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Pubblichiamo un pezzo uscito sul Venerdì di Repubblica, che ringraziamo.
FIRENZE. “Fu Baccio d’Agnolo l’architetto di questo palazzo” dice Sergio Givone mentre m’invita a entrare. “Ho scoperto la sua storia vivendo qui. Baccio fu il primo caso di artista che di fronte al fallimento si uccide. Prima, l’architetto medievale era al servizio dell’opera. Poi tutto cambia. Lo definirono pazzo per queste finestre così grandi in cui il rapporto luce – parete veniva sovvertito. Oggi però lo ringraziamo. Michelangelo lo distrusse con il disprezzo verso la sua opera a completamento del tamburo della cupola del Brunelleschi. La definì “una gabbia per grilli” e Baccio non poté sopportarlo”.
La luce di un mattino in cui il vento freddo ha spazzato il cielo di Firenze inonda la casa zeppa di librerie. Givone, scrittore e filosofo (è stato docente di Estetica a Perugia, Torino e Firenze), ha appena pubblicato Fra terra e cielo. La vera storia della cupola di Brunelleschi (Solferino, pp. 171, euro 16) e mi spiega come il libro sia nato proprio mentre osserviamo la cupola attraverso le grandi finestre che Baccio concepì per Palazzo Taddei. “Tre anni fa sono stato nominato Fabbriciere dell’Opera di Santa Maria del Fiore, istituzione che si occupa di conservazione e valorizzazione dei monumenti che costituiscono il Grande Museo del Duomo fin dal 1296. Da allora funziona sulla base degli stessi principi e leggi che sono semplicissimi e proprio per questo molto efficienti. Fra i sette Fabbricieri c’è un filosofo che ha il compito di far sapere cosa succede lì dentro. Il libro nasce dalla mia esperienza, da quello che ho scoperto negli Archivi, leggendo e studiando la genialità di Brunelleschi. Non poteva esserci momento migliore, del resto. Quest’anno si celebra il sesto centenario dalla posa della prima pietra”.
Ci avviamo lungo via Ginori. Quando la piazza si apre, fra turisti in mascherina, Givone alza gli occhi al cielo estasiato. È un fiume in piena e non resiste a tornare con mille particolari su ciò che ho letto nel suo libro. Il senso di vergogna dei fiorentini di fronte alla cattedrale rimasta scoperta per ben più di un secolo, visto che le idee per completare la sua opera Arnolfo di Cambio se le portò nella tomba con la morte improvvisa nel 1302. Sulla immensa base ottagonale nessuno riusciva a immaginare come fosse possibile erigere una cupola. Finché non arrivò Filippo di ser Brunellesco Lapi, nato a Firenze nel 1377 che iniziò a dirsi sicuro del fatto suo di fronte allo stupore e all’ironia dei concittadini. “Mi ero convinto che per Santa Reparata ci volesse qualcosa che non è né cupola né piramide, ma è al tempo stesso cupola e piramide” dice Brunelleschi – nella ricostruzione narrativa di Givone – al figlio adottivo, il cosiddetto Buggiano, riflettendo sull’enigma che nessuno riusciva a risolvere. Il Battistero poteva rappresentare un esempio e uno stimolo: una piramide formata da otto triangoli uguali e che al tempo stesso è una cupola perché copre una semisfera la quale lo sorregge e lo consolida. I fiorentini però chiedevano conferme e prove dell’idea di cui Brunelleschi si riteneva certo, conferme che l’uomo non voleva e non poteva dare.
“Era un uomo terribilissimo” spiega Givone mentre ci avviamo verso i 463 gradini che portano in cima al capolavoro. “Gli uomini tremavano di fronte a lui. Era convinto platonicamente che l’idea viene prima dell’opera e che solo nel momento in cui fossero cominciati i lavori le soluzioni si sarebbero chiarite”. Gli aneddoti che raccontano l’opera di persuasione con cui infine il compito gli venne assegnato sono straordinari. Brunelleschi del resto non era solo uomo dedito all’idea. La cura con cui seguì i lavori fu addirittura maniacale. “Diceva di conoscere le caratteristiche di ogni pietra e di sapere dove ciascuna andasse posata. Era perennemente presente e poiché gli era stato affiancato Lorenzo Ghiberti nella direzione dei lavori, escogitò un piano per umiliarlo e liberarsene. Si diede malato, lasciò a lui per giorni interi ogni responsabilità, lo spinse alla confusione e lo obbligò ad ammettere di non essere capace. Dunque tornò in piena salute. Con indulgenza si limitò a chiedere che a lui solo venisse dato il titolo di “Inventore”. Voleva che fosse riconosciuta la sua grandezza soltanto in questo, nell’essere colui che aveva tratto fuori l’opera dal nulla, perché aveva visto, e vedendo aveva capito come è dall’intuizione dell’idea che le regole si danno”.
Mentre ci lanciamo nell’ascesa e gli spazi per le scale via via si restringono, Givone indica le soluzioni sempre diverse e contingenti che l’architetto dovette escogitare. Non erano soluzioni che si potessero riportare nel modello che Brunelleschi infine offrì con sprezzo, perché consapevole che non serviva a nulla. Avvicinandosi alla conclusione del grande lavoro, del resto, quando l’opera stava per farsi realtà, egli fu preso da quella malinconia che cinquant’ anni dopo spinse Baccio al suicidio. In Brunelleschi non si trattava del terrore del fallimento ma semmai del terrore di vedere realizzato ciò che era stato semplicemente idea. O meglio, il terrore di essere un cialtrone perché ogni inventore è per necessità un buffone e un ladro. “Si tratta di un uomo tragico. Non è il Titano che sfida il cielo ma l’uomo consapevole della sua hybris. Eppure al tempo stesso conscio che solo chi è disposto a perdere l’anima la salva. Solo chi fa esperienza del fallimento può ritrovarsi”.
Quando ci affacciamo sotto alla grande lanterna che copre la cupola dando a essa la stabilità definitiva, Givone la osserva come se non l’avesse mai vista. Prima la cupola era venuta su come se la forza di gravità si fosse trasformata in forza di levità. Quello che Brunelleschi chiamava “amor di salita”, ossia il fatto che crescendo nella sua costruzione la cupola si sosteneva da sé. È del 1436, sedici anni dopo l’inizio, l’ultima cerchiatura. Ma per vedere quella lanterna che dà all’opera la sua perfezione si dovette aspettare ancora molto. Per dieci anni i lavori furono sostanzialmente fermi. Suo figlio, il Buggiano, riuscì a completare la lanterna fra il 46 (quando il padre morì) e il 50. “A vederla da lontano sembra poca cosa ma è gigantesca. Per far arrivare qui in piazza i materiali Brunelleschi arrivò a concepire la distruzione della torre dei Bischeri, un episodio che ha dato origine all’uso dell’aggettivo bischero…”
Prima di tornare a casa, Givone mi porta a vedere lo Spedale degli Innocenti per mostrarmi gli aspetti così contraddittori di un uomo che era capace di distruggere l’identità altrui (un episodio è descritto nei minimi particolari nel libro: la burla che Brunelleschi ideò ai danni di un ebanista, facendogli perdere la certezza di essere se stesso e spingendolo alla fuga) e di concepire luoghi dove salvare donne e bambini, diviso fra la pesantezza della propria anima e la leggerezza che immaginava. “Generalmente, per esempio, non si racconta quanto avesse a cuore i suoi operai, la loro sicurezza, la loro alimentazione. Era modernissimo in questo. Anche se il terrore che incuteva non lasciò che i suoi meriti venissero riconosciuti”. Aveva organizzato un sistema di impalcature dotate di sistemi di sicurezza all’avanguardia. Su di esse era sempre presente cibo e vino che allora era considerato un alimento decisivo. Quanto al cibo dominava uno stufato assai energizzante che Givone mi rivela di aver preparato proprio oggi per celebrare. Così torniamo velocemente a casa. La luce entra a fiotti attraverso le finestre di Baccio e il peposo del Brunelleschi è in tavola assieme al vino rosso di queste parti. L’idea che si fa realtà. Senza tragedia.
Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L’abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L’eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L’Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it
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