“Più che triste, di fronte ai ricordi mi sentivo vuota”.
Ogni racconto di Una casa è un corpo di Shruti Swamy (trad. Eva Kampmann, Racconti edizioni) si insinua nelle pieghe del presente attraverso una personale ricognizione fisica per narrare la labilità delle relazioni, l’inganno del vero, le pressioni sociali legate alla maternità, il rifiuto del corpo, il mancato riconoscimento di un desiderio sopito. I racconti definiscono la capacità di esperire dolore e disagio, gioia del corpo, brama, fantasie di morte, attraverso un sapiente allestimento del paesaggio urbano che traspone le inquietudini che dominano i suoi protagonisti. Il testo che apre la raccolta, Cecità, si regge sul contrasto tra la frenesia dei preparativi per un matrimonio a Delhi e una cocente paura di vivere proiettata sulla famiglia.
Swamy affronta il tema la maternità come imposizione attraverso storie che indagano il complesso di inadeguatezza, la percezione di subire una trasfigurazione, la distanza e il senso di smarrimento. Il mancato riconoscimento di sé è uno dei grandi motivi dell’autrice, investigato attraverso scene dove le protagoniste osservano sconvolte il loro riflesso allo specchio o sulle sponde di un fiume.
La peculiare scelta formale si basa su andirivieni temporali che stordiscono il lettore, costretto ad arrendersi davanti all’impossibilità di collocare con precisione l’origine di un disagio oscuro. Le continue emersioni trovano un corrispettivo nella raffigurazione del mondo attorno che traduce il tormento, come nel paesaggio osservato dal treno da una donna incinta preda di incertezze: “Fuori dal finestrino, gli sterminati campi verdi colmi di sole pomeridiano, le città anonime, villaggi pieni di bambini senza madri. Il treno costeggiò la riva deserta di un fiume, e il cielo pullulava di uccelli e di aquiloni rimpiccioliti dalla distanza”.
L’autrice non si mostra interessata a una mera adesione al reale, confonde i piani tra continui sfasamenti onirici per dare forma alla solitudine e alle paure, amplificate nelle scene più audaci. Le immagini legate agli incontri sessuali, spesso violente o rassegnate, traducono una reiterazione ossessiva: il sari appena sollevato attorno alla vita, le domande sull’amore, la richiesta di essere guardati, il rifiuto, la paura di procreare, l’insostenibilità di ogni istante, il desiderio di rimozione, l’immersione tra i dolorosi reperti dell’infanzia.
L’allegro fracasso di una festa nuziale si rivela la condizione ideale per insinuarsi nella perdizione generata dalla musica e dalla danza, come accade in Tempo di matrimoni. Tale apparenza festosa permette di dare forma ai contrasti nascosti, utili a Swamy per enfatizzare il paradosso.
La ritualità come preludio al dramma caratterizza anche L’assedio. Il racconto si apre con il truculento sacrificio di un cavallo soffocato da un sacerdote. L’officiante è la regina chiamata a passare la notte a recitare gli śloka al fianco dell’animale ucciso senza mai toccarlo, nell’attesa vana di un sogno premonitore per invertire il corso degli eventi. Il passo epico del racconto cela i drammi sopiti, gli aneliti spenti nell’inattuabilità del cambiamento, il benessere apparente che circonda la regina triste succube di un poligamo consumato dal risentimento. Una storia di sangue, dolore, paura, tradimento, abusi, collera e ferocia con piccoli atti di dolcezza compiuti dagli unici soggetti incapaci di segnare un cambio di passo alla vicenda, destinati a subire nuovi strazi. Si tratta del racconto più visionario della raccolta, dove l’elezione del frammento e il continuo gioco di sovrapposizioni dell’incubo sulla veglia favoriscono un’identificazione fisica del martirio. La guerra e le perdite ne L’assedio definiscono un dolore sordo legato indissolubilmente al significato della maternità.
Mi trovavo dentro un incendio. Mi sentivo la pelle ardere e staccarsi di netto, e quel dolore era un sollievo. Fui raggiunta dalle voci dei morti, di mio figlio, e dei morituri. Avevo tanta paura che scoppiai a piangere. Le mie lacrime evaporarono ancora prima di formarsi. Il fuoco risparmiò soltanto le mie ossa.
Gli assilli dominano l’intera opera, con la costante ricerca di risposte attraverso un corpo offeso, sconosciuto, minato, tra continue interferenze dell’immaginario sul verosimile.
In lutto è dominato dal dubbio su ciò che permane nella perdita. L’osservazione del coraggio di una bambina porta i protagonisti ad attestare i propri limiti, riappacificarsi con l’attesa della fine in un silenzio ”mammifero e caldo”. La possibilità di provare nuovo dolore genera il desiderio di anticipare lo strappo, reso attraverso la metafora del cappotto rattoppato su cui si regge la storia: “Quanta violenza compie la riparazione, l’ago che trafigge all’infinito”.
L’ambito famigliare è lo spazio d’elezione che l’autrice usa per investigare dinamiche opache, paure, abbagli, visioni di morte, distorsioni del presente. Nel racconto Mio fratello alla stazione l’autrice si cala nella visione di una donna incinta che rivede suo fratello a distanza di decenni. Confusa e disorientata dallo stupore per quella che pare un’allucinazione, decide di seguirlo, incerta sul da farsi. Tale inseguimento porta la protagonista a riesumare residui del passato, nel ricordo della notte in cui rimase sola in una casa che le appariva vuota mentre scruta il proprio aspetto alla finestra. Ancora una volta il riflesso di sé si lega a una rivelazione: “A poco a poco divenni consapevole dei morti, raccolti negli angoli di casa. Non riuscivo a vederli, ma li percepivo come quando sai che qualcuno è dietro di te prima di voltarti a guardare”.
Il continuo richiamo tra l’ambiente e la dimensione interiore trova il suo apice nel racconto Le vicine, che affronta attraverso l’atto della cura la relazione madri/figli, intesa anche metaforicamente nel rapporto con i luoghi delle origini. Le continue visioni sul passato sollevano domande sul significato dell’esilio, sul legame con le radici e sull’estraneità al presente.
L’esplorazione fisica nei racconti di Swamy è perennemente connessa alla dimensione sessuale, tra tentazioni di fronte a un quadro di Rothko e infatuazioni improvvise nell’incontro inatteso con Krishna a un party (Piaceri terreni); incontri clandestini all’università che evocano l’originaria scoperta del corpo attraverso l’incontro incendiario con un maestro di sitar (Una composizione semplice); desideri e frustrazioni nel pensiero della procreazione, dal punto di vista maschile (Didi).
Il registro grottesco accompagna alcune delle pagine più sorprendenti dell’autrice, nel tratteggio di un panico assurdo attraverso risate non allegre, versi cupi e suoni incantatori e incontrollabili di chi ha un “modo sbadato di abitare il corpo” (L’artista della risata). Tale aspetto si rinnova in altri racconti per indagare l’apparenza comica del dramma e eleggere in ogni storia un momento sacro capace di sovvertire l’ordine delle cose, ridefinire le certezze attraverso la maschera della verità.
L’ultimo racconto, Giardino notturno, ruota attorno a una scena che la protagonista può solo osservare impotente nell’oscurità, la sfida tra il suo cane e un cobra. Il pericolo è annunciato dalla nota minerale di panico contenuta in un abbaio diverso dal solito. L’attesa e la paura appartengono a chi non può agire e subisce quella prova preparandosi al peggio attraverso la proiezione fantasiosa degli effetti che la perdita avrebbe generato in una casa improvvisamente vuota, con le piante ingiallite.
Secondo me di notte puoi guardare la tua vita da una grande distanza, come se fossi un bambino seduto su un albero che ascolta le chiacchiere insensate degli adulti.
Swamy insiste su tali aspetti attraverso l’elezione della dimensione dell’infanzia come l’unica realmente onesta, emblema di un confino privato, capace di costringere ogni figura narrata a rapportarsi con la propria coscienza. Il culmine è rappresentato dal racconto che dà il titolo alla raccolta, aperto con la presa d’atto di un’intolleranza radicata nei confronti dei bambini. Anche in questo caso l’autrice si sofferma sulla percezione di inettitudine materna da parte di una donna smarrita che lambisce la follia e si scopre inadeguata a badare a sua figlia malata. La scrittura vorticosa risucchia il lettore nelle ossessioni di una madre inadatta a cogliere i segni di sofferenza di una bambina di cui dovrebbe prendersi cura. Il dramma incombe nell’emergenza che le circonda, un incendio che lambisce la zona e impone alla donna di scappare al più presto. L’angoscia crescente generata nel lettore è resa proprio nell’incoscienza e nella folle negligenza di una persona confusa e attonita che si muove con la sola urgenza di scegliere gli utensili e le posate da salvare.
Una casa è un corpo, un corpo è abitato da anime. Tre anime, ma ora erano solo due. La casa non tradiva dolore. Tanto valeva che lasciasse bruciare le fotografie, anche se un giorno la bambina le avrebbe volute.
La sottile grazia attraverso cui la prosa di Swamy raffigura la decadenza – di un mito, di un ideale, di un nucleo famigliare, di un impero – contrappone utopiche fantasie di cambiamento con una venatura ironica sul senso della morte nel risalto estremo di particolari minimi che si fanno custodi di visioni assolute. Gli stereotipi legati all’India sulle prove e sul senso del vivere, le rassicuranti illusioni americane o le promesse europee di un nuovo inizio sono funzionali all’esplorazione di un osceno campionario umano, dove ogni individuo serba un rancore irrisolto e deve cercare un’evasione per sopravvivere. Con Una casa è un corpo Shruti Swamy compone storie segnate da una sottile vertigine resa nella continua tensione tra irrequiete fantasie notturne e disagi remoti nell’apparenza innocua del sogno.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.
