
Pubblichiamo un pezzo uscito sul Venerdì, che ringraziamo (lo scatto è di Karjean Levine).
Nelle prime pagine di Tutto sull’amore (a cura di Maria Nadotti, Il Saggiatore, pp. 232, 19 euro), la scrittrice e attivista americana bell hooks racconta questa storia: quando insegnava a Yale, andando all’università, un giorno vide un graffito sul muro di un edificio in costruzione. Il graffito diceva: “La ricerca dell’amore continua nonostante le difficoltà”. All’epoca hooks aveva appena chiuso una relazione e attraversava un momento complicato, quella scritta in qualche modo la confortava. Dopo un po’ il muro venne imbiancato e la scritta cancellata, lei rintracciò l’artista che le regalò alcune istantanee del graffito. Da quel giorno portò quelle foto con sé in tutte le case dove andò ad abitare, sistemandole in cucina sopra il lavandino.
Pubblicato negli Stati Uniti nel 2000 e per la prima volta in Italia da Feltrinelli nel 2003, Tutto sull’amore è uno dei tasselli della luminosa e quasi sconfinata opera di hooks che è tornato in questi mesi nelle librerie italiane insieme ad altri testi fino a oggi mai tradotti. Ci sono i due saggi di pedagogia, Imparare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà e Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, pubblicati da Meltemi. C’è Da che parte stiamo. La classe conta, appena pubblicato dalla casa editrice indipendente Tamu, che di hooks ha già in catalogo Elogio al margine/Scrivere al buio (con Maria Nadotti) e Il femminismo è per tutti. C’è La volontà di cambiare, che insieme a Tutto sull’amore rientra nella cinquina di libri di hooks che tra quest’anno e il prossimo Il Saggiatore manda in libreria. Pubblicato per la prima volta in Italia lo scorso ottobre, La volontà di cambiare ha per sottotitolo “Mascolinità e amore” ed è un’attenta analisi delle dinamiche di potere e violenza generate da secoli di patriarcato che solo una profonda rivoluzione affettiva è in grado di disinnescare. Una rivoluzione in cui uomini e donne siano schierati dalla stessa parte, disposti a combattere la stessa battaglia.
Un modo per iniziare a parlare di bell hooks è spiegare le minuscole del nome. Nata Gloria Jean Watkins nel 1952 in Kentucky, a ventidue anni pubblica il suo primo libro, è una piccola raccolta di poesie (una ventina di pagine in tutto, le raccolte brevi che in America chiamano chapbook), si chiama And There We Wept, e lì abbiamo pianto. Cercando uno pseudonimo con cui firmarlo decide di rendere omaggio alla bisnonna materna, Bell Blair Hooks, e di scriverlo minuscolo perché vuole che la gente si concentri su quello che scrive e non “su chi sono io”. Tre anni dopo pubblica sempre come bell hooks il suo primo saggio. Si chiama Ain’t I a Woman: Black Women and Feminism (Non sono una donna? Donne nere e femminismo, a oggi inedito in Italia), lo ha iniziato a scrivere a diciannove anni, da studentessa a Stanford, accorgendosi di come le femministe dell’epoca non parlassero alla o della sua razza e classe sociale. Scrive: “Per molti versi stavano seguendo le orme delle loro antenate abolizioniste, le quali avevano chiesto che a tutti (alle donne bianche e ai neri) fosse concesso il diritto di voto, ma che, di fronte alla possibilità che i maschi neri ottenessero il diritto di voto mentre a loro era stato negato sulla base del genere, scelsero di allearsi con gli uomini, unendosi sopra la rubrica della supremazia bianca”.
Ain’t I a Woman è un saggio folgorante, che, pubblicato nel 1981, la rende al tempo stesso popolare e scomoda, rivelando un’audacia e una coerenza di pensiero e di scrittura che nei quarant’anni a venire l’ha portata a pubblicare una trentina di opere (è scomparsa nel dicembre del 2021). Ma torniamo a Tutto sull’amore, all’aneddoto sul graffito e alla frase: “La ricerca dell’amore continua nonostante le difficoltà”, così eloquente nel mostrare senza che ci sia bisogno di spiegare quale sia la natura dell’amore, la sua apparente retorica (quale frase è più retorica di quel “ti amo” che così raramente diciamo?) e la sua potenza, capace di rattristarci alla sola scomparsa di una scritta su un muro, perché in quell’assenza intravediamo tutti gli scenari possibili: la scomparsa dell’amore degli altri per noi, la scomparsa del nostro per gli altri, o in generale dell’amore nel mondo, o dell’amor proprio, o dell’amore per un libro o una canzone o una città, e così via potenzialmente all’infinito. Tutto questo ci atterrisce, portandoci ad amare meno per tutelarci, per arginare il danno. Scrive hooks: “Nella vita di tutti i giorni tanto gli uomini quanto le donne ne parlano poco. Il silenzio ci mette al riparo dall’incertezza”. Nel suo Tutto sull’amore osserva il mondo all’inizio del millennio, il fatto triste che dell’amore non si faccia che parlare con sarcasmo e disincanto, il modo in cui il consumismo alimenta l’assenza d’amore a proprio vantaggio, la necessità, o anche solo la possibilità, di tornare al canto di Salomone quando dice: “Ho trovato colui che la mia anima ama. L’ho trattenuto e non l’ho lasciato andare”. Ancora hooks, parlando del graffito: “Ogni giorno, quando bevo un bicchiere d’acqua o prendo un piatto dalla credenza, mi trovo dinanzi a questo promemoria del fatto che aneliamo all’amore – e che lo cerchiamo – anche quando ci manca la speranza che si possa davvero trovare”. Ancora hooks, parlando dell’amore: “Ed è particolarmente difficile parlare d’amore quando quel che abbiamo da dire richiama l’attenzione sul fatto che il disamore è più comune dell’amore, che molti di noi non sanno bene che cosa intendiamo quando parliamo d’amore e come fare a esprimerlo”. Il modo migliore per descrivere l’opera di hooks è dire che è rivoluzionaria. Lo era nel 1981, lo è stata nei quarant’anni successivi, lo è oggi, quando parlare d’amore è diventato un atto rivoluzionario.
In ultimo, un aneddoto autobiografico, a misurare e colmare le distanze: mentre scrivo sono a New York già da qualche mese. Il parrucchiere a due strade da casa mia ha una copia di Tutto sull’amore sul bancone all’ingresso. La copertina è rossa, la scritta all about love è nera e minuscola, è una prima edizione. La prima volta che l’ho visto, l’ho sfogliato e riletto un po’ a saltare – lo avevo letto anni prima in italiano, volevo vedere come suonava in inglese. La seconda volta ho chiesto a un paio di ragazzi che lavorano lì se lo avessero letto. Hanno detto sure, certo. La terza volta, con l’edizione italiana in borsa, l’ho guardato e mi sono sentita a casa.
È nata a Bolzano e ha vissuto ad Algeri e Palermo. Abita tra Roma e New York, dove traduce e scrive di libri, cinema e fumetti per La Repubblica, Il venerdì e D. Ha tradotto, tra gli altri, Charles Bukowski, Tom Wolfe, Jacques Derrida, A.M. Homes, Douglas Coupland, James Franco, Lillian Roxon e Lena Dunham, e ha tradotto e curato la nuova edizione italiana di Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll (minimum fax, 2012). Insieme a Daniele Marotta è autrice del graphic novel Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald (minimum fax, 2011), pubblicato anche in Spagna, Sudamerica, Stati Uniti, Canada e Francia.