di Giuseppe Nibali
«Si preparò. Mise qualche indumento nello zaino. Domattina, pensò, mi sveglierò presto e mi metterò in viaggio. Sarà un lungo cammino, questo».
Inizia così Lungo cammino, opera dell’autore turco Ayhan Geçgin (premio Orhan Kemal 2020) recentemente pubblicato in Italia dalla casa editrice Utopia editore. L’autore, nato a Istanbul nel 1970, ha studiato filosofia ad Ankara ed è considerato come una delle voci più autorevoli della nuova narrativa turca. È, quella di Geçgin, una scrittura davvero filosofica, per il sincero e mai artificiale impeto esistenzialista che la innerva e che ha il merito di accompagnare il lettore in una sorta di Odissea inversa il cui protagonista, Erkan, è in viaggio dalla propria casa verso il vuoto, pronto ad abbandonare la propria vita. Lascerà con questa intenzione il bivani in cui abita con la madre in una mattina qualunque, poco prima dell’alba, e girerà per i parchi della città, quelli che conosce, quelli che frequenta settimanalmente, nei pochi momenti che si concede fuori da casa sua: «Ma ora basta, si disse, ora basta pensare al passato. Sperava che il passato, fino a quel momento immobile, potesse scorrere via del tutto, in un giorno. Muovere il passato, mormorò, muovere il tempo».
E a muovere il tempo il protagonista proverà davvero, peregrinando in linea retta verso le montagne, incontrando il pericolo, la fame, svegliandosi in un letto d’ospedale dopo essere stato fermato dalla polizia turca che, credendolo un manifestante, lo ha colpito senza troppi complimenti, compromettendone la salute. L’anti-Odisseo Erkan fugge dalla vita attiva preferendole quella contemplativa, abbandona Itaca per recarsi all’isola di Ogigia: «Forse, pensò, sono un sopravvissuto, l’ultimo naufrago di una nave affondata».
Erkan scapperà dall’ospedale, debole, debolissimo, e, piano piano i motivi che lo hanno spinto a partire si faranno più oscuri; non riuscirà più a ricordare il nome né il viso di sua madre, solo dovrà procedere, ormai scheletrico, subendo i capricci del tempo atmosferico. Gli piove addosso, sente freddo, ha fame, ha sete, si nutre di licheni e di radici, ma nel frattempo il suo spirito si affina, si fa leggero, come si trattasse del viaggio che l’uomo fa dentro se stesso, più che nel cuore della sua terra – ecco quello che Geçgin vuole raccontare.
Nel vuoto ci entrerà piano, senza troppo speculare sulle motivazioni che lo hanno spinto a partire e anzi godendo della compagnia di quanti con lui condividono un segmento di tragitto. L’unico suo desiderio è quello di completare un percorso che non ha meta.
È un disegno, questo testo, un’avventura gentile e commovente che si snoda attraverso le varie pelli della Turchia, le sue città multiculturali, le periferie e le sue montagne abitate. Spuntano i muri, nella storia di Geçgin, le violenze della Gendarmeria che il protagonista deve subire, la minoranza curda e i profughi siriani, come per ricordare al lettore la presenza continua, nella storia, della Storia, perché: «la gente ha bisogno di un posto, una casa, una terra» e per questo è disposto a lottare, a spostarsi e a morire.
Man mano che il racconto prosegue, soprattutto nella seconda parte del libro, La Montagna, la memoria del protagonista si fa ancora più offuscata, contribuendo tantissimo a disperdere i significati e rendendo più onirico, quasi acquatico, il presente atemporale che vive: «Non aveva danni alla memoria, funzionava. Ma non riusciva a stabilire un legame tra le immagini e se stesso».
Erkan, fino alle ultime pagine, non perderà una certa dolcezza che in qualche modo lo contraddistingue, mangerà poco, lo farà con rispetto e con paura di fare del male a ciò che vive (bellissima la sepoltura, quasi religiosa, della lucertola che è costretto a uccidere per fame). Poetico è il finale sulla montagna, dove nutre una piccola profuga che si è persa e che non parla il turco, ma apre solamente la bocca per ricevere le lumache, come un uccellino. Brulicano di profughi, le montagne della Turchia, gente che conosce bene cosa significa attraversare le geografie e i muri che queste impongono e dunque non comprende le azioni di Erkan, che visita invece quell’altra fuga, quella che riguarda la propria corporalità, la propria materia. Un inno ben scritto, quello di Geçgin, che riesce a comunicare la stratificazione sociale di una terra complicata come quella turca senza rinunciare a un protagonista di peso, magnifico nella sua atarassia, che accetta passivamente gli imprevisti che lungo la strada si accumulano ma che consapevolmente sceglie di mettersi in viaggio alla ricerca di qualcosa che non riesce nemmeno a pronunciare.
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