di Pietro Savastio
Da quando tutte le scuole di ogni ordine e grado sono finite nella tempesta delle chiusure e delle riaperture continue, il dibattito sulla scuola e sui giovani è tornato ad accendersi ed è stato decisamente più vivo che d’altri tempi. In questo contesto di desta discussione, balzano all’occhio, ed è interessante rilevarle, alcune formule e certi automatismi che costellano i nostri discorsi intorno al sistema scuola, ai suoi obiettivi e finalità, alle sue risorse. Nel dibattito pubblico esistono infatti talune deformazioni che può forse risultare utile sottolineare per provare a ragionare dei luoghi comuni che ci accompagnano e tentare così di fare luce sui rimossi e sulle false certezze che troppo spesso ci seducono. Di fronte ad una fase di cospicui investimenti in ricerca e istruzione, risulta importante capire in che direzione si muove il dibattito pubblico sulla scuola.
Inizio col dire che uno dei temi cari alla nostra stampa e che in generale trova ampio spazio nel discorso pubblico è quello della scuola digitale. In particolare, in questi tempi di didattica a distanza è stato inevitabile che si parlasse molto di tecnologie digitali e di infrastrutturazione della scuola 2.0, che è peraltro un argomento di grande grido anche in tempi ordinari. A questo proposito occorre subito dire che la questione dell’introduzione del digitale a scuola è spesso approcciata con grande superficialità da fazioni frontalmente opposte. Da un canto si tende a vedere nel digitale un grande nemico, l’ultimo colpo di grazia per destrutturare una scuola sempre più assediata da un mondo esterno fatto di rapidità, approssimazione, intrattenimento e consumo. D’altro canto, si considera il digitale una panacea per tutti i mali, capace di portare la nostra scuola vecchia e stantia in un futuro radioso e competitivo, moderno e fulgido. È evidente come di fronte a simili banalizzazioni e polarizzazioni il grande assente sia la modalità d’impiego, il discorso pedagogico e formativo, la quantità di tempo da destinare a tali strumenti in un ventaglio ampio di tecniche didattiche. “Quale uso della tecnologia?” è la domanda mancante.
Un secondo tema che gode di grandissima attenzione e dà molto da discutere ad esperti, appassionati e pan-opinionisti sono i finanziamenti pubblici. È cosa nota a chi abbia contezza dei dati e dei bilanci quanto l’Italia difetti di investimenti economici adeguati ad un sistema di istruzione oneroso quale è quello di un paese demograficamente pesante. Una riflessione seria, dunque, sulle condizioni minime (economiche) di agibilità di una scuola decente va senza dubbio fatto e il bisogno di risorse coglie senz’altro un punto importante. Cionondimeno è evidente come esista un appiattimento in questo senso, che elude una dimensione altrettanto importante se non prioritaria sulle modalità, le forme, i tempi della didattica, in un ripensamento globale della forma scolastica che possa produrre un cambiamento di direzione che lasci un segno – una riforma nel senso letterale, ossia un vero e proprio cambio di forma. Il richiamo ad un maggior investimento (non solo economico ma anche culturale) è dunque doveroso, ma merita di essere accompagnato da una più seria richiesta di ripensamento del sistema-scuola e del sistema educativo nel suo complesso. Altrimenti si cade in una tendenza purtroppo assai diffusa di ragionare in termini tutti quantitativi. Non di rado si finisce così a giustificare gli investimenti nella scuola in quanto produttivi, in un’ottica cioè di R&D, di welfare a rendere, logica buona solo per chi creda che tutto ruoti intorno al produrre e al formare “risorse umane” a più alto capitale e rendimento. Sono purtroppo le parole d’ordine in capo al nostro Ministero oramai da anni, non ultimo il neo-ministro Bianchi.
Nel discorso pubblico, infatti, l’obiettivo è sempre quello di un generico “rilancio dell’educazione”. Ma per garantire cosa? Per fare che? Quando si scava oltre la superficie si trovano pericolosi richiami ad una scuola macchina di competenze-per-il-lavoro, tutta attenta al potenziamento del capitale umano, per migliorare l’occupabilità e la produttività delle imprese, per modernizzare e innovare le nostre economie in un senso più competitivo. Si dispiega qui un’ottica neo-funzionalista dell’istruzione il cui compito sarebbe quello di garantire una migliore integrazione tra il sistema formativo e quello produttivo. In questo orizzonte assai povero di idee lo studente è un ingranaggio da modellare affinché si attagli alla macchina in cui è destinato ad inserirsi.
Tutte queste retoriche, e se ne potrebbero aggiungere molte altre, mancano l’unico punto veramente degno d’attenzione: i rapporti di emancipazione che la scuola è chiamata a realizzare e che invece non realizza. Non capiamo niente di cosa serve veramente alla scuola oggi se non partiamo dalle finalità che essa deve porsi. Il punto, allora, non è solo e soltanto combattere l’abbandono scolastico, innalzare il numero di laureati, migliorare la formazione e le competenze; il punto è, piuttosto, fare della scuola un luogo in cui si diventi persone libere e pensanti, soggetti capaci di autocondotta. Di questi aspetti la scuola si (pre)occupa troppo poco. E non è un caso: come sosteneva già Pierre Bourdieu in diversi suoi scritti degli anni ’70, i sistemi educativi corrispondono a precisi sistemi di organizzazione sociale: ogni società ha la sua scuola e ogni scuola ha la sua società, così la nostra è la scuola di una società in cui il potere è ancora distribuito in modo gerarchico e nella quale la libertà e l’autogoverno sono tenute in poco, pochissimo conto. Così il modello verticistico che vediamo nel mondo del lavoro e della politica si riproduce all’interno della scuola. Per la segmentazione dei compiti vigente nel nostro sistema produttivo c’è scarso bisogno di cittadini che pensino con la propria testa, che si regolino secondo principi autonomi, che pongano sotto critica i modelli cultural-organizzativi esistenti. Servono, come ha recentemente affermato il ministro Cingolani, “competenze tecniche”. In questo senso, sembra essere cambiato poco da quando Mario Lodi scriveva che «ai bambini comandano tutti e quindi lui si sente a posto: i genitori a casa, il prete in chiesa, il maestro a scuola; poi comanderà il dirigente al partito o al sindacato, il sergente al sodato e infine il padrone in fabbrica».
Insomma, la nostra società ha bisogno di esperti e tecnici, di persone capaci di fare più che di pensare. Quand’è che la società si sforza di creare dei soggetti in senso proprio? La scuola non sembra mettere tra le proprie priorità l’impegno a creare cittadini liberi. Realizza piuttosto pratiche quotidiane di imbalsamazione dei corpi, istruendo studenti performanti su compiti dati. Nessuno sembra interessato a creare cittadini liberi e interi, ma piuttosto ingranaggi di un sistema di potere. Tutto il contrario, insomma, di una scuola capace di educare all’autonomia – come scriveva Lamberto Borghi prefigurando una scuola degna di questo nome – ossia una scuola capace di «creare attitudini all’autogoverno, chiamare alla responsabilità nella vita individuale e sociale, sottrarre alle suggestioni autoritarie».
Allora il vero dibattito sulla scuola dovrebbe ruotare su questo: quale uso creativo possiamo fare della scuola affinché essa diventi un laboratorio per una società veramente democratica? Un abbozzo di risposta parte da qui: la prima impresa è rendere gli studenti dei soggetti, farli uscire da quello stato di minorità in cui li costringiamo a essere sudditi anziché cittadini, governati anziché (auto)governanti. E per fare questo, lo studente non può più essere un consumatore di saperi ma deve diventare un produttore di cultura e di domande. In questo sta la grande sfida dell’antipedagogia che libera i corpi e le menti dal giogo del potere, dalla vessazione di un sapere dall’alto da ingurgitare controvoglia. Se abbandoniamo per un momento le ossessioni sulle conoscenze, possiamo concepire l’educazione come una pratica interrogativa sul sé, sul mondo, sulle arti, sulle scienze. Una pratica che lascia spazio alla curiosità, all’interesse, alla gioia e al gusto di imparare, perché riconosce un ruolo attivo agli studenti, offrendo occasioni e metodi di ricerca. Non nel disprezzo dei saperi ma nel rispetto degli allievi e della loro natura. Altrimenti, finché le ragioni di quello che si fa in classe resteranno estranee, finché tutto sarà deciso da qualcun altro, lo studente si sentirà un congegno passivo di una macchina che non ha in nulla conto la sua soggettività. E non potrà così né creare, né decidere, ma solo accettare passivamente.
A questo proposito tornano utili le illuminanti parole di Gianni Rodari contenute ne “La grammatica della fantasia”:
Il maestro – secondo i membri del Movimento di Cooperazione Educativa – si trasforma in un “animatore”. In un promotore di creatività. Non è più colui che trasmette un sapere bell’e confezionato, un boccone al giorno; un domatore di puledri; un ammaestratore di foche. È un adulto che sta con i ragazzi per esprimere il meglio di se stesso, per sviluppare anche in se stesso gli abiti della creazione, dell’immaginazione, dell’impegno costruttivo in una serie di attività che vanno ormai considerate alla pari: quelle di produzione pittorica, plastica, drammatica, musicale, affettiva, morale (valori, norme di convivenza), conoscitiva (scientifica, linguistica, sociologica), tecnico-costruttiva, ludica, «nessuna delle quali sia intesa come trattenimento o svago al confronto di altre ritenute più dignitose».
Nessuna gerarchia di materie. E, al fondo, una materia unica: la realtà, affrontata da tutti i punti di vista, a cominciare dalla realtà prima, la comunità scolastica, lo stare insieme, il modo di stare e di lavorare insieme. In una scuola del genere il ragazzo non sta più come un «consumatore» di cultura e di valori, ma come un creatore e produttore, di valori e di cultura.
Non sono parole: sono riflessioni che nascono da una pratica di vita scolastica, da una lotta politico-culturale, da un impegno e da una sperimentazione di anni. Non sono ricette: sono la conquista di una posizione nuova, di un ruolo diverso. E si capisce che, a questo punto, infiniti problemi cascano addosso a questi insegnanti, chiedendo di essere risolti da capo. Ma tra una scuola morta e una scuola viva la discriminante più autentica è proprio questa: la scuola per «consumatori» è morta, e fingere che sia viva non ne allontana la putrefazione (che è sotto gli occhi di tutti); una scuola viva e nuova può essere solo una scuola per «creatori». È come dire che non vi si può stare da «scolari» o da «insegnanti», ma da uomini interi. «La tendenza verso uno sviluppo onnilaterale dell’individuo – direbbe Marx (Miseria della filosofia) – comincia a farsi sentire…»
È vero che lui diceva «comincia» tanti mai anni fa… A vedere per primi le cose, si può passare per sognatori, perché il tempo della storia non è quello dell’individuo e le cose non maturano a stagioni fisse, come le pesche. Marx non era un fantasticatore, ma aveva una fortissima immaginazione. E non nego che ce ne voglia una buona dose anche oggi, di immaginazione, per vedere oltre la scuola com’è, per figurarsi il crollo delle sue mura di “riformatorio a ore”.
Come insegnanti, educatori, attivisti, costruttori di comunità, siamo chiamati a lavorare sull’autonomia di bambini e bambine, ragazzi e ragazze per renderli dei soggetti a tutti gli effetti, portatori di pensiero e di prassi proprie, al crocevia tra libertà individuali e corresponsabilità collettive. Anziché perpetuare modelli antichi e inservibili occorre mirare a una rivitalizzazione delle pratiche educative e smetterla con l’educazione morta e autoritaria che produce sistematiche oppressioni. Ricominciamo, invece, a lavorare dentro e fuori la scuola, nell’animazione territoriale e nelle classi, per produrre consapevolezza ed emancipazione, nel solco della migliore pedagogia attiva.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Al di là di tanta retorica, il concetto portante è questo: “la scuola non sembra mettere tra le proprie priorità l’impegno a creare cittadini liberi. Realizza piuttosto pratiche quotidiane di imbalsamazione dei corpi, istruendo studenti performanti su compiti dati. Nessuno sembra interessato a creare cittadini liberi e interi, ma piuttosto ingranaggi di un sistema di potere”. La scuola deve tornare a insegnare. E nel mare magnum delle attività inutili che la distraggono dalla sua prioritaria vocazione, oggi il tempo per insegnare manca, e non è questione di metodologie, ma proprio di tempo: troppe cose inutili e poca sostanza. La scuola tornerà a formare cittadini liberi e completi quando si restituirà ai giovani la possibilità di CONOSCERE e studiare. Senza conoscenze non si va lontano.
Rispondo citando il mio amico e compagno di cammino verso l‘educazione diffusa per superare la scuola dell‘obbedienza al lavoro ed al mercato, ai dogmi ed agli stereotipi sociali: “Quanto sono belli e buoni i nostri pedagoghi e educatori! Pieni di pie intenzioni e di belle trovate!
Forse bisognerebbe raccontare loro come è accaduto che sia ancora COSI’ la scuola dopo più di cent’anni dalla sua nascita.
Forse dovrebbero intendere perché bambini ragazzi sono stati deportati nelle scuole e non nei giardini dell’eden che talora immaginano.
Occorre comprendere a fondo il ruolo dell’infanzia e dell’adolescenza nelle nostre società altrimenti si fanno tanti bei castelli in aria che non cambieranno mai nulla.
Bambini e ragazzi continuano solo ad essere oggetto di quella che Marx chiamava riproduzione sociale, disciplinamento della forza lavoro, segregazione, manipolazione e assoggettamento in funzione del sistema del mercato e della produzione di merci.
Assodato questo, chiunque responsabilmente voglia cambiare le cose, sempre che sappia cosa vuole cambiare, deve partire da questa consapevolezza.
Occorre, non vorrei ripeterlo all’infinito, ABBATTERE LA SCUOLA, che IN SE’, intrinsecamente, è letteralmente costruita secondo lo schema dell’oppressione della forza lavoro, con gli stessi protocolli normativi, le stesse scissioni, lo stesso sfruttamento del tempo e della vita e con un destino evidente di fallimento dei suoi obiettivi piamente dichiarati (un po’ come quelli della costituzione tanto belli quanto costantemente traditi), rispetto a risultati quelli sì raggiunti, di produrre individui portatori di un sapere frammentato e inutilizzabile nella maggior parte dei casi, obbedienti e incapaci – nella grandissima maggioranza – di esercitare una cittadinanza critica, attiva e oppositiva.
Quindi, se si vuole cambiare, il primo passo è FARE FUORI LA SCUOLA, reimmettere bambini e ragazzi nel tessuto della vita reale facendo sì che questa vita reale, la nostra -DI NOI ADULTI- cambi e sia in grado di accoglierli e accompagnarli. Che il disegno dei nostri territori cambi, in modo da poterli ospitare mentre crescono verso la LORO AUTONOMIA, e non assorbendo il sapere che alcuni ritengono utile per loro per inserirsi al più presto nel mondo del lavoro. Per assicurargli, con L’EDUCAZIONE DIFFUSA che alcuni veri rivoluzionari della CONTROEDUCAZIONE hanno messo a punto, di individuare i LORO TALENTI, i LORO DESIDERI, e dare forma alla LORO VITA.“