di Benedetta Marietti
Non tutte le storie d’amore raccontate in letteratura si equivalgono, ne esistono alcune più intense e commoventi di altre. Soprattutto se sono accadute realmente. Quella narrata magistralmente da Stefan Merrill Block nel suo secondo romanzo, La tempesta alla porta (Neri Pozza, traduzione di Stefano Bortolussi), è una storia di amore e follia, di attesa e passione, che cattura per autenticità e urgenza. Perché è un “tentativo di ricostruzione”, come lo definisce Stefan, di ciò che è capitato ai suoi nonni materni, Katharine e Frederick Merrill, sposi felici e innamorati durante la seconda guerra mondiale, precipitati nell’abisso della disperazione in seguito al ricovero coatto di Frederick all’inizio degli anni ’60 in un ospedale psichiatrico: il famoso McLean Mental Hospital di Boston (nel libro ribattezzato Mayflower Home for the Mentally Ill), che nel corso degli anni ha ospitato pazienti illustri, da Sylvia Plath a Zelda Fitzgerald, da Marianne Faithfull a James Taylor, da Anne Sexton a David Foster Wallace. Ma cosa succede all’interno di una mente malata? Come cambia la personalità di un folle? E quali sono gli effetti sulla famiglia? L’amore è più forte della malattia mentale? Dopo Io non ricordo, bellissimo romanzo d’esordio pubblicato nel 2008 (da uno Stefan appena ventiseienne) e ispirato proprio dalla nonna Katharine, che affrontava il rapporto tra un ragazzino e la madre malata di Alzheimer, Merrill Block tenta di rispondere a interrogativi per lui incalzanti ritornando sui suoi temi prediletti: l’autobiografismo collegato al disturbo mentale. “I due romanzi sono molto diversi per tono e struttura ma li considero parte di un unico progetto”, spiega Stefan, poche ore dopo essere arrivato da Brooklyn in Toscana, ospite della Santa Maddalena Foundation di Beatrice Monti von Rezzori (dove ha scritto parte del libro). “Avevo necessità di conoscere la storia della mia famiglia prima di diventare adulto. Cercare di capire un passato ormai perduto al fine di comprendere un presente sempre più incerto è stato lo scopo principale dei miei vent’anni. Provavo una sorta di compulsione che mi spingeva a resuscitare i miei nonni con la forza dell’immaginazione. La sfida è stata quella di rimanere fedele ai pochi fatti documentati ricreando un mondo romanzesco. Non penso di essere arrivato a conclusioni definitive ma adesso che mi affaccio alla soglia dei trent’anni so che il progetto è arrivato alla fine. E provo un’eccitante sensazione di libertà”.
Quando si incontrano per la prima volta, mentre in Europa deflagra la seconda guerra mondiale, Katharine rimane incantata da un Frederick “avventuroso, tragico, brillante, il tipico caso di una vita vissuta in un modo troppo fuori dal comune”. Lui per due mesi la corteggia dedicandole attenzioni esclusive. Poi parte per la guerra, in Marina, ma per qualche motivo a lei sconosciuto viene ricoverato in un ospedale militare. Quando le invia un anello per posta, lei accetta di sposarlo. Ma il Frederick che torna a casa è un uomo irriconoscibile, sopraffatto dall’inedia. Troppo spesso prova “la tristezza di essere sempre distante dalla cose, al di sopra o al di sotto”. Katharine non si preoccupa: il suo amore e le sue cure lo avrebbero guarito. Così si sposano. Nascono quattro figlie (Susie, madre di Stefan, è la terzogenita). Per qualche tempo le cose funzionano: “in qualche caso la loro vita era stata la perfetta rappresentazione di una vita perfetta”. Poi iniziano le fughe di lui da casa, le sbornie, i tradimenti. Finché una notte esce per strada con addosso solo un impermeabile e si denuda davanti alle automobili di passaggio. Consigliata dai poliziotti che lo arrestano, Katharine decide di ricoverarlo alla Mayflower Home.
“Fin da piccolo sono rimasto affascinato dalla figura di mio nonno, morto molto prima che io nascessi”, spiega Merrill Block. “Anche perché ho da sempre una relazione fortissima con mia madre. È stata la mia insegnante e la mia migliore amica dato che non ho frequentato la scuola ma fino a 13 anni ho studiato a casa insieme a lei. È stato grazie a questa fondamentale esperienza che sono diventato uno scrittore. Mia madre ha permesso alla mia creatività di esprimersi, mi lasciava lavorare quanto volevo su qualsiasi cosa fosse di mio interesse. E il mio interesse era sempre scrivere. Quegli anni a casa hanno tratteggiato il mio futuro. E la mia vita quotidiana di scrittore, oggi, ora dopo ora, è molto simile a quella di studente casalingo. Con mia madre condividevo ogni cosa tranne quel dolore che sentivo l’aveva ferita da giovane: l’assenza di suo padre e la sua morte precoce. Attraverso di lei ho imparato a sentirmi molto vicino a mio nonno. Ma non solo per comprenderne la personalità misteriosa o per capire la sofferenza di mia madre. Ero irresistibilmente attratto da lui perché mi sentivo legato dal suo stesso destino. Gli assomiglio molto fisicamente, ho le sue stesse espressioni e i suoi tic, tanto che spesso i miei parenti si commuovono a vedermi. Forse se avessi capito la sua storia avrei saputo affrontare meglio il mio futuro. Tanto più che una notte di qualche anno fa, sdraiato nel mio letto in un campus universitario, anch’io ho sentito scattare qualcosa in me e per quattro giorni di fila non sono più riuscito a chiudere occhio. Quando ho parlato di questa strana e immotivata insonnia con una specialista, la sua diagnosi preliminare mi ha lasciato interdetto. Disturbo bipolare, sindrome maniaco-depressiva. La presunta malattia di mio nonno. E da quel momento scoprire che cosa gli fosse successo è diventata un’insopprimibile necessità”. Gli chiedo come vive la sua malattia e se pensa che suo nonno fosse veramente malato. “La notizia è stata uno shock ma non credo di essere bipolare anche se ho tendenze in quel senso. Penso invece che ogni processo creativo contenga in sé il bipolarismo. Per gli standard del 1962 mio nonno era sicuramente bipolare. Per quelli di oggi non so. È molto difficile diagnosticarlo, soprattutto se il disturbo è lieve. E le diagnosi sono strettamente legate a quello che la società ritiene debba essere un comportamento normale, regolato dall’opinione prevalente su cosa sia reale e cosa folle. Nel romanzo mi interessava anche scoprire come la sofferenza psichica possa peggiorare con trattamenti sanitari non adeguati”.
Prima del suo ritorno a casa, che rimetterà ancora a dura prova l’amore di Katherine e la stabilità della famiglia (con un finale sconvolgente del romanzo), Frederick rimarrà nell’ospedale psichiatrico per parecchi mesi. Dopo l’arrivo di un invasato e sadico psichiatra a capo della struttura, verrà sottoposto a elettroshock, chiuso in isolamento, costretto a imbottirsi di medicine stordenti. Eppure riuscirà in qualche modo a trasformare la carcerazione in un esercizio creativo. Aiutato dall’amicizia con il poeta Robert Lowell, realmente internato al McLean Hospital insieme a lui, Frederick scriverà alcune misteriose lettere che verranno recapitate a Katherine e che lei brucerà nel camino vent’anni dopo, senza farle leggere a nessuno. “Mia nonna ha conservato i suoi segreti fino alla morte. La distruzione di quei fogli è diventata per me il simbolo di tutte le perdite della mia vita. Mi sono sentito frustrato e rabbioso. Sono sicuro che contenessero informazioni importanti ma allo stesso tempo non credo fossero risolutivi per comprendere tutta la storia. Anche con mia nonna ero molto legato. Per un certo periodo, quando il suo Alzhemeir cominciava a peggiorare, è venuta a stare a casa nostra. Amavo passare il tempo con lei perché, studiando a casa, avevo pochi amici. Era una persona adorabile. Nel giro di poco tempo l’Alzheimer l’ha fatta regredire a uno stadio infantile, simile a quello di un undicenne. E dato che io avevo undici anni, il nostro rapporto divenne man mano simile a quello di due coetanei. Eravamo molto amici ma nello stesso tempo antagonisti perché non voleva rivelarmi niente del suo passato. Finché io crebbi e lei peggiorò sempre di più”.
Katharine non ha avuto una vita facile. Ha cresciuto quattro figlie da sola, ha affrontato difficoltà economiche, ha subito un marito bipolare e lo ha aspettato fine alla fine. Quando ha avuto occasione di rifarsi una vita si è tirata indietro. Le consuetudini della sua epoca erano più forti del desiderio di una vita più normale? Dice Stefan: “Mia nonna ha vissuto la vita domestica che ci si aspettava vivessero le donne del suo tempo. Cinicamente si potrebbe pensare che sia rimasta incatenata dai vincoli sociali. Ma credo che il motivo per cui sia rimasta sempre accanto a mio nonno sia più semplice: continuava ad amarlo, nonostante tutto. Il mio romanzo racconta la perdita del linguaggio, delle idee e delle storie ma alla fine parla di qualcosa di inesprimibile e concreto, che va al di là della ricerca delle parole: è una storia d’amore”. Ed è un amore anomalo, folle per l’appunto, quasi irrealizzabile, che contiene però in sé un’utopia possibile, la nostalgia per un’altra vita dove quell’amore diventi sufficiente, basti a se stesso senza bisogno di altro, e vinca l’impossibilità di un immediato futuro. Una vita dove la malattia mentale, perfino quella più cruenta e terribile da sopportare, soccomba di fronte alla forza dell’amore. “Provenendo da una famiglia come la mia, sofferente di varie forme di malattie mentali, non posso fare a meno di pensare che non siamo nient’altro che la cruda biologia dei nostri cervelli. Ma con i miei romanzi tento di trovare qualcosa che trascenda la verità inconfutabile del nostro sistema nervoso. Non sono sicuro di aver trovato una risposta ma penso che nel mistero dell’arte e in quello dell’amore ci sia uno spazio inviolato, esterno al caos e alla scienza dei nostri cervelli. Una sorta di paradiso temporaneo che ci creiamo l’un l’altro, e che continua a vivere nelle storie che raccontiamo”.
Questo articolo-intervista è uscito per «D di Repubblica».
È nata a Bolzano e ha vissuto ad Algeri e Palermo. Abita tra Roma e New York, dove traduce e scrive di libri, cinema e fumetti per La Repubblica, Il venerdì e D. Ha tradotto, tra gli altri, Charles Bukowski, Tom Wolfe, Jacques Derrida, A.M. Homes, Douglas Coupland, James Franco, Lillian Roxon e Lena Dunham, e ha tradotto e curato la nuova edizione italiana di Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll (minimum fax, 2012). Insieme a Daniele Marotta è autrice del graphic novel Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald (minimum fax, 2011), pubblicato anche in Spagna, Sudamerica, Stati Uniti, Canada e Francia.

