Leggendo una poesia di Roberto Bolaño, per il canale streaming di «Decamerette», ho involontariamente sostituito in piedi ci sono solo i cordoni / della polizia con in piedi ci sono solo i cordoni / della poesia, mi è parso da subito uno dei più bei refusi di sempre. L’idea di una nuova rubrica è nata quel giorno, un appuntamento che facesse l’esatto contrario di ciò che fanno i cordoni della polizia: avvicinare. Accorciare le distanze. Per ogni numero si parlerà di una, due o più poesie, di vari poeti, cercando un filo comune, facendo sì che versi lontani si tengano per mano.
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Diciamo delle storie, diciamocene i contesti, sveliamone i gesti. Assecondiamole, lasciamole uscire. Partiamo da un punto, che a volte è una lettera, a volte è un porto, altre ancora una fabbrica, un punto che a volte è un corpo, altre ancora è una memoria. Diciamo di un linguaggio, di come nasce, di come si trasforma, di come insegna, di quanto dimentica e ricorda, di come assopisce, dimora, di come e cosa smuova. Diciamo nostalgia, diciamo figli, diciamo industria, diciamo morte, diciamo luoghi, diciamoli astratti, diciamoli concreti. Diciamo cose come casa, come culla, come mare, come Taranto, come Romania. Diciamo il tempo e le molte modalità in cui si agita la poesia, anzi si scuote, nei casi migliori, ci scuote. Tre libri, tre poeti, tre modalità di spostare l’orizzonte in avanti, l’unica strada possibile.
Tre varchi tra le parole e le persone, tra le persone e la visione, tra ieri e il futuro. Qualcuno nato da poco, qualcuno che morto, qualcuno che balla intorno a un tavolo, qualcuno che guarda a est, qualcuno che dal mare osserva le ciminiere. Versi lunghi, versi corti, tensione verso la prosa, disegni immagini, poesie di un verso solo, poesie che non finiscono che non possono finire. Non devono. Quando leggerai sarai futura apre una poesia di Francesca Gironi, e quando leggeremo lo saremo anche noi. Non lo siamo sempre quando mettiamo gli occhi sopra le parole scritte da altri? Non è meno lunga la strada / per tornare, con le sue curve, scrive in una poesia Stefano Modeo, e anche questo a suo modo è un invito, prima di tutto. Quando leggiamo è su una strada che ci mettiamo, e lo sappiamo, non può essere che lunga, non è mai un rettilineo. Lo sappiamo, quando leggiamo una bella poesia, noi torniamo, anche in luoghi dove non siamo stati. Cercavo non so perché, e non so cosa, scrive Riccardo Frolloni, in un verso abbastanza corto tra i suoi versi molto lunghi. Prendiamo una poesia, la leggiamo, non lo sappiamo ancora ma stiamo cercando e davvero non sappiamo il perché, e non sappiamo mai cosa, non lo sappiamo nemmeno dopo aver trovato.
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«La prima consonante
un’occlusiva bilabiale sorda
poi una sillaba.
La bambina ha quattro denti
un addestramento ai dolori esistenti
di febbre in febbre,
con un gesto ampio della mano
guarda verso il lampadario e dice beo.
È il 4 febbraio
ascolti Ciajkovskij
il passo a quattro dei cignetti,
le racconti
com’è fatto un teatro
Il mondo beo
apre il sipario.
Se canta la cinciallegra
guariremo tutti».
A si intitola il nuovo libro di Francesca Gironi. A, semplicemente, ma anche A come contenitore di complessità, sguardi, speranze, attese, disattese, timori, occhi puntati sul mondo a venire. Il libro è edito da Prufrock ed è molto bello, luminoso. Gironi costruisce una storia di linguaggio e ce la mostra, facendo avanti e indietro tra ciò che insegniamo e ciò che impariamo. A, è la prima lettera dell’alfabeto, l’incipit delle altre, da lì parti per insegnare a una figlia, e cosa insegni se non quello che sai misto a quello che non sai? Insegni l’ignoto. A magnetica, muta, viene dal silenzio, da un altro tempo, forse da un altro spazio. La tua prima lettera è questa, seguine il filo, scioglilo. Apri il sipario così come il mondo lo apre su di te. La poesia qui sopra chiude con una bellissima ipotesi (ma quanto sono belle le ipotesi, le frasi ipotetiche, ci pensate?): il canto guarisce: della cinciallegra, della bambina, di una musica che si insinua dietro i vetri. Guariremo tutti, scrive Gironi. La sua ipotesi ci convince, e allora insegniamo la prima lettera, impariamo il canto.
L’addestramento ai dolori esistenti e poi lo sguardo al lampadario, alla luce e al mondo. La poesia di Gironi, da sempre, ha a che fare con il movimento, con il corpo, con la danza, così che le parole si muovono e con loro i significati. Mentre insegniamo un linguaggio ne impariamo un altro. Perché il soggetto che scrive parla con la bambina, poi con una macchina, con una chatbot, con un’assistente vocale, con un robot umanoide. Tutte le parole verso questi soggetti astratti e concreti permeano un desiderio, quello che generererà una persona utopica. Chi parla però viene anche attraversato dalle parole di ritorno, belle o brutte che siano, e sono notifiche, e sono discorsi retorici, sono notizie di disastri, di cronaca. Tutto, ogni giorno è catastrofe, tutto, ogni giorno è nascita. Ecco che la bambina è le nostre giornate, il luogo dove proviamo a salvarci. Se vuoi parlare ancora / sottoscrivi un abbonamento illimitato, scrive Francesca Gironi. Sottoscriviamo.
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«Portineria D
Persi tra le cime degli ulivi
gli uomini alle portinerie
a polmoni pieni, per tutto
quello che poteva venire,
dovevano restare muti
dentro un’idea pura,
una vita dietro l’altra.
Pensavano di sentire
dentro la notte il mare
mugghiare nei magazzini
il nero mare limpido
sognato dai ragazzini».
Partire da qui, si intitola così il nuovo libro di Stefano Modeo, edito da Interno Poesia, ed è un libro che fornisce un indirizzo di partenza e suggerisce un movimento dal luogo, verso quello che verrà, alla ricerca di un tempo in cui costruirsi, dove portarsi le memorie, dove guardarsi oltre la schiena e capirsi, guarirsi. Taranto è la partenza per Modeo, ma non è soltanto un posto – non lo sono mai – sono le persone, le storie, il complesso industriale. La complessità della fabbrica a sud, al mare. Il suo essere portatore di speranze e di innovazione che è diventato chiusura, che s’è fatto morte. Taranto e il suo odore i bambini (e il bambino che Modeo è stato), il mare che al sud diciamo salvezza, sapendo di dirne solo una parte. Il sud che non abbiamo capito: né chi ci è nato, né chi se ne è andato, né chi osa metterci piede, né chi ci torna. Modeo misura indagine e nostalgia, sogno e materia, dolore e preghiera, guizzi e sconfitte, e – ovviamente – nascita e morte. Quello che poteva venire, scrive e poi dentro un’idea pura / una vita dietro l’altra; una serie di versi molto riuscita che cuce all’indietro e apre, in qualche modo, al futuro. Si parte, scrive Modeo, ma non si abbandona mai niente per davvero, lui lo sa, però si cerca e cercando si impara meglio quello che si è lasciato tra le pietre dove ci hanno insegnato a camminare, a giocare, a ridere, a piangere.
Stefano Modeo è molto bravo, le sue poesie sono equilibrate, si avverte la pazienza e si sente la sua capacità di osservare il sud e la storia e la poesia del sud (è anche un bravissimo saggista). Scrivere per costruirsi un’identità? Forse, ma soprattutto per capirla, per trovare tra un verso e l’altro quel bagliore, lo spiraglio che tagli i fumi dell’Ilva e riporti tutto a casa, tutto in vita. Bisogna sognare, partire, eppure qualcosa ci lega, ci tiene fermi, vengono in mente i versi di una poeta marchigiana (come Gironi) molto brava, Barbara Coacci, che scriveva: «vedi come lo slancio si arrampica / fino allo strappo, al crampo / ma non si stacca mai niente da terra». Modeo lo sa, ma anche che raccontando con i versi qualcosa si stacca, forse mai definitivamente, ma come un elastico tra il mare di Taranto e le città a venire.
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«La guardavano male. Nessuno lì portava sciarpe, o almeno, negli anni
del dopo dittatura Ceausescu le donne avevano solo colbacchi, collo alto e pelliccia.
All’aeroporto sbagliato di Bucarest, Bucuresti in rumeno, mia madre aspettava
una macchina che non la stava aspettando, e ha avuto paura.
Era necessariamente l’anno più gelido degli ultimi ricordi, lo sarebbe stato comunque
per chi come noi non ha mai ascoltato storie di sangue gelato, e non poteva
uscire e poi rientrare, non poteva chiedere aiuto, non sa la lingua e poi
cosa chiedere, forse sono proprio le facce che incutono mutismo, dipingono fuggiaschi,
traditori, ladri – la provincia sempre presente, il diverso come mostro, il sospetto e di nuovo
la paura, la paura ti salva la vita, stai attenta – cercava un cenno, un sorriso, il nome Alina
nei lineamenti, nome comune, un numero di telefono fisso, di casa sua, forse, cerca
una cabina telefonica, ma prima: il cambio valuta, mille lei, cartaccia che non vale niente,
aveva appena venticinque anni, e la fuga e la vita era un tutt’uno».
Un fatto. Questa poesia che leggete qui sopra commuove profondamente chi scrive questo pezzo, e questo aspetto, ovvero il turbamento provocato da un testo di cui si conosce ancora poco, dice tanto di quello che dovrebbe fare la poesia, di quello che ci aspettiamo (inconsapevoli) quando leggiamo. Cerchiamo un altrove, il posto di cui avevamo bisogno. Questa poesia è tra le prime di Amigdala di Riccardo Frolloni, pubblicato da Aragno, ed è una vera e propria storia in versi e poi, andando avanti nel libro è anche cornice per le altre poesie, per molte delle pagine successive, di questo libro davvero molto bello. Una poesia che è bordo, misura, quadro, contenuto.
Per Amigdala si intende la parte del cervello che contiene la memoria emotiva, e trattandosi di memoria ed emozioni, potremmo dire che quella parte (senza fondamenta scientifiche ma poetiche) è un territorio vasto e sconosciuto, mobile. Frolloni estende il campo, quella parte del cervello diventa spazio familiare, la memoria emotiva pare farsi collettiva e si espande alle esperienze dei genitori, anche qui: all’indietro, insieme alle proprie e ad altre che si sono spostate dai luoghi agli anni, agli altri tempi.
Cose come orologi, altri oggetti, vecchie auto, città dell’est, viaggi verso l’ignoto, parole come comunismo che hanno significato tutto e poi niente, e dopo ancora chissà. […] mia madre aspettava / una macchina che non la stava aspettando, e ha avuto paura; un passaggio che è un’inquadratura sembra la fotografia di un film, e come in un film, noi vediamo la donna, ne immaginiamo i contorni, il paesaggio circostante, la sua postura, il suo sgomento. La vediamo e poi la vedremo in tutto il libro, con il padre, con gli altri personaggi, veri o falsi, che Frolloni mette in scena. Anche le storie vere sono inventate, anche il ricordo vero necessita di finzione. Due linguaggi, quello dell’est che è misurato, circostanziato e quello futuro ancora da immaginare, da inseguire. […] e la fuga e la vita era tutt’uno, così chiude questa poesia e così è da sempre. E due forme, quella della poesia tradizionale e quella della prosa che si incrociano e completano. La vita molto spesso, per tanti, in circostanze e periodi storici diversi, ha avuto a che fare con la fuga, come sappiamo.
Fuga da un regime, dalla povertà, da un paese, da posti e storie che non lasciavano scampo al sogno. Sì, qui ci sono alcune vicende che riguardano la famiglia del poeta, ma c’è una parte significativa del Novecento: la televisione che mostrava il sogno a portata di mano, le città fatte di illusioni svanite appena varcati i confini, e il comunismo, come detto, sintetizzato in tutta la sua concreta evanescenza, in questo verso: «Il comunismo, pensa mia madre, o non pensa a niente». Ma i sogni (così come le delusioni) non finiscono mai con la parola niente, anche quelli che non si realizzano sono stati qualcosa, una minima spinta. La Romania post dittatura comunista e la provincia Maceratese degli anni Novanta finisce che si somigliano, che vadano a braccetto, di frammento in frammento scritto da Frolloni, immagine dopo immagine che saltano fuori dai versi e ci vengono a cercare, a volte a parole, a volte con vere e proprie fotografie che accompagnano le poesie / prose, e a volte centrano un punto, altre per fortuna lo sfumano.
Tre libri, questi di Francesca Gironi, Stefano Modeo e Riccardo Frolloni, molto belli e diversi l’uno dall’altra ma che hanno una radice comune che è data dall’esperienza, che sempre è la somma del dove (e da chi, da cosa) si viene e dal dove si andrà.
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
Altre info qui:
https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/
