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di Giulia Sara Miori
Sono andata alla festa perché cercavo l’abiezione, e anche perché mi serviva del materiale vivo, nuovo, pulsante. Del materiale umano per la scrittura. Un po’ come quelli che si tengono in casa animali esotici tipo aracnidi e rettili (il pitone è un grande classico), e poi raccontano in giro che comprano dei topi vivi per nutrire le loro bestie affamate. Credo che sia una forma di esibizionismo, ma anche scrivere è una forma di esibizionismo, però ero un po’ stufa della mia immaginazione. Non che fosse sterile, tutt’altro. C’è sempre qualcosa che riaffiora dalla palude: una superficie aliena dalla texture glitterata, una donna con tre seni, un relitto ricoperto di alghe e muschio (poi si scopre che il relitto sono io); e tuttavia non mi bastava più. Immaginare, scrivere fiction, essere costrette a spiegare i simboli. Per questo sono andata alla festa. Che poi non era una festa vera e propria, ma più un ritrovo di debosciati, gente che non sa campare se non si sfascia un giorno sì e l’altro pure.
Ad ogni modo, stavo rientrando da un reading, l’anteprima romana del mio nuovo libro, tutto molto bello ma mancava qualcosa, un coup de théâtre, un aneddoto piccante da raccontare nei secoli dei secoli, amen. Insomma, torno all’appartamento gentilmente messo a disposizione dall’editore, provo a infilare la chiave nella serratura, non funziona, tento con un’altra. A mia discolpa devo dire che ero leggermente alterata: dopo la presentazione ero uscita con degli amici, avevo bevuto – non so – cinque o sei vodka tonic di fila e un paio di spritz durante l’evento, ma a parte la cosa delle chiavi non è che mi sentissi ubriaca: soltanto un po’ euforica, e soprattutto non mi andava che la serata terminasse così, senza un finale degno. I finali sono importanti, anzi, sono la cosa più importante. Odio quando i lettori si lamentano del finale, mi verrebbe da mandarli affanculo, scrivetevelo voi il romanzo, il racconto, il libro, quello che è, provate voi a concludere.
Comunque, sono lì che armeggio con le chiavi e si avvicina un vecchiaccio con una camicia hawaiana improponibile, roba da mercatino delle pulci thailandese, e in effetti sembrava proprio il genere di uomo che ogni sei mesi va a fare turismo sessuale in Thailandia, per così dire. Naturalmente capisco subito che non è italiano, ha l’aria timida e sbigottita, i capelli grigi pettinati all’indietro col gel, un paio di occhiali leggeri, scarpe rosse, jeans e quell’orrenda camicia. Non poteva che essere tedesco, e infatti conferma e si offre di cercare la chiave. Però a me a quel punto non fregava più un cazzo della chiave, nemmeno ci pensavo ad andare a dormire, ero troppo sveglia, troppo eccitata, volevo saperne di più su quel freak che mi si era manifestato a caso, lì davanti. Da dove sbucava? Dove andava così conciato? A una festa, mi fa. Una festa qui vicino, proprio dietro l’angolo, perché non vieni anche tu? Già, perché non vado anch’io? Benissimo, ho detto, però prima mi cambio. Il vecchio ha gli occhi che brillano, è visibilmente eccitato, non gli pare vero che la faccenda della festa abbia attecchito, e invece non si rende conto che non aspettavo altro, alle due di notte, che d’infilarmi in una situazione ambigua. Finalmente la porta dell’appartamento si apre, lui si sposta, io entro, rimane bloccato sulla soglia.
Vado in bagno, mi specchio, prendo un dischetto di cotone, lo imbevo di struccante, picchietto la zona del contorno occhi, cancello le sbavature di mascara, mi metto il correttore, ripasso l’eyeliner, mi sistemo i capelli, mi ripasso il rossetto sulle labbra. Sono una discreta fica, poco da fare. Nel frattempo il vecchio mi aspetta fuori. Ho un abito adatto all’occasione, anni Settanta, corto, leggero, una fantasia nei toni del verde, del rosa e del turchese, mi va di indossarlo, ma voglio sentire il parere del vecchio. Senti, gli dico alzando un po’ la voce, hai intenzione di stare lì o mi fai il favore di entrare? La porta si chiude, quello avanza a passi lenti verso di me, docile, smarrito, forse ha perfino bevuto troppo, non osa fiatare, il che mi indispone e mi diverte allo stesso tempo. Gli mostro il vestito appeso alla gruccia. «Che te ne pare?» Lui annuisce, si passa una mano sui capelli, quasi sicuramente ha un’erezione. Per tutta risposta mi spoglio, lascio che la gonna scivoli sul pavimento, mi sfilo la maglietta, indosso un reggiseno di pizzo e un perizoma, i collant neri trenta denari, lo fisso coi miei occhi da gatta, lui si volta dall’altra parte, è turbato, non sa che fare, uno scolaretto alle prime armi. «Beh» gli dico, «che fai lì impalato? Aiutami con la cerniera.» Gli volto le spalle, tiro su i capelli, lo sento avvicinarsi, le sue mani sono gelide, mi chiude la zip facendo attenzione a non sfiorarmi la schiena, quando ha finito lascio andare i capelli e lo guardo negli occhi, lui li abbassa subito, mi metto un paio di orecchini a cerchio con una pietra rossa, ai piedi un paio di scarpe tipo Mary Jane. Prendo la borsa, m’infilo la giacca di pelle, lo afferro sottobraccio, andiamo, gli dico, lui non parla, sento il calore del suo corpo accanto al mio.
Il posto è davvero dietro l’angolo. È un palazzo elegante, signorile, con l’ascensore di ferro battuto, la cabina di legno lucido e le scale di marmo a spirale. La festa è all’ultimo piano, il quinto. La porta è socchiusa, si sentono voci di donne che ridono, e altre più scure di uomini ubriachi. All’ingresso, diverse paia di scarpe. Capisco che il padrone di casa ha un disturbo ossessivo compulsivo. Mi secca di dovermi togliere le scarpe, non mi va per niente, protesto col vecchio, lui mi dice ma certo tesoro, non preoccuparti, ma un tizio alto un metro e novanta si oppone e mi fa presente che in casa sua le scarpe si tolgono, punto. Il tono è brusco, irritato, parla un inglese con un forte accento tedesco, non so cosa pensi di me, però non sembra entusiasta della mia presenza, io rimango scalza e allora si sforza di sorridere, è il mio compleanno, dice, e mi stringe la mano. Si chiama Helmut o Frank o Karl, non ricordo esattamente, gli faccio gli auguri mentre lui mi offre un calice di champagne, al tavolo siedono alcuni uomini sulla trentina e tre ragazze, qualcuno parla italiano, altri tedesco, altri ancora inglese, bevono e pippano cocaina sui telefoni, nessuno fa troppo caso a me, non fanno domande, altri discutono in piedi in salotto. Il vecchio ritrova la favella, usciamo in terrazza, dice, non capisco se è imbarazzato o cosa, sorseggio il mio champagne e lo seguo, la terrazza ha una vista magnifica, è piena di gente ma io noto subito lui, il polacco, e lui nota me, gli sguardi si incrociano, il suo è quello di un animale selvatico, percepisco il desiderio dietro la diffidenza, non è un pensiero lucido, non c’è niente di razionale, solo due occhi nel buio, due occhi che parlano la mia stessa lingua.
«Ciao» gli dico. «Si vede che ti annoi.»
Guarda prima me – una specie di radiografia che comincia dal viso e si sposta sulla scollatura e infine sulle gambe e sui piedi racchiusi nei collant neri – poi il vecchio alle mie spalle. Un’ombra di sospetto, forse di curiosità genuina, non so cosa gli attraversi la mente, posso intuirlo ma non ne ho la certezza, so solo che non sorride: decodifica, scannerizza, valuta, rimane in silenzio, mi scruta, una ballerina che danza dentro un carillon, un oggetto che si muove con grazia ingannevole, è possibile che si chieda se esisto davvero o se invece non sia sul punto di scomparire per sempre, però io non scompaio, resto lì e finisco il mio champagne.
«Cosa ti fa pensare che mi annoi?»
Finalmente ha parlato, si è convinto che non sono una bambola meccanica, però il tono è sarcastico, non proprio ostile ma cauto, una cautela difensiva che mi fa sorridere, e infatti: «Perché ridi?» gli chiedo, e lui s’incupisce come se ridessi di lui, del suo desiderio che preme dentro la carne.
«Non so, hai un bel naso.»
«Un bel naso? Mi prendi per il culo?»
«No, dico davvero.»
«Non vedi che è rotto?»
«Sì, per questo mi piace.»
Non ce la fa a non sorridere, anche se preferirebbe evitare. «Tu non sei tedesco» gli dico. Non è una domanda, è una constatazione.
«No, infatti» risponde mentre finisce la sigaretta. Fuma come gli uomini che vogliono mostrarsi dominanti, con la sigaretta tra il pollice e l’indice, ed è anche questo ad attrarmi.
«Sei polacco?» gli chiedo.
«Sì.»
Non mi domanda come faccio a saperlo, invece si guarda attorno, un predatore che marca il territorio, e soprattutto lancia un’occhiata alle mie spalle. Capisco che è il vecchio a inibirlo.
«Come ti chiami?» gli chiedo.
«Nick.»
«Io sono Giulia.»
Mi stringe la mano, è rigido, so che mi vuole ma nella sua mente ci sono altre priorità: monitorare il territorio, capire che rapporti intercorrono tra me e il vecchio, elaborare un piano d’azione che gli consenta di parlare con me senza compromettersi.
«Ti va di entrare?» gli domando. «Fa un po’ freddo.»
Non risponde: agisce. Si muove, mi sfiora casualmente la vita (o almeno, lui crede che sia un caso, io so che è un istinto), mi fa strada per entrare, il vecchio rimane fuori come un imbecille, sento il suo sguardo che ci insegue, non mi volto.
Restiamo un attimo in soggiorno, circondati da estranei. «Vuoi andare in camera?» mi chiede, e si affaccia in una stanza che però è piena di gente che fuma e sniffa cocaina. Non aspetta la risposta, esita un attimo, i suoi occhi hanno un’intensità che mi spiazza, «Senti» gli dico, «Perché non ce ne andiamo di qui?»
Di nuovo s’irrigidisce, mi fissa, cerca di capire se dico sul serio o no.
«Sto in un appartamento proprio qui dietro, saranno due minuti a piedi, parliamo un po’, beviamo qualcosa…»
Sorride, ma è un sorriso sarcastico, circospetto. Tira fuori il portafogli, lo apre, è pieno di banconote da cento euro. «Quanto prendi?»
Per un istante rimango interdetta, poi scoppio a ridere. Lui mi guarda serissimo.
«Ma no…» provo a dire, però non riesco a smettere di ridere, mi verso un altro bicchiere di champagne, mi lacrimano gli occhi. «Non sono una puttana, te lo giuro.»
«Ma chi vuoi prendere per il culo?»
«Cioè, mi fa anche piacere che lo pensi, però… in realtà sono una scrittrice.»
«In che senso, una scrittrice?»
«Sono a Roma per presentare il mio libro.»
Non sa più se prendermi sul serio, se ridere anche lui o se arrendersi all’assurdità della situazione. «E Bernhard, allora?»
«Chi è Bernhard?»
«Come, chi è? Sei venuta qui con lui, no?»
«Ah, il vecchio…» Di nuovo, mi viene da ridere. Istintivamente mi volto, non lo vedo, è probabile che sia rimasto in terrazza. «Metti via quel portafogli.»
Il polacco esegue. Ormai non sa più dove collocarmi né cosa pensare: lo vedo, lo capisco. Mi fa tenerezza, ma allo stesso tempo l’unica cosa che vorrei è che mi sbattesse contro il muro e mi scopasse.
«Vieni» mi fa, «andiamo in cucina.»
Lo seguo, attraversiamo il corridoio pieno di esseri umani sfatti, sento una leggerezza nuova, smetto i panni della scrittrice – so che non durerà e che prima o poi tutto dovrà essere tradotto in una concatenazione di frasi e immagini dotate di senso compiuto – e indosso quelli della donna, l’idea di essere stata scambiata per una prostituta mi fa sentire libera e vitale, l’idea che il mio corpo possa avere un prezzo, e che questo prezzo lo stabilisca io, mi provoca una scossa di potere, e il potere mi piace, mi piace sentirmi così, una predatrice, una che non si piega, una che punta un uomo e se lo prende senza chiedere il permesso.
«Davvero sei una scrittrice?» mi chiede quando siamo soli.
«Sì.»
«E allora cosa ci facevi con lui?»
Mi versa un altro bicchiere, poi prepara due strisce di coca. «Vuoi?»
«No, grazie.»
Mi guarda stupito.
«Non mi va.»
Forse solo in quel momento crede davvero che non sia una escort. Pippa, si tocca il naso, ha gli occhi nerissimi, la testa rasata, una torre tatuata sull’avambraccio destro. È alto, si piega per baciarmi. Sa esattamente cosa fare, e come.
«Ah, siete qui?»
La voce del vecchio. Ci stacchiamo, il polacco gli dice qualcosa in tedesco, l’altro abbassa la testa e se ne va con la faccia da cane bastonato.
«Cosa voleva?»
«Niente, tranquilla. È tutto a posto. E comunque non mi hai risposto: che ci facevi con lui?»
Non sono obbligata a giustificarmi, in realtà non gli devo niente, ma ho voglia di farlo. Mi va di rassicurarlo, di fargli sentire che sono lì per lui, anche se non l’avevo previsto. La sua presenza, i suoi baci, non voglio che smetta, voglio che mi senta, che senta il mio corpo, il mio desiderio, la mia intensità, non voglio nascondermi, non posso. C’è tempo per tornare a scrivere, per scomporre, per dare un ordine alla materia viva. Non ora, non adesso. Ora voglio stare con lui, col polacco tatuato, mi fa ridere, è un po’ grezzo – diglielo, diglielo che col vecchio non hai fatto niente, diglielo che non te lo sei scopato.
«Era anche lui nell’appartamento, occupa la stanza accanto alla mia. Stavo andando a dormire, l’ho incontrato in corridoio, mi ha chiesto se mi andava di accompagnarlo a una festa…»
«E poi?»
«E poi niente.»
Mi bacia, il suo corpo si rilassa, ogni residuo di ostilità si è dissolto. «Ascolta» gli dico, «Prendiamo qualcosa da bere e andiamo da me.»
Apre il frigo, prende una bottiglia di champagne, me la infila in borsa. Si mette il giubbotto di pelle. Una ragazza arriva, lui le dice una frase in tedesco, l’altra mi guarda per un attimo, alza gli occhi al cielo, se ne va. Capisco che è una sua amica. «Siamo qui in tanti» fa lui, «siamo nella stesso hotel.»
Una fitta leggera di gelosia, respiro, lascio che mi attraversi, torno padrona di me, lui ha retto l’ambiguità, posso farlo anch’io.
«Allora, andiamo?»
Esita un istante, abbassa la voce. «Scendi prima tu, io ti raggiungo tra cinque minuti. Non voglio che Bernhard ci veda andare via insieme.»
«Ma ci ha già visti.»
Mi bacia, mi accarezza i capelli.
«Come vuoi» gli dico.
Sono nell’atrio, mi metto le scarpe, il vecchio m’intercetta. «Tesoro, sei stanca?» Ha un tono querulo e implorante, pensa che la partita sia ancora aperta, che ci sia ancora posto per lui. Mi sforzo di sorridergli, mi giro, il polacco è alle mie spalle, capisce al volo. Si rivolge al vecchio, in inglese gli dice: «L’accompagno io.» L’altro annuisce un po’ spaventato, il polacco mi stringe la vita, ci infiliamo in ascensore, ridiamo, ci baciamo, siamo esaltati per il furto dello champagne, complici, dispiaciuti per la figuraccia di Bernhard, ma tutto quello che desideriamo è stare in un letto insieme, nudi, al caldo, nel tragitto parliamo di quanto facciano schifo i tedeschi, io gli racconto che ho vissuto quasi dieci anni in Olanda, tutti uguali, commenta lui, tedeschi, olandesi, teste di cazzo, rincoglioniti. Mi pesa sapere che anche questo momento diventerà materiale letterario, mi fa sentire una bugiarda, una puttana, forse ci aveva visto giusto, forse aveva capito, forse l’aveva sentito che dentro di me c’era qualcosa di corrotto, uomini come lui sono allenati alla menzogna, la annusano subito, e in qualche modo lui l’ha percepito che ero lì per prenderlo per il culo, ha colto la mia dissociazione, la finzione mascherata da verità, la manipolazione dietro le parole schiette. Ma sì, mi dico mentre infilo la chiave nella serratura – stavolta senza sbagliare – non era quello che volevi? Un finale degno, una storia da scrivere? Allora di che ti preoccupi? Perché ti senti una truffatrice?
Si toglie la maglietta, ammiro il suo corpo asciutto e atletico, le sue spalle forti, i tatuaggi, tutto in lui è virile, il modo in cui si muove, il timbro caldo e basso, in lui tutto è virile ma stranamente non mi fa paura, mi prende la sigaretta dalle labbra e fa un tiro, me la rende, apre la bottiglia, prendo due bicchieri dal bagno e glieli passo. Mi bacia, lo bacio, si sfila i jeans, ci stendiamo sul letto, mi spoglia, si sofferma un attimo a guardarmi.
«Toglitelo» mi dice.
«Cosa?»
«Il reggiseno.»
Ma come, penso, è di pizzo, è bellissimo, mi è costato un rene, e poi mi fa un seno stupendo, non si vede che è un po’ cadente, preferirei –
«Toglitelo.»
Me lo slaccio, non sembra far caso a nessuno dei difetti catastrofici che io noto fin troppo bene, o in ogni caso non gli importa, mi infila la mano dentro il perizoma, mi tolgo anche quello, gli tolgo i boxer, non ce l’ha completamente duro ma sembra non fregargliene nulla, forse in altre circostanze sarei rimasta perplessa, ma la sua sicurezza mi spiazza, «Voglio leccartela» mi dice, mi blocco per un attimo, «No» rispondo, «non ora, magari dopo».
«Perché?»
«Non so, non mi va, sono timida…» Sorrido, lo tocco, continuiamo a baciarci, a esplorare i nostri corpi, la sua erezione è incompleta, mi dico che forse ha pippato troppo, non posso pensare di non piacergli, mi ferirebbe troppo, eppure potrebbe anche essere, che cosa ne so io di quello che passa nella testa di un uomo? Non posso saperlo, non posso capirlo, posso solo sentire,e quello che sento è calore, vicinanza, verità, nessuna finzione, nessuna difesa, nessuna performance.
Noto alcune cicatrici sul suo avambraccio destro, sono uguali alle mie. «Guarda» gli dico, «abbiamo le stesse cicatrici.» Avvicino il braccio al suo, due binari paralleli, «ma queste te le sei fatta da sola.»
«Sì, ovvio. E tu?» Non risponde. «Ne ho una anche sulla testa, non mi ricordo dove, cercala, se vuoi.»
Si sdraia a pancia in giù, esamino il suo cranio rasato, lo tocco, sembra una visita medica, io ho il potere di curare le sue ferite, lui le mie, trovo la cicatrice, sarà lunga sei sette centimetri, «eccola» gli dico, la sfioro come si sfiora il muso di un gatto, lui non si oppone, lascia che le mie dita ridisegnino percorsi già scritti, in qualche modo mi è grato, forse non si è mai tolto la maschera e adesso può farlo, anch’io gli sono grata, depongo le armi, forse potrei perfino confessargli che gli uomini mi fanno paura, ma non ce n’è bisogno, lo sa già, come io so che le donne gli fanno paura.
«Come te la sei fatta?» gli chiedo.
«Una bottiglia in testa.»
Se si vedesse come lo vedo io, non si odierebbe. Se mi vedessi come mi vede lui, non mi odierei. Smettila di analizzare tutto, mi ripeto, cerca di vivere il presente, ma la scrittrice dentro di me non molla, la scrittrice mi è ostile, non sopporta i sentimentalismi, lo sai anche tu che stai scrivendo, mi dice, lo sai che lui è solo un personaggio, lo sai che lo chiamerai il polacco, è inutile che ti fingi vulnerabile, non lo sei, pensi che sia diverso ma non lo è, pensi che sia una situazione romantica ma non lo è, lui è solo uno dei tanti che ti scopi e una volta che ne avrai scritto non conterà più nulla, un altro insetto in un barattolo per la tua collezione, ti mancava qualche raccolto per la raccolta nuova ed eccolo qui, cerca di non farti travolgere – devo ricordarti com’è finita l’ultima volta che ti sei innamorata?
«Te la posso leccare, adesso?»
Una risata d’imbarazzo. «Ma perché?» protesto debolmente, «non mi va…»
«Ma sì, che ti va.» Distolgo lo sguardo, mi gratto il naso, «Mi andrebbe anche» dico, «però…»
«Sono timida» mi fa il verso.
«Ma è vero!»
«Dai, smettila.»
Si mette sopra di me, inizia a leccarmela. Chiudo gli occhi, non è come gli altri, sa quello che sta facendo, né troppo veloce né troppo lento, mi sento in colpa perché io non ho fatto praticamente niente a parte baciarlo e toccarlo, non sono nemmeno stata capace di farglielo diventare duro, non sono abituata a ricevere, solo a dare, è questa la misura del mio valore, il piacere maschile, quanto ce l’hanno duro, quanto impiegano a venire, dieci minuti, quindici, venti, mezz’ora, un’ora, tutto misurabile e quantificabile, e soprattutto visibile. Quello che mi passa per la mente e per il corpo è invece così impercettibile che nessuno se ne accorge, nessuno sa delle mie insicurezze, nessuno sa che fare l’amore il più delle volte mi annoia, che l’unica cosa a cui penso è dimostrare di essere capace, ma lui sì, il polacco sa tutto, per questo non smette, per questo mi dà dei piccoli morsi sulle cosce che mi fanno venire i brividi, intuisce quali sono le parti del mio corpo che gli uomini hanno trascurato e affonda il coltello, è un istintivo, parla poco e sente molto, non si limita a leccarmela ma fa cose che non si possono dire, non per pudore, piuttosto per un senso di protezione, quando vengo non è un orgasmo ma una resa, forse la prima della mia vita e anche l’ultima, mi abbraccia e mi bacia, gli dico che mi piace fare l’amore con lui.
«Tecnicamente non abbiamo scopato» mi risponde, e noto una sfumatura di vergogna, la prima, ma non ho nessun bisogno di rassicurarlo, non m’interessa farlo perché non mi fa compassione, è forte, è un uomo, la mia percezione di lui è quella di un dominante che non ha bisogno di esercitare alcun dominio, per questo mi attrae, per questo una volta tanto sono riuscita a mettere da parte l’orgoglio.
«Tecnicamente non vuol dire niente» gli dico.
Ho il suo corpo addosso al mio. Sono le sette del mattino. Alle undici ho un treno da prendere.
«Voglio venire a trovarti a Milano.» dice.
«Shh. Dormiamo.»
«Voglio finire quello che abbiamo cominciato.»
«Non c’è niente da finire.»
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente
