di Stefano Felici
Il nevrotico e l’intellettuale si somigliano. Ma l’intellettuale produce,
il nevrotico no. Il rapporto fra nevrosi sterile e nevrosi creatrice
è ancora misterioso, anche negli studi degli psicologi.
O forse è misterioso per me, perché è il mio mistero.
Ottiero Ottieri – La linea gotica
I’ve kept the movie rolling
but the story’s getting old now
Soundgarden – Outshined
Febbraio del duemilaventitré – troppi anni dopo.
L’autarchia totale è uno sciocco miraggio. Purtroppo. E forse anche quella parziale lo è. Rubo, copio e riassemblo concetti altrui da una vita; come chiunque. Nascosto e solitario in un’intercapedine: come un topo. Senza forme altre da me, e questo mi duole più oggi che non da ragazzino, non avrei la mia, di forma; e questo pensiero fondante, e le cose scritte che da qui vi partono. Ma non voglio fare a meno di una stella polare tanto perfetta, pure se il cielo mi è ostruito dai tramezzi, labirinto di mattoni e stucco. Anche se… Solipsismo sarebbe la parola più adatta: il solipsista, diceva Wittgenstein, indicando colui che sbaglia; e il mio piccolo mondo si riduce ogni giorno che passa, in un accartocciarsi puerile di cameretta. Altro che stelle.
Si vada ai punti numerati. Col bene e la compassione che si concede a una ricerca filosofica e letteraria in divenire.*
Uno. Vi è una malinconia di futuri mai raggiunti se non con l’aiuto d’una triste fantasia. Futuri fumosi, coltri opache di nebbia purple & yellow. Lampi d’azzurro. Inchiodare il delitto della noia con gli strumenti più economici a nostra disposizione. Questa è la base ontologica che fa della vaporwave uno stazionamento estetico e non una moda passeggera. Parlo di una maliconia che non dà scampo nemmeno a un quindicenne di questi anni Venti.
Una riga di comando, cassa e rullante masticati, un modem 56k, una tazza di caffè idrosolubile e un’intera notte per noi spalancata — ma entro la cornice bianca di un monitor a tubo catodico. Quindici pollici; non di più. L’immagine abbia un’aura analogica, sul pelo d’acqua del vetro curvo.
Intendo dire che i vecchi fasci d’elettroni proiettati linea per linea dal cannone ottico creano oggetti reali quanto un vecchio telefono grigio in bachelite. Gli schermi d’oggi vengono impressi soltanto da istruzioni di immagini: praticamente da fantasmi. Non c’è più alcun oggetto. Ciò che danza sulla superficie di un black mirror, lo sapete tutti, non esiste davvero.
Due. Proust: il Nume. L’orpello del ricordo. Il naufragare dolce nei dettagli più inconcludenti. Per indugiare e ingrandire, con uno zoom digitale 80x, quindi non lasciarsi scappare quel piccolo e periferico dei pixel che nessun altro vede.
Da bambino la lettura m’annoiava, e tutt’ora non è fra le mie attività preferite. Non voglio esser contaminato da ricordi e affetti d’altri. I grandi scrittori, poi, sono più che ingombranti. Dopo un gran libro letto, si parla e si ragiona come il gran libro. (Quelli piccoli, di scrittori, addirittura, sono deleteri e perfino malvagi.) L’unica volta che provai a leggere per esser meno solo mi sentii così stupido che pensai d’esser sbagliato fin nelle fondamenta dell’animo; e il mio orgoglio fanciullesco ne rimase ferito per mesi. Mio padre scomparve miseramente davanti alle descrizioni dei grand’uomini dell’età del Romanzo. Perché dunque eleggere qualcuno – Proust, una piovra mentale – a nume tutelare? Così già viene sconfessato il bastarsi da sé. E si sconfessi: delle pietre per fondare la propria Chiesa son necessarie. Ma la risposta è svagata: per rubarne l’allure. Il secondo delitto, dopo la noia, è la mancanza di stile.
Tre. Struggersi per la ricchezza perduta non è abbastanza. Bisogna anche noi ricorrere a delle storie. Scrivere una trama forte, ramificata, complicare in giusto groviglio; e poi svolgere. La vaporwave è story driven. È un tentativo di senso umano, e ribadisco: umano, ancorché turbonichilista. Speriamo che da qui a poco prima della nostra morte sia tutto finito. Immaginate godersi un anno di pace pura, in questa vita…
Scrivere una storia, poi, non vuol dire farla collimare in ogni suo punto. Questa grana si lasci a chi studia scrittura. Basta l’esaltazione per lo spalancarsi di infinite possibilità: che infinite rimangano.
Quattro.

Cinque. Freud disse, magari non proprio così, ma a me è così che s’è depositato, che la prima e più fosca tragedia di un uomo, quella vera, è la morte del Padre. Ogni padre è un fantasma dei nostri futuri fallimenti. Amleto, poster da tenere in camera per noi autarchici vaporwave, è il figlio che gioca al computer — are ya winning, son? Papà, io non so proprio giocare. Sto ascoltando musica downtempo campionata da brani giapponesi anni Ottanta.
Mio padre pagò a rate il mio primo computer; il mio, sottolineo e raddoppio, e non il suo. Due milioni. Lui non s’azzardò mai ad avvicinarsi. Una volta che mise mano sopra il mouse ne rimase impaurito e disgustato.
Sei. Tornando da scuola, un tardo pomeriggio di seconda metà anni Novanta, le immagini del gol di Del Piero al River Plate nella finale di Coppa Intercontinentale mi segnarono l’immaginario: corsi subito al computer a scrivere un pezzo su WordPad. Cominciai così: «Del Piero ha segnato il gol più importante del Mondo». Non avevo ancora internet, ma quel pensiero avrei voluto arrivasse fino in Giappone. Era vera l’importanza capitale di quel gol, ed è vera tutt’oggi. Vera dev’essere fino alla fine.
Più di dieci anni fa, invece, di questi tempi, presi ad arrovellarmi su come potessi diventare uno scrittore. Come già detto altrove, non ho mai avuto intenzione di lavorare. In più uscivo da una delusione d’amore affilata, glaciale. Una ragazza bellissima, più alta di me, casco di platino e occhi dal taglio spiovente: azzurri. Non si può che scrivere per tornare a una vita degna dopo un tale lutto relazionale. Ci si può lasciar morire, certamente. Eppure, per me, per noi fratelli, vennero fuori da sole un paio di frasi ben tornite, di fattura non mia, forse sentite e rimasticate da vecchie interviste ascoltate nei programmi notturni della Rai; e insomma per puro intuito ne seguii la scia.
L’amore e il calcio mi ha spesso sottratto peso specifico. L’amore per le donne e l’illusione religiosa per una squadra, intendo. L’amore per l’arte, più tardi, in maniera opposta, m’ha irrobustito lo scheletro, ispessito la muscolatura. Un amore più conveniente. Ora quella bellissima ragazza vive agli antipodi della mia perenne stanza. Da me è fuggita come un insetto tenuto per sadismo entro un bicchiere rovesciato. La Coppa Intercontinentale non esiste più. C’è un’annacquato mondiale per club: i gol sono meno importanti di una volta. Come l’amore fra due persone. Incagliamoci nel passato, per sopravvivere; e non per finta.
Sette. Rimuginare su più romanzi e racconti o saggi contemporaneamente, per crearsi ostacoli. Il fine è tessere un’immensa tela notturna da disfare a ogni sole che sorge. Contro il giorno. Non deve interessare alcun punto d’arrivo. Nessun approdo. Si è votati alla vaporwave come a un dio morente. Star da soli, ripiegati su sé stessi, vigili, all’erta, tesi al bisbiglìo dei ricordi. Al rogo ogni vanità. Custodiremo con gelosia e fino alla morte, entro l’infracranico, le nostre più belle frasi. (Una persona saggia disse: i libri si pensano; non si scrivono.)
Otto. A questo punto, credo sia abbastanza chiaro: nessuno di noi deve aver mai lavorato. Consideratevi figli unici: ma dei Prìncipi senza castello. Possidenti di un Personal Computer, di un tower biancoperla, dove custodiamo le spoglie di Windows 95, i nostri esercizi in .txt; lo scrissi anche altrove: Windows 95 ha informato le nostre sinapsi, i pattern cognitivi, il modo di mettersi in mostra con un bel discorso. Si ragioni per finestre e capoversi. Un’altra persona saggia, anch’essa votata alla causa, si è tatuata la clessidra sul proprio avambraccio. Abbiamo bisogno di una tribù. Non ci si deve per forza isolare, per quanto ogni narrazione esaustiva e potente muove dal dolore del distacco.
Nove. Ogni madre è poco più che un rimpianto.
Dieci. L’Italia è uno strano anfratto: un organismo esploso, le cui viscere naturali sono esposte lungo le sue gloriose linee autostradali; ho scoperto viaggiando che l’Italia è composta di soli spazi liminali. Gli unici veri luoghi, alla fin fine, sono le nostre stanze, avulse dalla Nazione. Nelle nostre stanze noi concepiamo il mondo. Qui vi riposiamo, pianificando una vita di sotterfugi. E allora, che il sotterfugio diventi arte, la camera una tana, la tana uno shuttle sparato all’indietro nell’Universo, ci si imbarchi col solo scopo di sabotare i motori, per finir alla deriva, senza ossigeno, morire estroflessi e cianotici, persi in assenza di gravità, poiché in uno spazio dove vi alberga il Nulla, la possibilità del Tutto credo sia la nostra unica e dovuta frontiera.
*
Finiti i dieci punti, in alcune parti ridondanti e incoerenti, sarei tentato di raccontare la mia storia, la quale però può esser ricavata facilmente dal manifesto stesso. Resistere, a queste tentazioni. Lo ripeto. Dal 1988 un buon consiglio: don’t believe the hype.
Una cosa buona della vaporwave è che appena stanca, nel momento in cui se ne viene a noia, può subito esser messa da parte.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Tra i più acuti lavori degli ultimi dieci anni, due lustri di banalità, di chiasso. E di volgarità. Quando la mediocrità diventa classe dirigente i disastri morali, culturali, economici, linguistici, estetici sono sempre dietro l’angolo. O no?
Gino Rago
Gino,
è vero. Tant’è che negli ultimi dieci anni, per disinteresse generale, io ho soltanto mangiato e dormito. Scritto, ogni tanto. Molto poco.