(foto di Francesco Capitani)

di Mario De Santis

Per il RomaEuropa Festival la compagnia VicoQuartoMazzini ha adattato per il teatro il romanzo di Nicola Lagioia, restituendo la forza di denuncia di un male sociale, radicato fin dentro i legami di sangue.

Ogni storia di faida familiare finisce per somigliare a tutte le altre, a cominciare da quelle narrate nelle tragedie greche. Quello che rende una storia di faida unica “a modo suo” è il contesto storico in cui accade (altrimenti dopo Sofocle e Omero non avremmo scritto nulla). È quello che ha fatto Nicola Lagioia con “La ferocia”, romanzo Premio Strega 2015 e che oggi il duo Michele Altamura e Gabriele Paolocà (in arte sono “VicoQuartoMazzini”, premio Hystrio 2021 come migliore compagnia emergente) ha adattato in maniera convincente e magnetica per il teatro, con lo spettacolo che mantiene il titolo del romanzo (“La ferocia”) trasportandolo nell’incarnazione dei corpi sulla scena, verso quella radice tragica da cui tutte le storie di dissidio, rancore, lotta di potere provengono, ma restituendone l’attualità, con una vena esplicita di denuncia.

La trasposizione ha anche ha tolto qualcosa, inevitabilmente. L’adattamento di Linda Dalisi si prende il rischio necessario di asciugare quello che in una romanzo sono le parti che lo scrittore usa per connotare psicologie, atmosfere, per dare il tono generale e il senso, in noir metafisico e “meridiano”, abbagliante di psicologie taglienti come lame. La scrittura con le descrizioni del paesaggio, che oltretutto nel romanzo di Lagioia sono decisive,  perché proprio tra la bellezza del suolo e il “sottosuolo” marcio e avvelenato di terra pugliese (nel Gargano è quello al centro della vicenda) c’è  l’allegoria di un male storico italiano, risiede il tratto distintivo di una tragedia che da una lato è sempre uguale e dall’altro cambia maschera storica (un cambio necessario per conservare, come già insegnava Tomasi di Lampedusa).

Un rischio che la riscrittura di Linda Dalisi e la regia di Altamura & Paolocà tuttavia superano in modo brillante, anche grazie a un cast di attori davvero bravi. Sono loro a tessere la ragnatela dei dialoghi che spesso si intrecciano, intervallati da monologhi e sovrapposizioni, con punti di coralità intrecciata, veloci passaggi di scena, che tengono assieme tutte le cose che la voce narrante dice (ad esempio le digressioni, le osservazioni psicologiche, le mormorazioni interiori).

I dialoghi sono però l’asse portante narrativo, per cui la vicenda, pur avendo questi intrecci di voci, restituisce allo spettatore limpida, e ancora più diretta, la storia della famiglia Salvemini, costruttore pugliese ricchissimo, ora alle soglie dell’età anziana, affaticato ma roccioso, un uomo che si è fatto da solo, dai modi grezzi che affondano in certe precise antropologie, innestate però con un suo essere perfetto rappresentante di un capitalismo predatorio nazionale, pronto a tutto pur di fare affari. “La Ferocia” nella versione VicoQuartoMazzini limita al massimo i riferimenti al meridione italiano (che ovviamente echeggia con la sua specificità di malaffare anche mafioso); limita anche nella quasi totale eliminazione del dialetto e anche nella scenografia di Daniele Spanò, che fa di casa Salvemini una sorta di villa che nelle ampie vetrate scorrevoli, ricorda i quadri di David Hockney, con le come in “A bigger splash” con luce piena, ma anche fredda e piatta, come fossimo nella Danimarca di “Festen”, a rimarcare che stavolta “il sud non è l’eccezione ma la regola”  di un sistema affaristico, come scrivono i registi nelle note.

Salvo una presenza di cannedde, coi loro pennacchi oscillanti, sempre più invasive come la malapianta (o la palma di Sciascia) di certo affarismo, tutto tende verso la raggelante e disumana modalità con cui si comportano e anche muovono fisicamente i personaggi, agli antipodi da ogni espressionismo, di ogni eruzione, sebbene il fare di Vittorio Salvemini (un Leonardo Capuano notevole per voce e fisicità) padre padrone così grottesco ma reale da echeggiare in certi momenti Cetto Laqualunque (un complimento, considerando quella di Albanese una delle grandi maschere della commedia nera italiana). Feroce e fredda la vicenda che Lagioia ha costruito con al centro la morte di Clara, bellissima rampolla di casa Salvemini, accaduta in circostanze misteriose, su cui lo stesso padre fa stendere un velo di omertà per evitare di scoperchiare la rete di torbidi affari e corruzione ce lo stanno per far diventare  ancora più ricco.

Clara, cadavere assente, evocata e maledetta,  nella sua fuga di droga e sesso, è morta in un’orgia sadica di cui era vittima ma anche in qualche modo artefice,  in cui è coinvolto anche quel giro sporco e violento di uomini di potere (il presidente della Corte d’Appello del Tribunale di Bari, il direttore generale dell’Università e l’ex sottosegretario alla Giustizia)  che Vittorio Salvemini ha corrotto per non far analizzare i terreni su cui sorge il complesso di ville di Porto Allegro. La ferocia è quella di un padre che tace, sapendo chi ha ammazzato la figlia, corromperà il medico per cambiare il referto solo per il suo interesse, mentre urla ad ogni occasione che tutto quello che fa, la fa “per i figli”. Sono proprio due dei figli (il terzo, Ruggero, è suo specchio e braccio) a far saltare il sistema: Clara con la sua dolorosa autodistruttività, portata all’estremo, proprio facendo in apparenza il gioco del padre, creando per lui un “delitto perfetto” che gli permetterà di tenere in pugno giudici e politici; e poi Michele, il figlio estraneo e “strano”, legato da un rapporto quasi morboso con la sorella, che tornerà per capire qualcosa della sua morte trovandosi tuttavia davanti un precipizio morale che lo destabilizza.

Qui c’è l’elemento di innovazione della partitura orchestrale di VicoQuartoMazzini: il corpo assente, come in ogni tragedia, è tuttavia fantasma presente a tutti, ognuno parla a Clara, anche il medico mentre mima la manipolazione del cadavere. Verso Clara si indirizza ogni travaso biliare, ogni rabbia, ogni dolore, ogni folle voracità, ma anche lamento di colpe, dolori. E così è chiaro che è  tutto l’asse femminile che tiene in piedi il patriarcato, ma sacrificandosi. Come Clara anche la moglie di Vittorio Salvemini, Annamaria, unico personaggio femminile, potente anche per la prova d’attrice notevolissima di Francesca Mazza: quando al funerale di Clara recita i bigliettini condoglianze e molti di essi pieni di insulti volgari verso Clara, la sua impassibilità di vulcano in eruzione, di morto cadavere di moglie che dà voce ciò che la comunità pensa della figlia e sembra resuscitare la ragazza, con la voce, dalla fossa d’inferno, è una momento monumentale, da dea dell’ade e dei destini maschili. O nel monologo in cui racconta – a noi, a Clara – dell’amante fissa del marito che con quel figlio avuto da lei, stava per far crollare tutto, se non che la morte di parto salva la famiglia, e la roba, con accenti di disperato cinismo e delirio di onnipotenza da brividi.

Un picco attoriale, il suo, ma non sono da meno tutti gli altri non ancora citati: Roberto Alinghieri, Enrico Casale, Gaetano Colella, Andrea Volpetti  e gli stessi registi, Gabriele Paolocà e Michele Altamura, anch’essi in scena). Il figlio Michele denuncerà il marcio della sua terra al giornalista locale, un personaggio collocato al alto, in uno studiolo con microfono, piccolo omaggio a Lagioia (conduttore radiofonico e podcaster) ma anche a quel briciolo di speranza rimasto (se non abbiamo visto male, dopo le battute finali e prima che si spengano le luci, il giornalista prende in mano “Fumo sulla città” di Alessandro Leogrande).

Non si salva nessuno ne “La ferocia”, nemmeno il figlio ribelle. Non minore è la colpa che gli pesa d’aver abbandonato l‘amata Clara. Su tutto lo spettacolo aleggiano le  musiche, continuamente in sottofondo, ma efficaci,  di Pino Basile. Elemento non secondario perché è proprio nel sound che si restituisce la parte sacrificata di scrittura nell’adattamento. La musica inietta la tensione e quel senso di mancanza di scampo, è l’ ovunque (come la ferocia di tutti) col suo fluttuare ossessivo.

Un’ultima cosa, intrecciando libri e teatro: lo spettacolo dà forma concreta a questo bradisismo psichico, laddove nel romanzo si forma nella mente del lettore. Se “La ferocia” è una storia in cui, come le cannedde, il male italiano è invasivo, esso lo è fin dal suo nucleo più proprio, la famiglia, colta nel passaggio al XXI secolo al punto di malessere più acuto, in una voragine di vuoto in cui si è ben oltre il familismo amorale (per un paese che nei suoi miti fondativi ha sempre lotte intestine e fratricide). Un nucleo sbandierato oggi come valore propagandistico, ma che è esso stesso sottosuolo avvelenato; rispetto alla tragedia classica, inoltre, manca una Atena risolutrice, in questa terra in cui invece sono evocate figure animali, i topi su tutti, con aura kafkiana, come numi imponderabili del territorio. O forse preannunciano il loro essere unici abitatori di quel paesaggio, quando gli umani si saranno estinti per una ferocia che sembra essere globale, sebbene sia la nostra e prende alla gola. Proprio qui, in Italia nel XXI secolo, non a Tebe.

L’adattamento di VicoQuartoMazzini ha dato corpo e vita al romanzesco, lo ha riscritto  con intelligenza, dando una fisicità che accentua il realismo del romanzo, in una trasformazione – attraverso il linguaggio artistico della scena – della realtà che si fa così reale davanti ai nostri occhi.

La Ferocia (una produzione di SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Elsinor Centro di Produzione Teatrale, LAC Lugano Arte e Cultura Romaeuropa Festival, Tric Teatri di Bari, Teatro Nazionale Genova) ha debuttato a RomaEuropa Festival  e sarà a Bari (il 12-14 gennaio), Genova (16-21 gennaio), Monopoli (3 febbraio), Lecce (4 febbraio), Cuneo (11 febbraio), Torino (13-18 febbraio), Firenze (24-25 febbraio), Milano (27 febbraio-3 marzo), Lugano (26-27 marzo).

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

redazione@minimaetmoralia.it

Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Articoli correlati