Alla fine di quest’anno per me disgraziato, in cui mi è sembrato di avere cambiato mestiere, ho fatto un conto.
Il mestiere che ho svolto quest’anno, pur essendo insegnante di ruolo nella scuola media inferiore, è più simile al pony-express o al rappresentante di detersivi: sempre in macchina, sempre di corsa, a fare la spola da un capo all’altro della città per raggiungere le tre scuole in cui l’USP di Palermo mi ha mandato a insegnare. E tutte scuole poste in contesti piuttosto difficili, tra il mercato di Ballarò e il quartiere Zisa-Noce.
Me la sono cavata alla meno peggio, riuscendo a sopravvivere a giornate in cui alle otto di mattina ero a fare lezione nella prima scuola, alle undici nella seconda, alle due mezza del pomeriggio ero a un consiglio di classe nella terza e alle quattro e mezza ero di nuovo nella prima scuola per un collegio dei docenti. Diciamo che, ecco, sono riuscito più o meno a garantire la presenza in aula o negli organi collegiali. Se poi abbia potuto prestare un buon servizio agli studenti e alla stessa istituzione che ha avuto la felice idea di sbattermi a destra e a sinistra per tutto l’anno, su questo qualche dubbio ce l’ho!
E comunque il conto che ho fatto è il seguente: degli studenti di cui sono stato insegnante quest’anno, circa il 10% è di origine straniera. Un numero considerevole.
Nei mesi passati si sono potuti leggere timidi cenni di un dibattito sulla legge di cittadinanza in cui veniva sollevata la proposta di abbandonare l’attuale impostazione legata allo ius sanguinis per varare una nuova legge impostata sul principio dello ius soli. Come risposta abbiamo ascoltato una caterva di insulti da parte di esponenti politici, tutti per lo più settentrionali, indirizzati soprattutto contro un ministro di colore dello scorso governo. Io intanto chiedevo agli studenti stranieri delle mie classi il maggior numero di notizie sul loro luogo di nascita, sulla loro storia familiare, sugli spostamenti dei loro genitori e dell’intera famiglia. Non perché volevo farmi gli affari altrui ma perché volevo capire come i miei studenti fossero messi riguardo alla possibilità di accedere alla cittadinanza italiana. E siccome gli studenti a cui insegno mi stanno a cuore, mi è venuta curiosità di sapere se, dopo tutta questa fatica, dopo le ore, i mesi, gli anni che ho fatto loro passare a studiare libri italiani che parlano della letteratura e della lingua italiana, durante lezioni che si svolgono totalmente in italiano, facendo loro studiare la Storia e la Geografia da una prospettiva fondamentalmente incentrata su un punto di vista italiano, volevo capire chi di loro potrà ottenere la cittadinanza italiana. E ho capito che la legge non garantirà a ciascuno di loro la cittadinanza del paese in cui sono cresciuti e di cui hanno condiviso tutto.
Tra i miei studenti ci sono ad esempio Giovanna e Amina. La prima è una ragazzina di dodici anni la cui famiglia proviene dallo Sri Lanka. Nata in Italia, frequenta la seconda media. I genitori hanno deciso di metterle un nome italiano e lei mi ha detto che da grande vorrebbe lavorare nell’esercito (italiano). Contenta lei! È una delle tre studentesse più brave della classe, tutti nove in pagella. La seconda ha madre e padre del Marocco. Anche lei è nata in Italia. Prima media. Lei della sua classe è la più brava in assoluto. Tutti nove anche lei. La legge dice che queste due studentesse potranno chiedere la cittadinanza italiana non appena avranno compiuto diciotto anni ma entro e non oltre un anno da quella data, e solo se in Italia “vi abbiano risieduto legalmente e senza interruzione fino alla maggiore età”. Io non lo so se questi due requisiti ce li abbiano. E se in un primo periodo la presenza in Italia, loro e dei genitori, fosse stata non legale? Non ne avranno diritto. E se a un certo punto fossero costrette a passare, per imponderabili sfighe della vita, che so, una malattia dei genitori per esempio, un anno o sei mesi nel paese d’origine, affidate ai loro parenti, interrompendo per motivi indipendenti dalla loro volontà la continuità del loro status di residenti, per riuscire a tornare in Italia solo qualche tempo dopo, riprendendo la stessa vita di prima? È sensato che decada il loro diritto? Questa breve assenza può corrompe a tal punto la loro italica identità?
Una di queste studentesse mi ha anche raccontato che, oltre a tre fratelli e sorelle più piccoli, ha un fratello molto più grande di lei, maggiorenne, che non è nato in Italia ma nello Sri Lanka. Come si comporta la legge nei confronti di questo fratello? Se ho ben capito, non gli concederà la cittadinanza. Stessa educazione, stessa famiglia, stesse scuole, stessa vita spesa nell’identico luogo e, come unica discriminante o differenza, la data e il luogo di nascita. Vi sembra, obiettivamente, un criterio sensato?
Questo fratello, mi ha raccontato Giovanna, abita in una città del nord Italia. Non si vedono da tre anni perché la famiglia non ha i soldi per andare a trovarlo e lui è meglio che non si muova. Ha perso il lavoro e gli è scaduto il permesso di soggiorno. Dice la legge che dovrebbe essere rimpatriato nello Sri Lanka, un paese dove non ha mai vissuto e che non conosce, mentre l’intera sua famiglia si trova qui e i suoi fratelli, verosimilmente, fra un po’ di anni diventeranno cittadini italiani.
Per avere le idee più chiare sulla legge n.91 del 1992 e la sua concreta applicazione ho chiamato un mio amico. Fa l’avvocato e si occupa proprio di immigrazione, di cittadinanza, di stranieri in Italia. Mi ha chiarito diversi dubbi oltre a raccontarmi alcune storie davvero assurde. E mi ha confermato nella convinzione che l’attuale legge di cittadinanza è ingiusta e contraddittoria, basata su una serie di princìpi che mi sembrano – come dire? – un po’ puerili. Grazie anche al suo aiuto potrei provare ad affrontare, qui, i criteri generali della legge e una serie più ampia di casi. Ma non è questo che, al momento, mi interessa di più.
Preferisco attenermi alla prospettiva limitata che la casistica dei miei studenti presenta, pur sapendo che riguarda solo una minima parte delle possibili esperienze che la legge regola e dei destini di vita su cui decide. Preferisco dare corpo e carne all’astrazione della legge, provando a leggere gli effetti concreti che essa può avere su persone che vedo tutti i giorni. Mi interessa partire da loro, in prima persona, i miei studenti, persone che conosco benissimo e verso cui, oltre a volergli bene, ho un obbligo personale dato dalla mia professione: di indirizzo, orientamento e formazione. Ho una responsabilità.
Confrontiamo dunque il caso di Giovanna e Amina con quello di altri tre studenti: Richard e Fred, provenienti dalle Mauritius; e Rajan, anch’egli dello Sri Lanka. Loro sono arrivati in Italia tra i due e gli otto anni. Hanno fatto lo stesso identico percorso delle due loro compagne. Hanno frequentato le scuole italiane, chi fin dall’asilo chi dalla scuola elementare, in modo continuativo e con assiduità. Anche il loro profitto è abbastanza soddisfacente e la loro integrazione nella società italiana completa, favorita anche dal fatto di essere stati coinvolti per anni in un progetto (ora purtroppo in dismissione) per l’integrazione e l’inserimento scolastico di ragazzi stranieri realizzato da un associazione locale in collaborazione con il Comune di Palermo. Nessuna differenza con le ragazze di cui sopra se non per l’accidentale caso di essere nati fuori dall’Italia, fatto che preclude loro l’ottenimento della cittadinanza italiana, qualora ne volessero fare richiesta. Perché l’essere nati sul suolo italiano dovrebbe assicurare un di più di italianità rispetto a questi ragazzi, arrivati in Italia da piccoli o piccolissimi? Si può crederlo vero?
Questi ragazzi saranno considerati stranieri perché, appena nati, avranno bevuto per uno, due o cinque anni latte in polvere di una mucca non italiana e delle pappine di verdurine coltivate in terra asiatica o africana. E, si sa, le verdurine del suolo italiano hanno poteri miracolosi nella costruzione di una pura identità italiana che le verdurine asiatiche non possiedono.
Eppure io, nelle ore di Cittadinanza e Costituzione, svolgo lo stesso identico programma con le ragazze di origine straniera nate in Italia, con i ragazzi nati da matrimoni misti, con i ragazzi di origine straniera nati all’estero oltre che con i ragazzi cento per cento italiani, affrontando (quando mi riesce, e non sempre mi riesce) gli articoli della Costituzione italiana, questioni relative alla cittadinanza europea, la Carta dei diritti fondamentali dell’uomo, questioni relative alla educazione alla legalità in contesti di mafia, ecc. E la risposta, da parte degli studenti che non sono nati in Italia, è quasi sempre improntata a serietà e partecipazione alle discussioni e al dibattito. Proprio come quella delle ragazze di origine straniera nate in Italia e di molti dei ragazzi italiani. Ogni tanto, è vero, qualcuno fa casino e io mi imbestialisco, divento tutto rosso e qualche volta perdo la pazienza e mi metto a urlare. E possono essere indifferentemente ragazzi italiani o di origine straniera a fare casino. Indifferentemente, appunto: senza nessuna differenza.
Ancora qualche esempio, giusto per farsi un’idea chiara sul grado di integrazione di questi ragazzi. In una delle tre scuole in cui insegno esiste un organo degli studenti che si chiama Comitato dei diritti. Ne fanno parte due studenti per classe, che durante l’anno partecipano a una serie di attività incentrate soprattutto sulla questione della legalità in terre di mafia. In una delle classi, di cui sono insegnante dallo scorso anno, si sono candidati per questo impegno, e sono stati eletti, un ragazzo italo-tunisino (mamma italiana, papà tunisino) e uno dei ragazzi già menzionati (Rajan, dello Sri-Lanka). Il 23 maggio, subito dopo aver chiamato l’appello, si sono recati a Piazza Politeama, dove c’era la manifestazione in ricordo di Falcone e Borsellino, in rappresentanza della nostra scuola. La settimana prima c’era stata la festa di Addiopizzo, il comitato cittadino che da un decennio circa lotta contro le estorsioni di cui sono vittime negozianti e imprese. Di venerdì era prevista una manifestazione contro il racket attraverso le vie della città. La scuola sarebbe rimasta chiusa per uno dei tanti “ponti” di questa primavera.
La collega di matematica ha invitato tutti gli studenti della classe, italiani o stranieri che fossero, a partecipare con lei alla manifestazione antiracket. Aveva dato appuntamento davanti al portone della scuola. Nonostante fosse giorno di festa quattro studenti sono andati all’appuntamento e hanno partecipato alla manifestazione contro il racket in compagnia della mia collega. Erano Luisa, una ragazza italiana, e tre degli studenti “stranieri”: Fred (Mauritius), Rajan (Sri-Lanka) e lo studente italo-tunisino. Di tutti gli altri studenti non c’era ombra. Fred e Rajan, come ho già detto, forse non saranno mai cittadini italiani, pur praticando la cittadinanza molto più consapevolmente di molti tra i loro compagni italiani. Sono un motore importantissimo per la nostra classe, una componente essenziale della nostra comunità scolastica, fondamentale per la sua crescita e per la piena realizzazione dell’esperienza educativa che vi si svolge. Dai diciotto anni in poi, se la legge sulla cittadinanza resterà invariata, vivranno la permanenza sul suolo italiano come un’esperienza piena di difficoltà e di incognite. Forse per questo un giorno saranno costretti a nascondersi, a vivere da clandestini oa emigrare di nuovo, verso paesi che offrono loro migliori opportunità. E, conoscendoli, è una cosa assurda, inconcepibile, davvero senza senso.
Noi, professori o maestri di scuola o quanti altri lavorano con loro e con le loro famiglie, avremo svolto un lavoro di cui la società italiana non saprà cosa farsene, perché avrà deciso di respingerli dopo avere speso tanto tempo e energia a realizzare una integrazione. Compiuta in tutto e per tutto. Vi sembra normale?
Mario Valentini è nato a Messina nel 1971, vive a Palermo. Molti suoi racconti e articoli sono stati pubblicati in rivista (Il semplice, Fernandel, Il caffé illustrato, Mesogea, Margini), in diverse antologie, in riviste on-line. Ha fatto parte del gruppo che realizzava Il Semplice, messo insieme e guidato da Cavazzoni e Celati. Ha portato in scena lo spettacolo di letture ad alta voce Animali Parlanti con Ermanno Cavazzoni, Ugo Cornia, Alfredo Gianolio, Ivan Levrini, Paolo Morelli, Paolo Nori e altri. Tiene laboratori di scrittura narrativa. Insegna nella scuola statale. Ha collaborato con l’edizione palermitana de La Repubblica. Ha pubblicato i libri Voglia di lavorare poca (Portofranco, 2001) e In certi quartieri (Mesogea, 2008). Fa parte del comitato di redazione della casa editrice Mesogea, per cui ha progettato (e segue in particolare) la collana Petrolio, e di cui è editor.

Caro Mario, ho trovato il tuo articolo “ovviamente” interessante, poliedrico nei punti sociali che lambisce, e con un velo di tristezza ho rivissuto quel laboratorio a classi aperte costruito da noi lo scorso anno scolastico e che magari nessuno, oltre noi ed i nostri alunni, ha conosciuto. Comunque sia, complimenti!