Si terrà dal 8 al 10 luglio a Pesaro il nuovo appuntamento con Popsophia, il festival che indaga i fenomeni pop della cultura di massa. L’evento, diretto dalla filosofa Lucrezia Ercoli, prende spunto e fa omaggio a Marcel Proust, nella ricorrenza del centenario dalla morte: sarà infatti “Il tempo ritrovato” il tema di questo anno.

Allargare lo sguardo grazie agli strumenti della filosofia uscendo dalla cronaca martellante di questi giorni e sfuggendo all’infodemia che caratterizza la narrazione della guerra ai tempi dei social. Questi gli obiettivi di Popsophia che per questa XII edizione vuole fare una riflessione sul tempo filosofico e scientifico. Andare alla scoperta dei quello che sentiamo di dover recuperare dopo gli anni della pandemia e riflettere sugli spettri del passato che ci troviamo ad affrontare oggi. Proprio da questi temi, per anticipare l’appuntamento pesarese, la direttrice del festival Lucrezia Ercoli riflette in un articolo esclusivo per Minima et Moralia.

di Lucrezia Ercoli

“Credo che la vita ci sembrerebbe improvvisamente deliziosa, se fossimo minacciati dalla morte come voi dite. Pensate, in effetti, quanti progetti, viaggi, amori, studi, lei – la nostra vita – tiene in stato di dissoluzione, invisibili alla nostra pigrizia che, sicura del futuro, li rimanda senza tregua. Ma se tutto questo rischia di essere per sempre impossibile, come ridiventerebbe bello! Ah! Se solo il cataclisma per questa volta non avesse luogo, non mancheremo di visitare le nuove sale del Louvre, di gettarci ai piedi della signorina X, di visitare le Indie”. 

Con queste parole Proust risponde alla domanda posta dal quotidiano francese “L’intransigeant” nell’agosto del 1922: “Uno scienziato americano annuncia la fine del mondo, o almeno la distruzione di una così vasta parte dei continenti, e in maniera così improvvisa, da rendere certa la morte per milioni di esseri umani. Se questa divenisse certezza, quali ne sarebbero, a parte il vostro, gli effetti sull’attività degli uomini tra il momento dell’acquisizione di tale certezza e il minuto del cataclisma? Infine, quanto a voi personalmente, che cosa fareste prima dell’ultima ora?”

Sono passati pochi anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale e dell’epidemia di influenza Spagnola, due eventi catastrofici che hanno causato milioni di morti e hanno tinto di nero le dolci speranze della Belle Époque. Il giornale, appigliandosi alla predizione di un imprecisato scienziato americano, profetizza ai suoi lettori l’imminente apocalisse e chiede allo scrittore francese di ipotizzare le reazioni degli uomini di fronte all’incombente spettro della fine. 

Cosa faremmo se avessimo coscienza dell’arrivo della fine del mondo? Proust vive già dentro la catastrofe, segregato nella penombra della sua casa, assillato dai sintomi di una malattia che gli colpisce i polmoni, ossessionato dalla conclusione della sua opera. Risponde in poche righe, senza sapere che la fine del suo mondo era alle porte, sarebbe morto neanche tre mesi dopo, il 18 novembre di quello stesso anno.  

La pandemia mondiale da COVID-19 ha evocato anche per noi, generazione poco avvezza al confronto con la portata mortifera delle catastrofi, lo spettro dell’apocalisse. E ora i fantasmi del Novecento tornano a infestare il presente: il ritorno della guerra in Europa, lo scenario di una guerra mondiale, la minaccia dell’utilizzo di armi nucleari, la paura che la specie umana sia destinata all’autoannientamento.  

Apocalisse – lo dice l’etimologia della parola che deriva da “apo, non” e “kalyptein, coprire” – significa “rivelazione”. L’apocalisse è uno svelamento che ci fa scoprire una verità, ci fa vedere le cose con uno sguardo diverso, ci mette in contatto con una parte di noi stessi che non conoscevamo. L’apocalisse è una “visione” che ci dà un nuovo punto di osservazione sul mondo, fuori e dentro di noi. 

E se la minaccia dell’apocalisse è davvero un’epifania allora è l’intera nostra vita che deve cambiare di segno: progetti rimandati sono riscoperti, desideri rimossi tornano urgenti, speranze sopite si riaccendono. Il pericolo della fine imminente scansa la pigrizia, ridefinisce le priorità e ridisegna i valori. Se la catastrofe sarà scongiurata – abbiamo promesso a noi stessi – “niente sarà più come prima!”     

Lo spettro della fine – mentre eravamo rintanati delle nostre case e potevamo vedere il mondo a distanza, protetti dai vetri delle nostre finestre – ci ha concesso un nuovo sguardo sul mondo, ci ha consentito di percepire il senso delle cose nel momento della loro assenza e lontananza. 

Lo stesso Proust, nella raccolta Les plaisir e le jours nel 1896, esprime il potenziamento della sensibilità causato dall’isolamento paragonando la sua condizione a quella di un personaggio biblico: Noè, costretto a starsene chiuso nell’arca per 40 giorni mentre sulla terra infuriava il diluvio universale. “Più tardi fui spesso malato e per lunghissimi giorni dovetti anch’io rimanere dentro l’arca. Compresi allora che mai Noè poté vedere il mondo meglio che dall’arca nonostante che fosse chiusa e che sulla terra regnasse la notte”. Forse è vero che non avevamo mai visto bene il mondo e la vita – con le loro meraviglie e i loro orrori – come da dentro la nostra arca durante di distanziamento sociale. 

Ma, continua Proust su L’intransigeant, “il cataclisma non ha luogo, ed ecco che non facciamo niente di tutto questo, perché ci troviamo reinseriti nel pieno della vita normale, dove la negligenza smorza il desiderio”. 

Passata la tempesta, sedata l’emergenza, si ritorna lentamente alla normalità. Il tran tran della vita quotidiana allontana il ricordo di quel tempo eccezionale, carico di senso grazie all’incombere della fine e alla sospensione della routine. L’avvicinarsi dell’apocalisse aveva reso la vita “deliziosa” perché l’impossibile sembrava possibile. Tutto torna terribilmente normale e ordinario.   

Il tempo della catastrofe si è ormai trasformato: il tempo dell’emergenza si è convertito nel tempo della convivenza. Anche l’escalation mediatica della guerra con i suoi incubi apocalittici si è rapidamente sedata trasformandosi in un rumore di fondo con cui possiamo tranquillamente convivere. 

Il “tempo ritrovato” dopo la catastrofe è un ritorno di quella che Proust chiama la nostra “seconda natura”: l’abitudine. L’abitudine, certo, è essenziale per sopravvivere, senza di lei il nostro spirito sarebbe impotente, saremmo incapaci di “renderci abitabile” perfino una stanza nuova. Ma quest’istinto di sopravvivenza abitudinario ha anche un’influenza anestetizzante sui nostri sensi: ci impedisce di pensare altrimenti, di vedere la “parte misconosciuta della realtà”, di percepire le cose belle e anche quelle “infinitamente tristi”, di conoscere “le crudeltà e gli incanti” della nostra prima natura. Di solito, dice Proust, viviamo con il nostro essere ridotto al minimo e “la maggior parte delle nostre facoltà resta addormentata, riposando sull’abitudine che sa quel che c’è da fare e non ha bisogno di loro”. 

Dopo il diluvio, quando lo spettro della fine si è allontanato, siamo ansiosi di acclimatarci, assuefacendoci a nuove abitudini. I desideri dei tempi estranei tendono a spegnersi nella supina accettazione di nuove consuetudini. L’abitudine è la prima a spuntare “sulla roccia apparentemente più desolata”.

Forse questo è il rischio più grande: abituarci a una nuova normalità, immergerci in nuove abitudini, senza accorgerci che il mondo, nel frattempo, è diventato meno bello e meno libero di prima. Il pericolo è che questa sia l’ennesima apocalisse senza apocalisse, apocalisse senza rivelazione e senza verità. 

Ascoltiamo le ultime parole che Proust consegna al quotidiano parigino: “eppure non avremmo dovuto aver bisogno del cataclisma per amare la vita che oggi ci è data. Sarebbe stato sufficiente pensare che siamo esseri umani e che la morte può arrivare stasera”.

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