Stemmi_polizia_francese

 

Pubblichiamo un estratto dal prologo de La forza dell’ordine. Antropologia della polizia nelle periferie urbane di Didier Fassin (Edizioni La Linea, 2013), a cura di Lorenzo Alunni.

di Didier Fassin

31 dicembre 2006, ore 19: in un grande agglomerato della periferia parigina, la banlieue, tre adolescenti vestiti in modo elegante aspettano sotto la pioggia l’autobus a una fermata accanto alle case popolari di una cité HLM. Hanno in programma di passare la notte di Capodanno con degli amici nella cittadina vicina. I due più grandi hanno sedici anni. Sono amici di lunga data. Il terzo ha tredici anni. È il cugino di uno dei due. I tre adolescenti si trovavano lì al riparo da qualche istante, quando si accorgono di un gruppo di cinque giovani che, correndo, saltano in un’auto e se ne vanno precipitosamente. In quel momento compare una pattuglia delle CRS (le Compagnies Républicaines de Sécurité, corpo di polizia francese addetto a mansioni di antisommossa) che circola nel quartiere. I poliziotti non si sono accorti di quei movimenti frenetici. Passando, squadrano gli adolescenti alla fermata dell’autobus e continuano la ronda a bassa velocità. Qualche minuto più tardi, arriva sul posto di gran carriera una volante della polizia, che si ferma bruscamente davanti ai tre ragazzi ancora in attesa dell’autobus che li deve portare alla festa. Scendono tre agenti in uniforme, salutano con freddezza gli adolescenti, chiedono i documenti, perquisiscono i ragazzi senza tanti riguardi e domandano loro che cosa stanno facendo lì. Apparentemente soddisfatti delle risposte ottenute, risalgono in macchina per comunicare via radio con il commissariato.

In quel momento gli adolescenti sono ancora convinti che si tratti solo di un banale controllo dei documenti. I due cugini sono di origine mauritana, il loro amico è nato in Ecuador, tutti e tre abitano in periferia: sanno per esperienza che, per loro, trovarsi fuori casa significa essere frequentemente esposti a simili controlli, che si ripetono con la stessa umiliante sequenza di azioni: mani poggiate sulla portiera del veicolo della polizia, tasche svuotate del loro con- tenuto sul cofano e corpo palpato con le gambe divaricate. È un rito quasi sempre compiuto in pubblico, sotto gli occhi dei vicini, che più tardi commenteranno la scena. Di questi controlli ne hanno già subiti molti, a ore diverse del giorno e in diversi luoghi, magari mentre stavano aspettando un amico alla stazione o passeggiavano per strada. Pur percependo la natura vessatoria di queste situazioni, non provano nessuna particolare inquietudine. Non hanno niente da nascondere; e, del resto, non hanno già dimostrato la loro buona volontà lasciandosi perquisire senza aprire bocca? Quel che non sanno è che i poliziotti hanno appena chiamato i rinforzi.

Quasi immediatamente arriva sul posto un’altra auto – un’auto civetta, stavolta, trattandosi della Brigade Anti-Criminalité (la BAC, Brigata Anticrimine) –, seguita da due pattuglie delle CRS, fra cui quella che era in servizio nel quartiere. (…) Cinque poliziotti, di cui due in borghese, circondano gli adolescenti. Vicino a loro staziona un agente delle CRS con un Flash-Ball, un’arma con proiettili di gomma, mentre altri rimangono in macchina. L’atmosfera si è inasprita. I tre ragazzi sono perquisiti di nuovo, vengono loro rivolte le stesse domande: che cosa stanno facendo a quella fermata? (…) «Li portiamo via» ordina secco uno dei poliziotti.

Rabbrividendo sotto la pioggia, gli adolescenti non oppongono resistenza. Ma vengono ammanettati lo stesso. (…) Per l’intero corso di questa penosa prova i tre ragazzi sono rimasti in silenzio, limitandosi a rispondere di non aver fatto niente, di trovarsi lì solamente per prendere l’autobus. Intorno a loro, nella notte, si sono raggruppati gli abitanti del quartiere, che si mantengono però a una distanza ragionevole. Alcuni genitori del vicinato si stupiscono di vedere gli amici dei figli con le manette ai polsi, come dei criminali. Di fronte all’impressionante dispiegamento di forza pubblica e al ricorso inatteso alla costrizione fisica, si persuadono che debba trattarsi di una faccenda seria.

Durante il tragitto in macchina, il ragazzo più giovane viene separato dagli altri due. Nel veicolo dove si trovano i due più grandi, dopo un momento di silenzio, un poliziotto li interroga: «Sapete perché siete qui?». «No, signore.» «Non fate finta, lo sappiamo che siete voi.» «Ma noi non abbiamo fatto niente, signore.» (…) L’arrivo delle macchine al commissariato è scenografico, con i lampeggianti accesi e le sirene spiegate in strade praticamente deserte.

Alla stazione di polizia riprende l’interrogatorio, questa volta individualmente e con modi più rudi. I ragazzi vengono insultati, viene urlato loro di tirare fuori le mani dalle tasche. Un poliziotto che si trova a passare mentre vengono registrati non trattiene un’allusione sprezzante al colore della loro pelle. (…) Si cerca di far capitolare uno dei più grandi, preso da parte: «Tuo cugino ha appena confessato. Farai meglio a riconoscere quello che avete combinato». «Non è possibile, signore, non c’è niente da confessare, noi non abbiamo fatto niente.» Nei minuti fra i due interrogatori a cui sono sottoposti, i tre adolescenti, spogliati di portafogli, orologi e oggetti personali, vengono condotti in una piccola sala delimitata da enormi pannelli in plexiglas, chiamata “l’acquario”. È lì che vengono sorvegliati i sospetti in attesa che sia presa una decisione nei loro confronti, che può essere di rilasciarli o di trattenerli per tutta la notte. (…)

Dopo poco, gli adolescenti vengono portati in un corridoio e piazzati di fronte a un vetro a specchio. Dall’altra parte viene fatta accomodare una persona: la vittima del reato. Deve identificare i responsabili, pur ammettendo che li ha visti solo in lontananza, di notte, sotto la pioggia, mentre fuggivano dopo il crimine. Senza capire bene quel che sta accadendo, i tre ragazzi sono obbligati a girarsi di profilo o di fronte a ogni ordine urlato da un poliziotto. Più tardi verranno informati che i due cugini, descritti dalla vittima come “due neri vestiti di scuro”, sono stati riconosciuti. Dettaglio da notare, e che si rivelerà decisivo, il terzo giovane porta una giacca con cappuccio, resa facilmente riconoscibile dalle righe bianche e blu, mentre la dichiarazione dell’uomo che ha fatto denuncia parla di un indumento simile, ma di colore grigio a tinta unita. A queste condizioni, la colpevolezza degli adolescenti diventa difficile da dimostrare, quantomeno finché non si confuta la versione secondo cui erano tutti e tre insieme. Il ragazzo che non corrisponde al ritratto delineato dalla vittima è allora condotto in un’altra sala e interrogato di nuovo da quattro poliziotti. (…) Pur temendo le conseguenze della sua testardaggine a proclamare la verità, il ragazzo non cede alla pressione. Alla fine viene riportato nell’“acquario”, dove ritrova gli altri. Non sanno ancora di che cosa sono accusati, ma sono ormai convinti che verranno trattenuti tutta la notte.

Tuttavia, proprio come la testimonianza della persona che ha sporto denuncia, i dati informatici (…) non apportano alcun nuovo elemento a carico dei tre ragazzi, che non risultano noti ai servizi di polizia. Il comandante della stazione decide allora di chiamare i genitori dei due più grandi, per comunicare loro che i figli si trovano al commissariato e che devono venirli a prendere. Non viene fornita alcuna spiegazione sulle ragioni dell’arresto. Quando i due padri si presentano preoccupati alla stazione di polizia, il comandante li riceve informandoli che un’automobile è stata oggetto di un atto vandalico (uno sportello rigato) da parte di un gruppo di adolescenti, che il fatto è successo vicino a dove i loro figli stavano aspettando l’autobus e che la descrizione fisica e l’abbigliamento dei colpevoli parevano collimare con quelli dei ragazzi.  «Sono stati fortunati che quello lì non è vestito di grigio», dice (…). Né lui né i suoi colleghi spenderanno una parola di scuse per l’errore e la spiacevole situazione.

È quasi mezzanotte. Gli adolescenti hanno appena finito di trascorrere più di quattro ore con la polizia sotto la minaccia di essere trattenuti in stato di fermo. Il loro Capodanno è finito. Ma, più che la delusione per la festa sfumata, avvertono l’ingiustizia di cui sono appena stati vittime e l’umiliazione per l’accaduto: l’arresto di fronte ai genitori dei loro amici e ai conoscenti del quartiere, le manette, le intimidazioni, le prese in giro, gli insulti, le frasi razziste; tutti soprusi che sanno di avere subito solo perché vivono lì e perché sono ciò che sono. (…).

La vicenda che ho appena raccontato somiglia a molte altre alle quali ho assistito nel corso dell’indagine da me condotta, fra il maggio del 2005 e il giugno del 2007, sulla polizia nella periferia parigina. (…) L’episodio riportato presenta in maniera esemplare molti degli ingredienti comuni agli interventi della polizia nei quartieri popolari: inefficacia nella repressione della delinquenza compensata dall’identificazione di autori improbabili; sproporzione dei mezzi dispiegati rispetto a una situazione assai poco allarmante; ricorso a pratiche vessatorie e a metodi d’intimidazione.

Una scena ordinaria di vita di periferia, insomma, che tutto sommato finisce bene, con la liberazione dei tre ragazzi, che se la cavano senza accuse. Siamo nel normale ordine delle cose. Per la polizia, in fin dei conti, si tratta semplicemente di una verifica d’identità e di un interrogatorio fatto secondo le regole, entrambe le cose giustificate da un ragionevole sospetto di partecipazione a un reato. Per gli adolescenti, infine, non è che un’interazione in più con le forze dell’ordine, certo più traumatizzante delle precedenti, ma che immaginano non sarà l’ultima. Quanto a me, non sarebbe nient’altro che un’osservazione in più nel mio taccuino, se solo uno di quei tre ragazzi non fosse stato mio figlio.

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3 commenti

  1. Bravi, ottima scelta, quella di Fassin. Attendo con ansia di leggere il libro. In effetti, da noi non è ancora conosciuto, ma Didier Fassin è uno dei più importanti e interessanti antropologi contemporanei, esperto di antropologia medica e politica, da lui sempre sviluppate al meglio con approccio critico e militante.

  2. Anche se ho un certa età, mai come di questi tempi,sono terrorizzato di di venire interrogato dalle forze dell’ordine
    o da un giudice…

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Autore

lorenzoalunni@minimaetmoralia.it

Lorenzo Alunni è nato a Città di Castello nel 1983. Ha un dottorato in antropologia e attualmente vive a Parigi, dov’è Fernand Braudel Fellow all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales. È co-organizzatore del festival di libri CaLibro, a Città di Castello.

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