
E così, Oppenheimer ingrandisce e si rimpicciolisce, nella percezione, man mano che passano i mesi.
Mentre infatti il mondo galoppa furibondo verso uno scenario simile a quello in cui si dipana la vicenda del film – dagli anni Trenta agli anni Quaranta di conflitto mondiale all’inizio della Guerra Fredda negli anni Cinquanta – risalta con sempre maggiore evidenza la sparizione al centro esatto del film di Christopher Nolan.
Come vi sarete accorti, infatti, guardando il film al cinema lo scorso anno o in seguito sulle varie piattaforme, manca del tutto il punto di vista dei giapponesi – delle vittime, dei polverizzati, dei bruciati vivi e degli sfigurati. Certo, c’è la scena in cui Oppie celebrando il ‘grande successo’ sente prima dei respiri inquietanti al posto degli applausi e delle grida di giubilo, e poi vede davanti a sé il lampo della bomba accecare gli astanti e poi il vuoto.
E c’è pure la scena (a dire il vero abbastanza tragicomica) del povero J. Robert che, ricevuto finalmente da un tremendo Gary Oldman nei panni di Harry Truman, gli dice: “le mie mani sono sporche di sangue…”, e quello per tutta risposta gli porge il fazzoletto preso dal taschino, per poi sibilare ai suoi assistenti: “non fatemi più vedere quel piagnone”. Però, insomma, è un po’ pochino per uno dei più grandi traumi della storia.
La bomba atomica dunque rimane solo e soltanto il meraviglioso spettacolo di luci e colori che questi gruppo di scienziati ammira nel bel mezzo del nulla, prima dell’alba, durante il test-prova generale di Trinity (16 luglio 1945, ore 5:29:45 UTC-7, deserto della Jornada del Muerto, New Mexico). Lo spettacolo insuperabile della tecnica e della tecnologia, il risultato ottenuto da un gruppo coeso di menti brillanti guidate da un leader geniale e da un generale a suo modo visionario nella ruvida praticità che lo contraddistingue.
E basta? Stupisce in fondo che proprio il mondo anglosassone (del cinema e della cultura in generale), oggi così attento ai diritti, alla sensibilità e alla suscettibilità di ogni gruppo, di ogni comunità, di ogni identità collettiva, non si sia posto il problema che, messa così, tutta la narrazione potesse risultare un tantino offensiva per i giapponesi. Anche perché, nel peana generale e negli osanna al capolavorochecapolavorononè, pochissimi hanno anche solo notato – e fatto notare – questo dettaglio.
Alla luce di quanto sta accadendo, degli appetiti che vediamo sollevarsi attorno a noi, in patria e all’estero, per la “guerra” e nella fattispecie per la “bomba atomica” (tattica oppure no), sarebbe forse stato utile che il regista più popolare e lodato al mondo avesse dedicato cinque, tre, due minuti delle tre ore a disposizione a mostrare gli effetti del 6 e del 9 agosto 1945. Magari, a far vedere quella famosa Ombra stampata sulla scalinata dell’edificio, un’immagine in bianco e nero che da 79 anni sta lì a ricordarci che cosa rimane di un essere umano esposto al bellissimo fungo; un’ombra scura, appunto, un’impressione. Una specie di terribile fotografia.
Si dirà: è una scelta poetica. Benissimo. Ma, scusate, è altrettanto una scelta politica: non mostrare affatto il punto di vista degli abitanti di Hiroshima e di Nagasaki assume il suo preciso valore e significato, soprattutto oggi.
Varrà allora la pena di riguardarsi almeno Gen di Hiroshima (Hadashi no Gen, Barefoot Gen, 1983), film di animazione diretto da Mori Masaki e tratto dal manga di Keiji Nakazawa, che con l’eleganza grafica giapponese – erede di una tradizione millenaria – restituisce con onestà e crudo realismo proprio quegli “effetti” così educatamente e sobriamente taciuti in Oppenheimer.
Quello cioè che accade a un corpo umano vivo un attimo dopo lo scoppio. Così, giusto un utile promemoria.
Christian Caliandro (1979) è storico, critico d’arte contemporanea e curatore. Insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia. Tra i suoi libri: La trasformazione delle immagini. L’inizio del postmoderno tra arte, cinema e teoria, 1977-‘83 (Mondadori Electa 2008), Italia Reloaded. Ripartire con la cultura (Il Mulino 2011, con Pier Luigi Sacco), Italia Revolution. Rinascere con la cultura (Bompiani 2013), Italia Evolution. Crescere con la cultura (Meltemi 2018), Tracce di identità dell’arte italiana. Opere dal patrimonio del Gruppo Unipol (Silvana Editoriale 2018), manuale Storie dell’arte contemporanea (Mondadori Education 2021) e L’arte rotta (Castelvecchi 2022). Dirige la collana “Fuoriuscita” per l’editore Castelvecchi. Dal 2004 al 2011 ha diretto le rubriche inteoria e essai su “Exibart”; dal 2011 cura la rubrica inpratica su “Artribune”. Collabora inoltre con “minimaetmoralia” e “che-Fare”, e dal 2017 dirige insieme a Angela D’Urso La Chimera–Scuola d’arte contemporanea per bambini presso TEX, ExFadda, San Vito dei Normanni (BR). Ha curato numerose mostre personali e collettive in spazi pubblici e privati, tra cui: The Idea of Realism/L’idea del Realismo, American Academy in Rome, Roma (2013); Concrete Ghost/Fantasma Concreto, American Academy in Rome, Roma (2014); Amalassunta Collaudi, Museo Licini, Ascoli Piceno (2014); Sironi-Burri: un dialogo italiano (1940-1958), CUBO-Centro Unipol Bologna (2015); Cristiano De Gaetano: Speed of Life, Fondazione Museo Pino Pascali, Polignano a Mare (2017); Now Here Is Nowhere. Six Artists from the American Academy in Rome, Istituto Italiano di Cultura, New York (2017); le quattro edizioni de La notte di quiete, ArtVerona, Verona, quartiere Veronetta (2016-2019); le sei edizioni del progetto Opera Viva Barriera di Milano, Flashback, Torino (2016-2021); il progetto Artista di Quartiere, Torino (2020); Z/000 GENERATION. Artisti pugliesi 2000>2020, AncheCinema, Bari (2020); Fragile, galleria Monitor, Roma (2021); Cantieri Montelupo, programma di residenze artistiche, Museo della Ceramica, Montelupo Fiorentino (2021).