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Ci possono essere molte definizioni per la poesia di Florbela Espanca. Possiamo parlare di poesia confessionale, perché Florbela concepisce la propria opera come un diario del proprio sentimento di inadeguatezza, affidandole spesso confidenze meste e malinconiche. Possiamo parlare di una poesia coraggiosa, controtendenza, in quanto la poetessa si disinteressa delle tendenze formali della poesia a lei coeva, e – in un Portogallo aperto all’avanguardia e in rottura con il passato sia sul piano espressivo che su quello tematico – predilige una delle forme più antiche e tradizionali della poesia europea, ovvero la forma chiusa del sonetto petrarchesco, e adotta un tono squisitamente lirico e intimistico. Possiamo parlare di poesia titanica, in quanto il tenore dimesso dei suoi versi trova sempre un contraltare nella vastità della natura evocata, e la poetessa ama proporsi (con pigli che a volte ricordano passaggi alfieriani o leopardiani) come una vera e propria potenza superiore in lotta con il destino avverso che la sovrasta. Potremmo anche parlare di una poesia laica, giacché, nel Portogallo ultracattolico del primo Novecento, Florbela non teme di professare nei suoi versi il proprio ateismo, rivendicando una libertà e un’autonomia di pensiero che la rende prossima a periodi storici e culturali a noi molto più vicini.

Ma, soprattutto, la poesia di Florbela Espanca è vera poesia, ovvero una poesia che usa in maniera egregia i ferri del mestiere, rivelandosi in prima istanza una forma d’arte capace di produrre conoscenza.

Potremmo dire che la poesia è lo sport estremo della conoscenza. Se conoscere significa compiere un percorso da una forma verso ciò che essa rappresenta, la poesia possiede strumenti potentissimi per abbreviare in modo miracoloso questo percorso. Essa crea infatti un involucro formale intorno al senso, ma allo stesso tempo fornisce questo involucro di scorciatoie privilegiate, che consentono di teletrasportare il lettore in un istante nel cuore stesso del significato, generando in lui sorpresa e spaesamento.

Ecco, prima di ogni altra definizione della poesia di Florbela Espanca, io partirei da qui. Facciamo un paio di esempi:

Sono i miei gesti onde di Sorrento…
Porto nel nome lettere di un fiore.
È dai miei occhi verdi che un pittore
la luce ha preso per ritrarre il vento.

Si tratta di una delle numerose rivendicazioni di panteismo di Florbela. Come non pensare ai versi del dannunziano Meriggio, composto solo pochi anni prima nell’estate alcyonia più rigogliosa, quella del 1902: «e il fiume è la mia vena, / il monte è la mia fronte, / la selva è la mia pube, / la nube è il mio sudore. / E io sono nel fiore / della stiancia, nella scaglia / della pina, nella bacca / del ginepro…». Ma laddove il poeta italiano è più meccanico e superficiale nella elencazione delle immagini, Florbela scende in profondità, creando cortocircuiti fulminanti tra la propria individualità e l’universo, non celando il ruolo fondamentale dell’arte e della rappresentazione nel processo descritto. Per d’Annunzio era la stessa forza espressiva dei propri versi a rendere evidente il ruolo svolto dall’arte per agevolare l’immedesimazione del poeta nell’universo (come quando nella poesia L’onda afferma di aver cantato la lode della sua strofe lunga). A sua volta, Florbela ricorre all’invenzione di un personaggio esterno, un pittore, che per ritrarre il vento attinge il colore necessario dai suoi occhi, come se fossero una tavolozza. Gabriele non aggiunge aggettivi che possano creare una sfasatura tra i referenti dell’immedesimazione La trasposizione del poeta nel meriggio avviene in modo diretto, lineare. Ma Florbela offre un’informazione aggiuntiva, forse ridondante, precisando che i suoi occhi sono verdi, e il verde non è certo il colore del vento, ammesso che possa averne uno. Ma così il vento, assumendo un colore per lui anomalo, si trasforma in qualche modo in qualcosa di diverso, che somiglia a un’incarnazione di Florbela stessa.

Un altro esempio:

Foglie di siliquastro fragorose,
cadono stelle folli e incandescenti
e della Luna i baci florescenti
son come argento per le strade ombrose.

La luna è una delle immagini preferite di Florbela: da un lato essa allude all’atmosfera notturna della sua poesia, e dall’altro ne simboleggia la lieve luminosità, una luminosità soffusa ma preziosa, squisitamente confidenziale. Nei versi riportati sopra è assai efficace il contrasto tra le strade ombrose e il riverbero dei raggi lunari, che fanno lume alle strade delicatamente, senza spazzare via le tenebre, ma trasformandole da causa di inquietudine a fattore di intimità. Nella sfasatura che percepiamo tra le strade ombrose e i raggi d’argento della luna c’è molto di Florbela, la sua natura fosca e insieme il suo anelito alla lucentezza, a una sorprendente chiarità.

I suoi sonetti sono certamente intimi e dolenti (si è già detto che la sua poesia è una poesia di tipo confessionale, che anticipa l’opera di Sylvia Plath e Anne Sexton, le quali, tuttavia, scrivono trent’anni dopo e in America, in un contesto culturale molto diverso). Ma sono anche ricolmi di orgoglio e di fierezza. Florbela non dimentica mai di possedere il superpotere della poesia, grazie al quale può sfidare e debellare – almeno nei suoi componimenti – qualsiasi nemico reale o immaginario:

E non pensare più! …ma già lo sento
il pensiero che morde ed è feroce.
Vorrei spegnere in cielo – sogno atroce! –
la luce di una stella, con il vento.

L’angoscia legata al vivere quotidiano (questa poesia si intitola Angustia) si accompagna qui a un sentimento titanico, in questo caso il desiderio di salire fino in cielo per spegnere il fuoco di una stella con il vento, solamente per dimostrare al mondo che ne è capace e riceverne il riconoscimento. Ma anche quando il desiderio viene frustrato dalla dura realtà, la poetessa, pur rassegnandosi a sogni meno eroici, continua a misurarsi con la vastità, con il sogno romantico dell’infinitezza:

Ma non si spegne, no… e niente affonda!
E sempre si trascina come l’onda,
e sempre mi domanda: “Che ti resta?”

Ah! Essere nient’altro che infinito,
essere ghiaccio, essere granito,
o un ruggito dentro la foresta.

E ancora:

La Notte scende lentamente, oscura,
tutta la Terra inonda di amarezza.
Neanche la Luna, con la sua chiarezza,
sa renderla divinamente pura.

Il sentimento di tristezza in Florbela è raramente messo in relazione soltanto con le avversità e la solitudine che lo determinano. Quasi sempre trova in un paragone con la natura uno slancio di esaltazione, che, seppure non riesce a essere interamente consolatorio, offre tuttavia uno spiraglio di redenzione, anche se solamente a livello poetico.

Le poesie di Florbela abbondano di paragoni e identificazioni con la notte, la luna, le stelle, il mare, la nebbia, il vento, i fiori, gli uccelli. La soggettività intimistica della malinconia trova spesso un correlativo oggettivo in un aspetto evidente del creato, che elargisce al suo sentire un carattere di assolutezza. Come se la vastità della natura esistesse per conferire risonanza a sentimenti che agli altri rimangono spesso invisibili o trascurabili:

Io son colei che è persa per il mondo,
che vaga senza un nord, per strade storte,
del Sogno son sorella, e a questa sorte
son crocefissa, afflitta nel profondo.

La parola «sorella» ricorre di frequente nella poesia di Florbela, e serve a creare relazioni profonde tra sé stessa e concetti molto spesso astratti. In questo caso si professa sorella del sogno, rivelandosi così un essere sovraumano e al tempo stesso inconsistente, di quella materia indecisa, appunto, di cui secondo il Bardo «dreams are made of»: solida ed eterea, reale e incorporea, autentica ma immaginata:

A volte sono immagine sognat
di un’anima gemella della mia
che nella vita non m’ha mai incontrata.

Il discorso poetico di Florbela è sempre in equilibrio su concetti indecisi, il cui significato oscilla da una parte all’altra rispetto a un grado zero immaginario, e nello spazio che si crea tra i due poli dell’opposizione abita la forza più inquietante e seducente della sua poesia. A questo scopo è interessante soffermarsi su certe opposizioni contenute nei suoi versi, come nella seguente quartina:

Esser poeta e avere in alto il cuore.
Mordere come si bacia! Esser gigante.
Donare, pur essendo mendicante,
come fa il Re del Regno oltre il dolore.

Tra le varie opposizioni qui presenti, il termine «mordere» (affiancato a «baciare») è un termine al quale non è possibile associare una connotazione univoca, e potrebbe essere considerato, dal punto di vista semantico, un «indecidibile». Gli indecidibili, secondo Jacques Derrida, sono «delle unità di simulacro, delle “false” proprietà verbali, nominali o semantiche, che non si lasciano più comprendere nell’opposizione filosofica (binaria) e tuttavia la abitano, le resistono, la disorganizzano, senza però mai costituire un terzo termine».

Qui il «mordere» non è né mezzo di offesa né gioco amoroso, né sofferenza né piacere, né differenza né compenetrazione, né vicinanza né distanza, e «né/né vale nello stesso tempo oppure oppure» (J. Derrida, Posizioni, Bertani Editore, 1972, pp. 77-78).

Proprio questa capacità di utilizzare simulacri in grado di abitare e al tempo stesso disorganizzare le opposizioni linguistiche mi sembra una delle caratteristiche più potenti della poesia di Florbela Espanca. La conoscenza non è qui un processo lineare, che partendo dal significante arriva al significato. È piuttosto un gioco di specchi in cui il minuscolo si riflette nel maestoso, la sofferenza nel piacere, la solitudine nella regalità, l’ostilità nell’amore. E gli opposti si danno contemporaneamente, senza la necessità di compiere un percorso che li unisca, in un cortocircuito potente e rivelatore che, se pure non genera una conoscenza perfettamente pervia e trasparente, consente per certo una consapevolezza mistica, extrasensoriale, potremmo dire in qualche misura psichedelica, che rappresenta a mio avviso la caratteristica più notevole della poesia di Florbela Espanca.

I brani in traduzione riportati in questo breve scritto sono stati tratti da un’antologia recentemente pubblicata dall’editore Interno Poesia, con la curatela e la traduzione di Graziano Graziani, intitolata Questo mio corpo sfamerà le rose. In questo libro, il curatore ha raccolto cento sonetti di Florbela, selezionandoli dalle due opere da lei pubblicate in vita (Libro d’angosce, del 1919, e Soror saudade, del 1923) e dalle due opere postume (Brughiera in fiore, del 1931, considerato il suo capolavoro e uscito nel 1931, l’anno successivo alla morte di Florbela, e Reliquiae, pubblicato nel 1934).

Graziani ha scelto di tradurre ciascun sonetto in lingua portoghese in un nuovo sonetto in lingua italiana, adottando quasi sempre, oltre alla metrica classica di questo tipo di componimento, anche uno schema rimico standard, a volte coincidente con quello originale, a volte diverso. Ciò ha significato non rispettare sempre alla lettera il testo di Florbela, ma ha consentito di rispettarne l’intenzione, ovvero quello di una musicalità prepotente e sensuale, che spesso racchiude un significato più importante di quello meramente testuale. Il testo originale a fronte permette al lettore – anche grazie alla somiglianza delle due lingue – di andare a comparare le due versioni, per averne così una comprensione più piena. Si tratta indubbiamente di un lavoro meritevole, che consente, anche a chi non conosce il portoghese, di godere pienamente il ritmo e la musica che Florbela ha trasfuso nei suoi versi, e di percepirne la freschezza e la modernità.

 

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Autore

lucaalvino@minimaetmoralia.it

Luca Alvino è nato nel 1970 a Roma, dove si è laureato in Letteratura Italiana. Nel 2025 ha pubblicato per Il Convivio la raccolta poetica Sono il poeta. Nel 2023 ha tradotto e curato per Interno Poesia un’ampia antologia delle poesie di John Keats, intitolata Mio cuore. Nel 2021 ha pubblicato, ancora per Interno Poesia, la raccolta poetica Cento sonetti indie. Nel 2018 è uscita per Castelvecchi la sua raccolta di saggi Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter. Nel 1998 ha pubblicato con Bulzoni una monografia sull’Alcyone di Gabriele d’Annunzio, intitolata Il poema della leggerezza.

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