole che stanziano in una bolla sospesa che, a dire il vero, precede l’accaduto (la prima parte della silloge intitolata “La forma detenuta” già era uscita, diversi anni fa) ma, come spesso accade alle parole, divengono a posteriori profetiche, rappresentando l’impossibilità e insieme la necessità di “ricucire i luoghi /feriti/di una vita che qui /è stata vita/per un poco”.

E poi quando “tu non ci sei/ e mi cade addosso/ il cielo che fu”, allora non c’è altro scampo. “Di tu in noi”, la seconda parte della raccolta s’intitola così, non è altro che ciò che rimane: “l’attimo da sbrogliare è lungo […] nell’infinita luce passante/ per un solo dolore”.

Con parole misurate che più tacciono e più dicono Caliò racconta lo strazio, accettato, della perdita. Il controcanto è il cielo, non perché custodisca alcunché, che forse (o per certo) resta in lei e nelle sue parole per dirlo, ma come luogo “dove l’azzurro si fa curva/ e la vita è una frattura/in fiore sul muro” e allo stesso tempo la fa dire: “Non so ancora che forma/ ha […]” e ancora: “Sarà sempre questo crudo frammento/ di cielo/ il nostro indirizzo”.

Il cielo non cade, quando “ogni cosa fa tempesta”, purtroppo. E nel dubbio, nel dubbio qualsiasi che attanaglia chi viene privato di quanto di primario aveva, è possibile tentare di tutto: dire ancor ciao, accompagnarsi al “gatto a chiazze che sa di noi”, chiamarsi per chiamare l’altro, temperare matite che non scriveranno più e ricucire bottoni, accarezzare “quello che resta”.

La terza parte della raccolta sono le “Note di testa”, le prime di un profumo a salire nel naso e nel cervello, e le più evanescenti. Ma al contempo quelle sui cui si può meditare, ricostruire, inveire, tentare un fugace ragionamento perché, comunque “non è chiaro/se arriva o se ne va/nell’equivoco dell’aria che manca”.

Cettina Caliò in questa breve e infinita raccolta di versi dà voce al dolore sommesso che non si ha il coraggio di pronunciare. Alla contraddizione che ci definisce ogni volta che prendiamo il respiro e facciamo un gesto anziché il suo contrario. Viviamo invece di morire.

“… Adesso
coi pugni e le parole
che smettono di essere
ti vorrei
naso a naso
solo per dirti
me ne vado

e poi crollarti
addosso”

 

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Autore

v.berengo@minima.it

Valentina Berengo, veneziana, giornalista culturale, scrive di narrativa su quotidiani e riviste online, tra cui «Il Foglio», «minima&moralia» e «Il Bo Live», il magazine dell’Università di Padova. È tra i fondatori di Scrittori a domicilio e di Personal Book Shopper - dimmi chi sei e ti dirò cosa leggere, ideatrice della rassegna letteraria L’anima colta dell’ingegnere ed editor della collana di saggistica divulgativa dell’Università di Padova I libri de Il Bo Live. Da anni presenta autori in libreria, in biblioteca, online e ai festival Rovigoracconta, Pordenonelegge, La Fiera delle Parole, Freschi di stampa e altri, oltre che al Premio Mario Rigoni Stern, e fa parte della giuria tecnica del Premio Letterario Internazionale Latisana per il Nordest. È laureata in Ingegneria e ha un dottorato in Ingegneria geotecnica.

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