di Antonella Cilento
Cosa manca al nostro tempo? L’ascolto. Ascolto è tempo, è immersione totale, è esperienza.
Se cancelliamo il tempo dell’esperienza, annulliamo la memoria della vita. Il nostro mondo crolla poiché cancelliamo l’arte come esperienza e l’esperienza come materia profonda dell’arte. Il nostro presente rischia di riempirsi, da un lato, di artisti che non disegnano, scrittori che non leggono, musicisti che ignorano il suono e, dall’altro, di spettatori passivi, lettori pigri, ascoltatori spaventati.
Cosa significa ascoltare davvero un’opera, scritta, suonata, dipinta, fotografata, scolpita o filmata? Cosa significa farsi attraversare dall’esperienza, lasciarsi sconvolgere, spostare, cambiare? Mentre ci distraiamo di continuo, assorbiti dal movimento ansiogeno dei nostri device, ci perdiamo le facoltà più preziose dell’esistenza: ascoltare con gli occhi, toccare con le orecchie, gustare con le mani.
Scrive Giuseppe Montesano in Lettori selvaggi che bisognerebbe “vivere in maniera non infame e miserabile, vivere non reprimendo e tagliando passioni e amori, ma facendo crescere e fiorire più passioni e amori. La vita vera è altrove? Allora l’altrove va cercato con ogni nostro desiderio. Rubiamo tempo vivo agli schermi menzogneri e alle relazioni fasulle, e leggiamo, ascoltiamo, pensiamo, sogniamo.”
Oggi avremmo davvero bisogno di essere ascoltatori selvaggi e rompere la falsa, mediocre comfort-zone in cui tutti viviamo, sedati da dispositivi, piattaforme, parcellizzazioni dell’intensità, che fanno scomparire tanto la paura quanto la bellezza.
Se ascoltiamo profondamente la letteratura ci accorgiamo che l’allarme è stato suonato per tempo, sin dalla prima metà del Novecento. A questo si riferiva John Cheever in uno dei suoi racconti più noti, “Una radio straordinaria”: una coppia acquista una radio, tecnologia quasi magica per gli anni Cinquanta, e si trova ad ascoltare, invece della musica classica, l’intima, scandalosa, mediocre vita dei vicini di casa. E non solo la radio fa da catalizzatore mesmerico della verità nascosta di ognuno: in un racconto di Massimo Bontempelli, “Maschera di Beethoven”, un uomo assiste impotente alla follia della donna che ama ed ha acquistato la maschera in gesso del volto di Beethoven. Poiché la ragazza non riesce più a suonare, le regala un fonografo che, però, esplode. Ne “Lo Spettro” dell’uruguayano Horacio Quiroga la moglie di un celebre attore di cinema e il suo migliore amico si amano in segreto: l’attore muore, la relazione può fiorire ma restano il senso di colpa, il tradimento: gli amanti tornano ogni sera al cinema per vedere i film del morto assistendo alla progressiva fuoriuscita dallo schermo dell’attore, come se fosse ancora vivo…

L’arte nell’epoca della sua riproducibilità, dal fonografo alle piattaforme, rivela il nostro lato in ombra: videocassette che uccidono, film che si confondono con il reale, reality che si innescano nella nostra vita, social e device sono la nuova frontiera del panico e della sedazione. L’oggetto artistico mostra la sua natura ambigua se piegato alla riproduzione commerciale: l’opera ruba l’anima o è lo strumento che la riproduce a mostrarci l’abisso?
Penso a un racconto di Elsa Morante, che resta come una spada nel cuore di chi lo legge: ne “Lo scialle andaluso” il tema dell’ascolto è centrale. Il figlio che non si sente né visto né ascoltato dalla madre attrice si dedica all’ascolto mistico della religione. Ma è una copertura, un dispetto alla madre. Quando, sua madre smette di pregarlo, inseguirlo, attenderlo, quando smette anche di rispondere alle lettere che il figlio le manda dal collegio e cessa di inviargli cartoline, lui la vede sul manifesto del suo paese, bellissima, benché si tratti di uno squallido varietà. Non è mai voluto andare a teatro e adesso ci entra e vede per la prima volta quel luogo che, come l’oceano, scrive Morante, è abitato da tutti e non appartiene a nessuno. E questo punto del racconto da cui l’inganno si capovolgerà, la madre lasciando il teatro, il figlio credendo che l’abbia fatto per lui mentre si tratta di un abbandono per vecchiaia e stanchezza, resta forse la più straordinaria descrizione dell’arte, di qualunque arte: l’ascolto profondo è un oceano. Un oceano che non ci appartiene ma ci accoglie. Ci immergiamo e scompariamo, come in un mandala che, compiuto, viene spazzato via.
La vita brilla, nell’ascolto profondo, ad altissimo voltaggio. E questo ci spaventa, per questo siamo disposti a barattare l’intensità con la distrazione, restando sospesi, a galleggiare nella finzione di infiniti esordi e di inutili, ripetitivi, commerciali orgasmi.
L’anti festival di sortilegi senza menzogne, questo era il sottotitolo, “Ascoltatori selvaggi”, diciassettesima edizione di “Strane Coppie”, manifestazione storica realizzata Lalineascritta Laboratori di Scrittura ha cercato di dare una risposta a tutto questo.
Si è appena concluso nelle sue tre parti, a Milano il 16 ottobre nella Sala delle Colonne di Banco BPM, a Napoli il 18 ottobre nel Museo Nitsch, che la Fondazione Morra ha dedicato ad Hermann Nitsch, artista e azionista viennese, e il 26 ottobre a Sant’Arpino, nel territorio casertano dove è nata la più antica letteratura italica, l’atellana, nella cornice di archeologia industriale dell’Opificio Puca.
Idea folle? Da trentatré anni conduco e porto al successo idee folli: una grande scuola di scrittura al Sud, far lavorare in ambito editoriale giovani forze meridionali, realizzare festival e rassegne del tutto diverse dal main stream.
Questa volta, si è trattato, appunto, della commistione fra letteratura (Giuseppe Montesano, io stessa, José Vicente Quirante Rives, Marta Morazzoni), arte contemporanea (un collettivo di artisti del territorio), musica (un fonosofo e la sua compagna, ovvero Theatrum Phonosophicum alias Leopoldo Siano e Shushan Hyusnunts) e teatro (Imma Villa, Gea Martire, Paolo Coletta).

Tre giornate per tornare al suono, alla parola, all’immagine e al senso connesso della visione che hanno registrato uno straordinario successo di pubblico. Straordinario per quantità, per continuità, per varietà: poiché gli eventi legati alla parola sono stati fiumi in piena (per oltre due ore Giuseppe Montesano e Leopoldo Siano, partendo da stimoli musicali classici, tribali, sperimentali, hanno ragionato sulla devastazione che nelle nostre vite è il tappeto sonoro costante che ci accompagna impedendo l’ascolto profondo e autentico della musica); perché le opere site specific hanno coinvolto del tutto i partecipanti (la yurta da meditazione costruita e performata da Iole Cilento, illustratrice, artista e scenografa, sul terrazzo affacciato sul golfo di Napoli si è riempita senza sosta di bambini e adulti che desideravano respirare, riposare, meditare, ricevere un messaggio); perché l’interazione fra opera d’arte e conversazione e lettura teatrale è stata pura magia: Teresa Dell’Aversana, scultrice di vetro, resina e marmo, ha realizzato una foresta pendula di vetri di cellulare scolpiti che le persone e il vento facevano tintinnare come un continuo brindisi. Per un lungo attimo nella Sala delle Capriate del Museo Nitsch, mentre discutevamo di cinema e letteratura, è sembrato d’essere dentro il capolavoro di Powell e Pressburger, “Narciso nero”, ovvero dentro un tempio buddista in Tibet: il film fu in realtà girato a Pinewood e noi eravamo, in realtà, dentro un museo, perfetta dislocazione dell’immaginazione.
E ancora, perché il documentario sul fiume Volturno realizzato da Maria Giovanna Abate, Francesco Capasso e un collettivo di artisti dell’Opificio Puca ci ha trascinato nella regione conradiana ed epica del nostro ambiente devastato eppure magico. Dalle foto di Salvatore Di Vilio, maestro storico della fotografia italiana e testimone della Terra di Lavoro, alle video installazioni di Maria Giovanna Abate, all’installazione sonora riassuntiva del regista cinematografico Luigi Pingitore, tutto ha avuto un senso. Un senso complesso, non confortevole, non consumabile ma potentemente percettivo.
Un vero e proprio spettacolo è stata la lettura integrale a due voci de “Lo scialle andaluso” realizzata da Imma Villa e Gea Martire, con la musica di Paolo Coletta.
E poi l’Opificio Puca, che a Milano o in un altro punto d’Europa avrebbe già trovato imprenditori illuminati e mecenati che lo trasformassero in un luogo culturale, e invece vive della buona volontà rivoluzionaria degli artisti che lo hanno in parte recuperato e lo fanno vivere come il luogo di fantasmi che è diventata la nostra capacità di pensare cose nuove.
Ovunque, pubblico di tutte le età (i giovani), seduto anche a terra.
“Ascoltatori selvaggi” è una cosa nuova: non corrisponde a format, trend, tropes. Non corrisponde ai bisogni di un’editoria morta, dell’arte contemporanea che arreda le case di oligarchi e nuovi ricchi.
Non risponde alle logiche di gara del mercato.
“Ascoltatori selvaggi” è controtendenza e contropelo.
E alle persone, sappiatelo, è piaciuto terribilmente.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente
