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The Smile arrivano a Taranto nel giorno più caldo di quest’inizio estate. Quaranta gradi, la prossimità del mare fa sudare anche i lampioni sulla rotonda dove si svolge il concerto. Lo stesso Thom Yorke dal palco maledice più volte il “fuckin’ caldo” che ci fa diventare “pazza”.

Per fortuna l’organizzazione per lo più impeccabile del Medimex – giova ribadirlo e parlarne bene ogni volta che si può – rende tutto un pelino più semplice. Al Medimex si viene trattati da esseri umani, non da tristi consumatori di eventi dal vivo. I prezzi sono contenuti, si entra e si esce con calma, c’è spazio per stare tranquilli, i live iniziano e finiscono a orari decenti.

Va detto che, al di là del caldo, quello dei The Smile non è un concerto per niente facile o scontato. Il pubblico fiuta la complessità dell’esibizione e forse anche per questo è un po’ più moderato del solito nell’utilizzo dei telefoni, ascoltando per lo più rapito, concentrato, come se fosse preso sul limitare di una soglia tra sonno e veglia. È un lungo viaggio astrale, quello che Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner propongono con il supporto di Robert Stillman, tra diversi piani dell’esistenza. Un viaggio che parte piano, quasi come un concerto lunare da camera, per poi prendere confidenza e stabilizzarsi nella rarefazione di un suono disarticolato, che si stratifica e si completa, si disperde e si ritrova attorno a una sostanza estremamente calda, ipnotica e delicata.

Non c’è un centro, non c’è un solo ritornello da mandare a memoria, non una “hit” da cantare insieme a Yorke. La forma canzone è costantemente persa e ritrovata, organizzata densamente attorno al suo potenziale sfarinarsi: ogni episodio sembra sul punto di intraprendere cento direzioni diverse, con inserti che ne smentiscono l’intento iniziale, destrutturando il brano e virando ora verso il jazz, l’elettronica da ballare nell’eterna notte che ci aspetta o la world music più stonante, per poi scivolare su un pianismo malinconico o un’ultima, più prevedibile, tirata rock. Nella parte centrale del concerto, complici i giochi di luce e lo sfavillante sfondo scenografico, si pensa spesso a Syd Barrett, a una psichedelia spinta e “posseduta”, quasi da film horror. Yorke, del resto, aveva avvertito all’inizio, sempre in quel suo italiano zoppicante: “Siamo i The Smile: i soriso, sorisso cattivo”.

Ma non si pensa mai ai Radiohead, nel corso del concerto. Nemmeno per un istante. Generalizzando, il guaio dei side project dei grandi artisti è che si portano sempre dietro, anche involontariamente, qualcosa dell’opera principale da cui scaturiscono: a volte sembrano un “what if”, come sarebbero andate le cose se non fossimo diventati troppo famosi per continuare a sperimentare, troppo incasellati in un genere che abbiamo praticamente inventato. È inevitabile, anche umano. Ma i The Smile non sono affatto la prosecuzione dei Radiohead con altri mezzi: sono un progetto originale, che fa musica altra, molto libera, divertita e divertente, che su disco è fatta di estrema sapienza produttiva, mentre dal vivo assume i contorni di una jam session tra amici che suonano insieme da una vita, ma generosamente, per gli altri.

Certo la radice è quella – alcune progressioni, alcuni incastri quasi fiabeschi tra arpeggi e tappeti sonori, la padronanza di elettronica e loop che permette di generare un suono sempre pieno e compatto. Ma per un orecchio attento (o del tutto distratto, nel senso che si è lasciato completamente avvolgere dall’esibizione senza alcuna sovrastruttura intellettuale) è evidente come questa radice venga stravolta, portata altrove con estremo coraggio e senso della sperimentazione mai fine a sé stessa. Quello dei The Smile è un concerto mobile, che scarta costantemente a lato rispetto alle aspettative che si possono riporre nei confronti della singola canzone o di una band formata, per due terzi, da quelli che con tutta probabilità sono due tra i più grandi artisti contemporanei in attività (che non a caso hanno incontrato sulla loro strada un altro grande artista come il regista Paul Thomas Anderson).

Ed è, ovviamente, anche un concerto visivo. Dopo averne assunto due o tre brani, basta chiudere gli occhi o alzarli al cielo nell’umida (ma stellata) notte tarantina, per vedere con estremo nitore le meraviglie della musica dei The Smile, per patirle. Basta voltarsi dall’altra parte per prendere seriamente in considerazione l’ipotesi che Thom Yorke e compagni mettono sul piatto: che si possa superare il discorso freddamente apocalittico dell’ibridazione uomo-macchina anticipato ormai trent’anni fa dai Radiohead, e tornare a suonare da esseri umani, per altri esseri umani, nel momento in cui quel racconto postumano si è fatto realtà quantomeno nella retorica quotidiana (che noia). I tempi cambiano, i percorsi musicali evolvono, le visioni artistiche, quando sono ben piantate nell’epoca in cui si vive, sanno bene come orientarsi: è possibile essere pienamente soggetti musicali, per quanto confusi, incerti e non identificabili, e non oggetti. Un discorso che vale tanto per gli artisti che per il pubblico.

(Fonte foto: Medimex)

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4 commenti

  1. peccato che per bere e dissetarsi ci sia un organizzazione a dir poco improvvisata. code lunghissime po he casse e acqua da bere calda. Improvvisazione.

  2. complimenti x la recensione! rende l’idea dell’atmosfera sonora che sanno creare questi due magnifici extraterestri.

  3. Recensione ottima, mi ha incantato. Tranne l’ultima frase che forse andava riletta prima di essere pubblicata. O si dice anche così?

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Autore

marcomontanaro@minimaetmoralia.it

Marco Montanaro (1982) vive in Puglia, dove si occupa di scritture e comunicazione. La sua newsletter si chiama Sobrietà.

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