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“Pronunciarsi elegiacamente su un mondo imposseduto”, come ha detto Elio Vittorini, significa, forse, riportare il discorso umanistico all’unicità della funzione di testimonianza attraverso la mediazione ancora concepibile dell’ideologia, riunendo la concretezza delle faccende del mondo e della storia al linguaggio, nella contesa conciliabile, seppur a costi altissimi (anche artistici), tra industria e letteratura.

Se supponiamo che possa essere vera l’idea marxista di prodotto che produce il produttore e il consumatore (e, nel nostro caso, lo scrittore, il lettore e persino, malauguratamente, il critico, estraniando la fruibilità dei risultati letterari e creando monopoli di forma e contenuto), è pur vero che finanche davanti alla carenza di vendite, evidente soprattutto in poesia, ci sono state e continuano ad esserci libere espressioni di impegno artistico.

Le intenzioni di Giuseppe Langella che da direttore di collana e da curatore dell’antologia Sfilata d’alti modi (edita da La scuola di Pitagora) ha selezionato molte voci poetiche, chiamandole ad esprimersi su un personaggio esemplare nella società, si manifestano già dal titolo che appare come una specie di pastiche tra “alta moda” e “altri mondi”.

È evidente, poi, la volontà di esaltare la pars construens a scapito, almeno questa volta, della vis polemica (spesso scarsamente argomentata) che ammanta di solito la poesia civile e molti discorsi generali sulla poesia di oggi.

I ritratti in prosa che accompagno i testi in versi dei vari poeti scelti da Langella non sono solo note a margine ma una vera e propria prosecuzione delle poesie: la scrittura prosaica è composta e sorvegliata come quella poetica, stabilendo un punto di equilibrio tra la verve artistica e l’affinità elettiva, tra l’autore e il personaggio ricordato.

Non mancano casi in cui intento civile e intento positivo coincidono, come accade nella poesia di Alberto Bertoni che ricorda lo scrittore Vitaliano Trevisan.

Papa Francesco è ricordato da Davide Chindamo come emblema di chi riesce a dire con parole semplici concetti molto complessi. È presente anche Padre Turoldo che, nei versi di Renato Minore, milita con un’arma scandalosa: la speranza.

Un posto importante hanno i piccoli eroi e le piccole eroine del quotidiano che ogni giorno partecipano della possibilità di cambiare del mondo: il lettore sarà felice di scovarli tra i nomi citati, di cui alcuni molto noti. Ci sono perfino i profeti “controvoglia”, la cui disobbedienza è politica, come Giona di Roberto Deidier.

Colpisce come, in ogni ritratto, e nella relativa scelta autoriale, ci sia sempre una radice personale, di esperienza reale o di connessione effettiva con la propria vita, che allontana qualsiasi retorica vuota e fa emergere la possibilità di riconoscere all’alterità la dignità di un’alternativa civilmente ed eticamente sostenibile.

In un contesto sociale divisivo, proteiforme e stratificato come il nostro, in cui la cultura (nella sua “deriva”, per citare Berardinelli che a sua volta citava Barthes) è sempre più commerciale e commercializzabile, nonché dedita all’intrattenimento, si pongono quesiti seri, che talvolta diventano drammatici, sul fare poesia oggi.

Già Adorno aveva posto la questione centrale sull’opportunità di scrivere poesia dopo Auschwitz: è un ulteriore atto di barbarie, dopo la barbarie? Come si sentono gli scrittori, oggi, in un nuovo drammatico frangente in cui scelleratezza e violenza sono, ancora una volta, condizioni presenti e attuali? Paul Celan, con la sua vita e con la sua morte, a suo modo ha risposto non solo a Adorno ma al mondo intero, e mi sembra che possiamo continuare tutt’oggi ad ascoltare il suo lascito.

L’altra questione nevralgica è quella posta, per esempio, da Harold Bloom, il cui pensiero e la cui ricostruzione di un ormai estinto canone occidentale si fonda sulla necessità della forma (“supremazia estetica”), anche a scapito delle “energie sociali”, degli –ismi che tanto fanno paura anche oggi e, quindi, delle ideologie. Fa molto riflettere la definizione di “divinante trionfo sull’oblio” che lo stesso Bloom attribuisce al fare poesia, perfino al di là della memoria stessa, come un atto agonistico intimo e insieme collettivo.

Quello posto da Bloom, o che ci poniamo attraverso il suo insegnamento, è un tema che contiene molti problemi interpretativi che abbracciano letteratura, sociologia, psicologia, storia: quello dell’io letterario che deve confrontarsi con la coralità (contraddittorietà?) di un messaggio plurale, quello dell’etica a confronto con l’estetica, del dubbio contro la retorica del dubbio e, non ultimo, quello della censura commerciale (la censura giuridica ce la siamo lasciata alle spalle) e dell’autocensura.

Ancora, un focus non trascurabile è quello inerente alla critica che, come scrittura indiretta (per dirla con Barthes) compartecipa dello spessore di un’opera, sia esso contenutistico e/o estetico.

Inoltre, come sosteneva Fortini, da noi non è stato accusato il dramma artistico-intellettuale della transizione ad una cultura di massa, industrializzata e asservita alle classi dominanti, così come invece è stato in altri Paesi, con tanto di emigrazione antifascista. Cosa rivela questa situazione rispetto alla percezione dell’impegno civile dello scrittore italiano?

Esiste un divario, inoltre, non sempre visibile eppure ben concreto, tra l’apparato contenutistico d’impronta sociale e politica, e quello soggettivistico-formalistico, come se le due cose fossero diventate sempre più inconciliabili o, ancor peggio, ambiguamente confondibili fino all’indesiderata supremazia unica di una delle due.

Secondo Fortini, già da mezzo secolo si assiste sia alla formalizzazione dell’indagine sociologica sia al suo opposto, cioè la lettura sociologica di un’estetica presa in prestito da un dilagante positivismo che abbrevia esponenzialmente le distanze dovute tra le persone e le cose, nonché tra le parole e le cose. Come si può rimanere in equilibrio, sempre che un equilibrio sia ancora concepibile?

G.B.:Come si possono coniugare, oggi, poesia civile e lirismo?

G.L.: Non credo che la poesia civile debba per forza giocare la carta del lirismo. Nulla vieta che lo faccia, ma di per sé il lirismo non è un ingrediente necessario alla poesia civile. Ritenere che senza lirismo non si dia poesia, né quindi poesia civile, è un pregiudizio crociano che cozza contro la teoria dei generi letterari ed è smentito da una tradizione plurimillenaria. Ogni tipo di poesia ha i suoi statuti, coerenti con la particolare natura del rapporto istituito di volta in volta dall’autore con la materia, col linguaggio e con la destinazione del testo.

Nella poesia civile, se vogliamo rifarci alle funzioni di Jakobson, guadagnano una certa importanza la funzione referenziale, per il suo legame intrinseco coi fatti di cronaca e in genere con la realtà esterna, e la funzione conativa, per la tensione militante (Luzi avrebbe detto “agonica”) che la anima, per l’appello all’azione comune che la pervade. L’uno e l’altro aspetto dipendono, peraltro, da una caratteristica abbastanza peculiare della poesia civile, ovvero l’attenzione portata sull’attualità. La poesia civile non guarda, se non subordinatamente, all’uomo universale, né risale al mondo delle idee; attinge, invece, la propria materia dalla realtà circostante; è la poesia per eccellenza dell’hic et nunc, che registra spesso in presa diretta, con prontezza cronachistica e vivacità polemica, per persuadere la ragione e infiammare gli animi.

In questo senso, la poesia civile si può accoppiare indifferentemente, ai suoi fini, con la lirica o la satira, con l’epica o l’elegia, con la drammatica o la didascalica, e persino con l’encomiastica o l’utopia, senza tuttavia confondersi con nessuna di esse.

Consentimi, a margine, un’ulteriore considerazione sul giudizio di Adorno cui hai opportunamente accennato, perché ritengo che tutti i poeti, come a suo tempo Paul Celan, dovrebbero sentirsi messi alle corde da quel giudizio, interpellati e discussi. A rilanciarlo, drammaticamente, è lo sterminio del popolo palestinese che si sta consumando nella striscia di Gaza ad opera dei nipoti della shoah, con la connivenza di molti. Ha senso, dunque, scrivere ancora poesie dopo questi fatti atroci, o non è diventato un ulteriore atto di barbarie, un’ingiustificabile offesa alla memoria di tali orrori? All’inizio, la condanna di Adorno era stata netta, addirittura tranchante; ma in uno scritto del 1958, Note per la letteratura, egli in parte ritrattò, o piuttosto chiarì meglio il suo pensiero, rincarando, se possibile, la dose: «Il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz […] non si può più immaginare un’arte serena. Essa degenera obiettivamente in cinismo»; come a dire che, di fronte all’orrore di un genocidio di quelle proporzioni non era più ammissibile concepire una poesia che perpetuasse una visione armoniosa, estatica, idilliaca, del mondo. Soltanto un cinico, ai suoi occhi, avrebbe potuto continuare imperterrito a celebrare, dopo Auschwitz, la bellezza, l’incanto, la magia, di un paesaggio o il sogno romantico di due innamorati, come se quella mostruosa pulizia etnica non avesse aperto un’insanabile ferita nella storia del genere umano. Che è poi la stessa opinione espressa, parecchi anni dopo, da Primo Levi in un’intervista: «Io credo che si possa fare poesia dopo Auschwitz, ma non si possa fare poesia dimenticando Auschwitz. Una poesia oggi di tipo decadente, di tipo intimistico, di tipo sentimentale, non è che sia proibita, ma suona stonata. Mi pare che la poesia oggi, in qualche modo dovrebbe essere impegnata». Non, dunque, ogni tipo di poesia, dopo Auschwitz, e dopo Hiroshima, e dopo Srebrenica, e dopo Gaza, è diventato anacronistico e inopportuno, meritevole di censura in quanto indice di cinismo, ma unicamente la lirica intimistica ed evasiva.

Anzi, a maggior ragione, dopo Auschwitz, dopo Hiroshima, dopo Srebrenica, dopo Gaza, ai poeti è richiesto un rinnovato impegno civile. La poesia deve tornare a fare attrito con la storia. Dobbiamo tornare a scommettere su una poesia che si faccia, per dirla con Lukács, rispecchiamento dinamico e critico del mondo del terzo millennio. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, diceva il vecchio Qohelet: questo, non c’è dubbio, è un tempo cruciale, per certi versi ultimativo; non si può restare in silenzio a guardare.

G.B.: E come far ancora coincidere poesia civile e necessaria cura della forma?

G.L.: Ogni genere di poesia ha i suoi talloni d’Achille. La poesia civile, dal punto di vista della cura formale dei testi, deve guardarsi in particolare dalla retorica e dall’eteronomia, ai cui eccessi la espone il rilievo che in essa acquistano, come si diceva, la funzione referenziale e la funzione conativa. Nessuno scopo, neanche il più nobile, può giustificare una brutta poesia intrisa di retorica, farcita di parole altisonanti e di frasi fatte, astrattamente ideologica, goffa, ingenua o corriva, priva di controllo e di rigore formale. Anche a costo di cadere nell’ovvio, va ribadito che la poesia civile deve essere prima di tutto “poesia”. Se il proprium della poesia civile fossero i contenuti che trasmette, non si distinguerebbe dalla storia, dall’informazione, dalla filosofia, dalla scienza, dalla sociologia, dal diritto o dall’economia. Il suo specifico non può consistere che nei modi della comunicazione, ovvero nella forma che viene data a quei contenuti e che è tale da cambiarne, se non la sostanza oggettiva, certamente l’impatto sul fruitore. Ciò non significa, beninteso, che la poesia civile non sia libera di sperimentare soluzioni espressive originali, né di adattare il proprio linguaggio alle sue speciali esigenze referenziali e conative, come esemplarmente hanno fatto, per dire, un Pasolini o un Volponi, un Fortini o un Raboni; significa semplicemente che la forma è un valore imprescindibile e che da essa dipende buona parte dell’efficacia persuasiva e politica del messaggio, destinata a generare, in fase di ricezione, l’attesa solidarietà e l’auspicato consenso. Questa avvertenza non vale, del resto, solo per i poeti civili, ma per tutti.

G.B.: Come si tutela la poesia dalla retorica e dalla mistificazione del dubbio o, ancor peggio, dai molti dubbi pilotati dalla demagogia e dalla politica?

G.L.: Per rispondere, devo fare una necessaria premessa. Almeno dal secondo dopoguerra, la poesia civile ha imboccato la strada dell’antagonismo nei confronti del potere (di qualsiasi potere), dei suoi tentacoli, dei suoi metodi, dei suoi miti, delle sue mistificazioni e delle sue narrazioni. In quanto presidio militante dei valori umani, essa è diventata per definizione la spina al fianco di ogni potere. Come ha scritto, non molti anni fa, Ennio Cavalli, la poesia civile è «scandalo» e «controcanto», pianta «bastoni tra le ruote» e «pietre d’inciampo», somiglia a un’«azione sindacale», o a un boicottaggio da «reparto guastatori». Ora, ogni potere, ieri come oggi, ma oggi più di ieri, per legittimarsi presso l’opinione pubblica e poter contare sull’indispensabile consenso, si serve dei suoi apparati propagandistici, cercando, anzitutto, di controllare e indirizzare l’informazione, ovvero di selezionare le notizie da diffondere e di farle raccontare in un certo modo. In termini più brutali, si serve di due armi potentissime di condizionamento delle coscienze, di occultamento della verità e di distrazione di massa: la censura e la manipolazione.

Di conseguenza, sul terreno dell’informazione e del giudizio sui fatti, la funzione antagonistica della poesia civile si esercita principalmente in due modi: colmando i silenzi, le omissioni, le reticenze, della comunicazione manovrata dal potere; e aprendo un contraddittorio con la narrazione ufficiale. Tale «controcanto», prezioso per la salvaguardia del pluralismo e della democrazia, appare oggi tanto più imprescindibile e urgente, di fronte a un sistema mediatico sempre più invaso da fake news e adulterazioni di ogni tipo. Nell’epoca dell’intelligenza artificiale e della post-verità la vigilanza del pensiero critico deve essere, se possibile, raddoppiata.

Ciò premesso, il dubbio non l’ha inventato il potere ma il libero pensiero, facendone il metodo principe per il vaglio delle fonti e l’accertamento della verità. Non a caso, la modernità (non sto pensando solo a Cartesio) ne ha fatto il suo grimaldello vincente per scardinare il principium auctoritatis dell’ipse dixit, per sovvertire l’ordine costituito, i privilegi e le gerarchie tramandate, e rimettere tutto in discussione. Il potere è uscito terremotato da questa moderna “tempesta del dubbio” (chiedo venia a Mazzini se piego in tutt’altro senso la sua celebre formula): si pensi a quel che è successo, anche nella periferica Italia, dall’Età dei Lumi al Risorgimento. Ma il potere, notoriamente, ha sette vite, è un grande trasformista, risorge dalle sue ceneri, digerisce anche i sassi e fagocita tutto; è quello, per intenderci, così ben descritto da De Roberto nei Vicerè e da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo. Così, a un certo punto, si è appropriato, furbescamente, anche del dubbio, facendo leva sulle filosofie relativistiche dell’ultimo secolo per accreditare l’idea che tutto è discutibile, che la verità non esiste, che la mia opinione vale quanto la tua, che vince chi urla più forte o ha maggiore consenso (donde l’ossessione dei sondaggi e della doxa) e che alla fine, come sentenziava La Fontaine in margine alla favola del lupo e dell’agnello, la raison du plus fort est toujours la meilleure.

Questa è certamente la peggiore delle mistificazioni, perché mira a disinnescare lo spirito critico, a toglierci di mano la carta del dubbio e del riso carnevalesco, a nascondere o divorare il fantomatico secondo libro della Poetica di Aristotele intorno a cui Umberto Eco ha costruito il giallo del Nome della rosa. Ma l’esercizio del dubbio, l’atteggiamento critico del sospetto e della mise en question, si può esercitare efficacemente anche contro questa mossa falsamente democratica, perfino anarchica, del potere, portandone in superficie il movente insidioso. Di nuovo, anche in questo caso la consegna è duplice, prevede una pars construens e una pars destruens: da un lato, la poesia civile difende sempre e comunque la ricerca della verità come un atto d’intelligenza umana ragionevole e doveroso, anche perché sappiamo un’infinità di cose non opinabili (compresi i campi di sterminio, le camere a gas e i forni crematori nella Germania del Terzo Reich, che non possono essere derubricati a incubi notturni o diffamanti notizie come vorrebbero i negazionisti; e compresa anche la forma sferica del nostro pianeta, con buona pace dei terrapiattisti); dall’altro, smonta i dubbi demagogici e i veleni di certe tesi politiche procedendo a due verifiche tanto elementari quanto discriminanti: il gioco dei perché e del cui prodest?, e il cambiamento sperimentale del punto di vista, secondo il modello della controstoria, che rilegge e reinterpreta i fatti dal basso anziché dall’alto, dalla parte degli ultimi anziché dei primi, delle vittime anziché dei carnefici, dei perdenti anziché dei vincitori, delle colonie anziché dei colonizzatori, delle donne anziché degli uomini e via dicendo.

E quando il messaggio del potere si fa più suadente e ambiguo, viene comodo applicare anche i procedimenti decostruzionisti, che consentono di scoprire e denunciare, a partire dal linguaggio, le aporie e le contraddizioni di ogni architettura ideologica. Insomma, il potere cerca di assorbire gli argomenti e i metodi critici dei suoi detrattori, ma anche i poeti civili possiedono e sono continuamente in grado di aggiornare i loro antidoti.

G.B.: Che idea ha della poesia civile in relazione al post-moderno?

G.L.: Anche qui è necessario chiarire, in premessa, che stiamo ragionando di due realtà che si collocano su piani diversi: il post-moderno, comunque lo si intenda, è una categoria storiografica che abbraccia molti ordini di fenomeni, non solo letterari, e i cui caratteri salienti s’inscrivono all’interno di determinati confini cronologici; la poesia civile, invece, rappresenta una particolare tipologia di scrittura letteraria più o meno praticata in qualsiasi epoca e per ciò stesso con caratteristiche formali e tematiche sensibilmente più flessibili. Il post-moderno ha uno sviluppo sostanzialmente sincronico, sviluppandosi in latitudine; la poesia civile si distende nell’asse del tempo, disponendosi quindi in longitudine. Basta questo per scartare in partenza qualsiasi ipotesi di figliazione o dipendenza.

Ma in effetti una relazione tra poesia civile e post-moderno sussiste e non potrebbe essere altrimenti, per un semplice motivo: che la poesia civile, come ho già accennato, è fortemente, anzi costitutivamente, radicata nel tempo, nella storia, con cui entra continuamente, e magari dialetticamente, antagonisticamente, in risonanza. Va da sé, perciò, che nel suo lungo tragitto a un certo punto abbia incrociato anche il post-moderno, un po’ come negli assi cartesiani la linea delle ordinate incrocia quella delle ascisse.

Lascio a te il compito disagevole di stabilire a che altezza cronologica il binario della poesia civile (dispongo sul foglio una linea doppia per assicurare all’incontro una qualche durata) abbia incrociato il binario del post-moderno, perché qui tocchiamo, come ben sai, una questione abbastanza spinosa e divisiva nella quale non mi pare il caso, ora, di addentrarmi. Ti posso solo dire, richiamando per brevità giusto qualche titolo emblematico, che il Pagliarani della Ballata di Rudi (1995) non è più il Pagliarani della Ragazza Carla (1962) e che, se confronto tra loro La religione del mio tempo (1961) di Pasolini, Cadenza d’inganno (1975) di Raboni, L’orologio di Bologna (1981) della Guidacci, Paesaggio con serpente (1984) di Fortini, Con testo a fronte (1986) di Volponi, Congedo della vecchia Olivetti (1996) di D’Elia, Femminimondo (2011) della Carnaroli e Il commissario Magrelli (2018) di Magrelli, ovvero alcuni dei libri più rappresentativi del canone vigente della poesia civile, mi accorgo che, fatta la tara alle differenti personalità in campo, queste opere disegnano una parabola su cui potrebbe essere istruttivo applicare il reagente del moderno e del post-moderno, sia in quanto problematizzano e rilanciano il ruolo dell’intellettuale e la funzione della poesia, sia in quanto rispecchiano abbastanza fedelmente le tragedie della storia repubblicana, le trasformazioni antropologiche degli italiani e la crisi morale della società odierna.

G.B.: Ci parla della collana che dirige, Fendinebbia – Laboratorio di poesia civile?

G. L.: All’origine del progetto c’è una constatazione: mentre fino a pochi anni fa parlare di poesia civile faceva ancora arricciare il naso a molta gente del mestiere, da un po’ di tempo a questa parte si comincia a respirare un’altra aria, di rinnovato fervore e di impegno militante. Si può misurare la portata di questo rilancio considerando, ad esempio, il capitolo delle opere collettive, esploso negli ultimissimi anni. Complici il covid, le guerre in corso e i genocidi, l’emergenza climatica, il collasso della sanità pubblica, i continui femminicidi, il caporalato e il trattamento schiavista dei lavoratori stagionali, i rigurgiti neofascisti, le derive autoritarie e sovraniste delle destre al potere nel vecchio e nel nuovo continente, lo scontro istituzionale fra politica e magistratura e i tanti motivi di allarme e di preoccupazione che turbano i nostri sonni, si è diffusa a macchia d’olio l’esigenza di unire le forze per levare una voce corale; donde la pubblicazione di parecchie lodevoli antologie tematiche dedicate ai problemi più seri della nostra epoca o a episodi di cronaca particolarmente significativi. L’idea stessa di ricorrere al mezzo dell’antologia per agitare certi temi nevralgici, coinvolgendo decine di autori anche di scuole poetiche diverse, dice di un’ansia nuova di restituire alla parola poetica una funzione pubblica, un’incidenza sociale.

Se poi facciamo passare i cataloghi delle collane di poesia, di quelle più prestigiose non meno che di quelle di punta o di nicchia, ci accorgiamo che diversi titoli stanno convergendo nella direzione della poesia civile. Io stesso, come sai, da anni sto dando impulso a questo civic turn, anche come poeta in proprio (l’ultima raccolta, uscita nel 2022, s’intitolava Pandemie e altre poesie civili). Il fenomeno è obiettivamente rilevante, ma si viaggia ancora isolati in ordine sparso, dentro contenitori quasi sempre generalisti. Fino all’anno scorso, infatti, se si toglie la collana “Le Zanzare” inaugurata nel 2014 dalla piccola ma combattiva Gilgamesh Edizioni, con una dozzina di titoli pubblicati finora, di autrici e autori soprattutto stranieri, espressione delle varie aree e realtà del mondo, non c’erano altre sedi editoriali espressamente dedicate alla poesia civile. “Fendinebbia” nasce da qui, con l’idea di colmare una lacuna oggi non più giustificabile, offrendo a chi fa poesia civile un punto di riferimento, un luogo di aggregazione e una vetrina immediatamente riconoscibile.

“Fendinebbia” si distingue dalle altre collane, oltre che per la sua impronta dichiaratamente civile, anche per la formula ibrida e plurima del suo catalogo, affiancando le esperienze passate a quelle in corso, e la dimensione critica e riflessiva alla produzione creativa; una collana concepita, perciò, oltre che come catalogo di opere, edite e inedite, degne di entrare nel canone della poesia civile, anche come laboratorio di temi, di linguaggi e di idee. Sfilata d’alti modi è il titolo inaugurale: per l’occasione, ho voluto chiamare a raccolta una rappresentanza molto significativa, per numero e per qualità, della vastissima comunità poetica nazionale attualmente in servizio. Ma nel frattempo sono usciti altri due volumi: un canzoniere civile di Angelo Gaccione, Una gioiosa fatica (1964-2022), e una monografia di Daniele Maria Pegorari intitolata Ceneri e gioventù. Il marxismo tragico nella poesia di Pasolini, uno studio bellissimo e molto innovativo sull’autore forse più emblematico della poesia civile del terzo Novecento. Attualmente è in lavorazione il quarto titolo, che sarà un manifesto della poesia civile, a firma mia e di Tania Di Malta. Il varo di questo nuovo progetto editoriale, come c’era da aspettarsi, ha sùbito suscitato, nel nostro ambiente, un certo interesse, tant’è che ho già pianificato le uscite per i prossimi due anni.

Non voglio chiudere questa intervista senza averti vivamente ringraziato per l’attenzione che hai dedicato al libro e alla collana e per l’opportunità che mi hai dato di approfondire i contorni dell’operazione.  

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1 commento

  1. Un articolo ricco di spunti (da approfondre con ulteriori letture).
    Leggerò l’antologia citata per capire se davvero ha ripreso vigore la poesia civile. Di questi tempi la sola che valga la pena praticare. Grazie.

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gblanco@minima.it

Gisella Blanco vive a Roma. Collabora con Il Foglio. Scrive per la rivista Leggere Tutti cartacea e on line, per Atelier Poesia cartaceo e on line, per Liguria Day, per Poesia di Luigia Sorrentino, per Smerilliana. Ha seguito la comunicazione della Fiera del Libro di Iglesias, del Premio Nazionale Elio Pagliarani, Elba Book e del TeverEstate per il Cibaldone Culture Festival. È giurata nel Premio Internazionale Città di Sassari per la sezione Poesia.

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