clay

La stella di Muhammad Ali brillò per la primissima volta all’Olimpiade di Roma del 1960. All’epoca era ancora Cassius Clay e aveva 18 anni. Il pezzo che segue ricorda la magia della XVII olimpiade ed è uscito sul Mucchio.

L’organizzazione

È il 1955: dieci anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Stalin è morto da due anni. Fellini è reduce dal successo del film La Strada.  J.D. Salinger ha già pubblicato Il giovane Holden. Nasce la Coppa dei Campioni. E Roma ottiene l’organizzazione delle Olimpiadi del ’60: curiosamente, quelle del 1964 saranno affidate ad un’altra capitale dell’Asse sconfitto, Tokyo.

A capo del Comitato Olimpico Internazionale c’è lo statunitense Avery Brundage. Nel suo personale curriculum, il rifiuto – come capo dello sport americano – di boicottare l’Olimpiade del 1936 a Berlino, in pieno Terzo Reich: è anche vero che grazie a questa scelta  il mondo poté assistere a una delle imprese sportive più significative di sempre, il trionfo del negro Jesse Owens in faccia a Hitler. Figura controversa, quella di Brundage: chiacchierato in patria e accusato di simpatie naziste. Come interlocutore principe per l’organizzazione di Roma ‘60, non poteva chiedere di meglio: il Presidente del Comitato Organizzatore è Giulio Andreotti, all’epoca Ministro della Difesa.

La città. Si comincia

Discutibili quanto vogliamo, i tipini del Comitato organizzatore; ma il risultato, nei ricordi pressoché unanimi di chi l’ha vissuta, è un’Olimpiade unica. Senza il tragico sangue di Monaco ’72 o l’allegria di Barcellona ’92; senza lo spirito rivoluzionario di Città del Messico ’68 o le imprese spettacolari del Dream Team Usa nel basket: quelli romani furono quindici giorni in cui il romanticismo ingenuo dello sport declinato nella sua versione più pura si scontrò con i primi veri tentativi di commercializzazione. Quindici giorni in cui le spie americane alloggiavano in lussuosi alberghi in via Veneto, cercando di contrastare i successi sovietici – il medagliere di quell’edizione verrà vinto proprio dall’Urss.

Roma dev’essere stata magnifica, sul finire dell’Agosto 1960. Pier Luigi Nervi ha consegnato alla città il Palazzetto dello Sport; le Terme di Caracalla ospiteranno la ginnastica, la Basilica di Massenzio la lotta, la maratona si correrà sui Fori Imperiali. Il 25 agosto 1960, nel ristrutturato Stadio Olimpico, viene dunque dato il via alle Olimpiadi di Roma. Una delle delegazioni più esigue è quella cilena: poche settimane prima dell’inizio dei Giochi, un terremoto ha squassato il Paese e provocato oltre tremila vittime; gli atleti sono ridotti da ottanta a una decina scarsa.

Le gare, le imprese

Non partono sotto i migliori auspici, i Giochi di Roma. Durante la cronometro a squadre, il ciclista danese Knud Jensen si schianta a terra, urtando il suolo senza casco. Morirà nel pomeriggio.  Vittima del caldo tropicale di quella giornata, si dirà. Più probabilmente, Jensen aveva assunto sostanze dopanti, come faranno intuire negli anni i medici che svolsero l’autopsia.

Come in ogni show che si rispetti, le Olimpiadi vanno avanti (del resto, già alle Olimpiadi del 1912 si registrò un morto, nella maratona, senza che le gare si fermassero; per non parlare di quello che sarebbe accaduto dodici anni dopo, a Monaco). E proprio nel ciclismo gli italiani vanno fortissimo, riuscendo ad ottenere cinque medaglie d’oro – l’Italia si classificherà terza nel medagliere, miglior risultato di sempre: 13 ori, 10 argenti e 13 bronzi. Altre soddisfazioni vengono dalla “solita” scherma, grazie alle imprese di Giuseppe Delfino, già vincitore a Helsinki ‘52 e Melbourne ’56.

La medaglia più bella, però, viene conquistata in un sabato pomeriggio delizioso per lo sport italiano. All’Olimpico si corre la finale dei 200 metri, al nastro di partenza c’è anche il giovanissimo Livio Berruti, «L’espresso di Torino». Sfruttando tecnica, eleganza e capacità di sopportare la pressione di uno stadio tutto per lui, Berruti supera gli avversari – sprinter americani in primis – e stravince la gara,fissando anche il record olimpico. Il fermo immagine del suo trionfo lo ritrae slanciato verso il traguardo, con i suoi occhiali da sole caratteristici – non per vezzo ma per… miopia. 20”5: a Pechino, quasi cinquant’anni dopo, Bolt correrà in 19”30.

La stella arrivata da Louisville

Roma ’60 è stata la prima Olimpiade trasmessa integralmente, o quasi, dalla televisione: la RAI garantì una copertura eccezionale per l’epoca. Anche grazie a questo, nascono le prime stelle massmediatiche mondiali. Soprattutto, Roma è l’alba di un diciottenne pugile di Louisville, Cassius Clay, il futuro Muhammad Ali.

Strafottente e sfrontato, giunto in Italia dopo aver vinto la paura del volo, il pugile americano straccia nella finale dei pesi mediomassimi il suo avversario, il polacco Pietrzykowski (si dice fosse il proprietario di un caffè), imponendosi all’attenzione mondiale. Si fa notare anche nel Villaggio olimpico: pare avesse preso una cotta per la velocista americana Wilma Rudolph, ventesima di ventidue fratelli e altra stella di quelle Olimpiadi, vincitrice di ben tre medaglie d’oro nei 100, nei 200 e nella staffetta 4 × 100 (si fantasticò anche di una storia con Berruti, per via di una foto che li ritraeva mano nella mano).

La modernità passa per le dirette televisive, ma non si può dire che tutto filò davvero liscio. Nella finale dei 100 metri stile libero, disputata nel nuovo Stadio del Nuoto, all’aperto, gli spettatori vedono due sagome arrivare a bordo piscina praticamente insieme. A giocarsi la medaglia,il surfista californiano Lance Larson e l’australiano John Devitt. Larson sembra arrivare prima di qualche centimetro. Così confermano i cronometri. Ma il vincitore è stabilito dai giudici, che si spaccano a metà: tre contro tre. La decisione finale la prende il presidente della giuria, ben lontano dal bordo piscina, che assegna l’oro a Devitt, per la disperazione di Larson, in una delle beffe più amare registrate alle Olimpiadi.

Bikila

L’ultima gara da disputare a Roma ’60 è la maratona. Ora, ci sono avvenimenti talmente forti da diventare leggendari: ma quello che accadde quel sabato 10 settembre possiede quel tipo di carica sportiva e simbolica immensa che solo certe congiunzioni storiche possono regalare. Dopo una corsa elegante, a piedi nudi sul tracciato lungo la via Appia, passando sotto l’obelisco di Axum rubato da Mussolini alla sua nazione, giungendo nella spianata dei Fori imperiali illuminati di sole torce, l’etiope Abebe Bikila taglia il traguardo in due ore e quindici minuti, primo atleta africano ad ottenere l’oro, sotto l’Arco di Costantino.

Celebrato in patria come eroe nazionale, tutto quello che dirà a fine corsa è che avrebbe potuto continuare ancora a correre. Bikila otterrà altri trionfi, stavolta con regolari scarpe da gara, fino a quando un incedente d’auto, nel 1968, lo costringerà alla sedia a rotelle, il destino immancabilmente tragico degli eroi che si compie ancora una volta. Bikila è morto nel 1973 per un’emorragia cerebrale. Nel marzo 2010 la maratona di Roma è stata vinta dall’etiope Siraj Gena: per omaggiare il suo eroe ha percorso gli ultimi cinquecento metri scalzo, reggendo in mano la bandiera etiope.
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Credits: David Maraniss, Roma 1960, Rizzoli; Marco Patucchi, Maratoneti, Baldini Castoldi Dalai; David Remnick, Il re del mondo, Feltrinelli; Comitato organizzatore, The XVII Olympiad, Formato digitale.

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Autore

gavroche1983@yahoo.it

Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell'agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.

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