Pubblichiamo un estratto dal nuovo romanzo di Burhan Sönmez, Pietra e ombra, uscito per Nottetempo. La traduzione è di Nicola Verderame.

Avdo pensò a come dovesse essere la lapide per l’uomo con sette nomi che era stato sepolto quello stesso giorno. Fece un tiro di sigaretta, bevve un sorso di tè. Tese in avanti le dita che tenevano la sigaretta, come parlasse con qualcuno. La lapide dev’essere nera, si
disse, e nel centro deve avere un foro. Chi lo osserva deve vedere il vuoto al di là. Un vuoto che più lo si guarda più diventa grande, profondo.

Il morto era un vecchio militare. Durante l’operazione militare di Dersim era stato ritrovato sulle rive dell’Eufrate, svenuto e ferito. Aveva perso la memoria. Secondo i militari che lo avevano rinvenuto si chiamava Haydar, era stato colpito nel corso di un attacco delle bande curde zaza, e occorreva che ritornasse alla sua unità. Senza perdere tempo Haydar era tornato al suo posto e per tutto quel viaggio infernale a piedi nudi a cui gli Zaza deportati dai paesini erano stati costretti, aveva utilizzato in abbondanza la frusta sui prigionieri.

Sebbene a volte avesse avuto dei capogiri, sentendosi precipitare nel vuoto, non aveva avuto alcun dubbio su se stesso o su ciò che stava facendo. Quando erano arrivati alla postazione militare di Dersim, dopo essersi lasciati alle spalle i cadaveri di metà dei deportati, un anziano prigioniero cieco lo aveva riconosciuto dalla voce. Come hai fatto a diventare così, gli aveva chiesto, e aveva raccontato a Haydar il suo passato: venivano dallo stesso paese, il suo vero nome non era Haydar bensì Ali ed era stato colpito nel corso della deportazione, mentre sfuggiva ai militari. I soldati che lo avevano trovato, accortisi dell’amnesia, gli avevano assegnato un nuovo passato e un nuovo futuro, convincendolo che era un militare.

Ma lui, scoperta l’altra sua identità, era fuggito a sud, nella piana della Mesopotamia. Era stata la Mesopotamia a dirgli che lui non aveva una vera identità. Tu non sei né Haydar né Ali, non ricordi l’infanzia né dell’uno né dell’altro. E chi non ricorda la propria infanzia non può conoscere se stesso. A chi credere, al vecchio cieco o ai militari? Continuò a camminare, camminò fino alla fine della sua esistenza. Seguì le stelle, si rifugiò in Dio, lesse tutti i libri che trovava, sperando in una soluzione. Per quarant’anni vagò tra Gerusalemme, Il Cairo, Creta, Atene, Roma e Istanbul, e in ciascun luogo adottò una nuova religione e un nuovo nome. Quando quel giorno lo trasportarono al cimitero, sulla bara c’erano un foulard ingiallito e un pezzo di carta con sette nomi: Ali, Haydar, Isa – come Gesù –, Mosè, Muhammad, Giona, Adamo.

L’ultima settimana di vita l’aveva trascorsa a letto. Alla vicina che era andata a fargli visita nella sua stanza piena di libri e vino aveva lasciato una borsa e una lettera da recapitare, alla sua morte, allo scalpellino Avdo.

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