
di Letizia Carbutto
Quando, l’11 luglio 1942, Irène Némirovsky invia all’editore André Sabatier la sua ultima lettera prima dell’arresto, sa che le pagine a cui sta furiosamente lavorando saranno pubblicate postume. Si è rifugiata con il marito e le due figlie a Issy-l’Evêque, un villaggio della Francia centrale; due giorni dopo sarà portata via dai gendarmi, il 19 agosto morirà di tifo ad Auschwitz. Ciò che non può immaginare è che la sorte di quello che, ne è convinta, verrà ricordato come il suo capolavoro, sarà tanto rocambolesca quanto lo è stata la sua vita: dalla nascita in una famiglia benestante e cosmopolita di Kiev alla fuga dal regime sovietico a Parigi, dalla conversione al cattolicesimo all’obbligo di indossare la stella gialla, dal grande successo di pubblico e critica negli anni ‘30 al divieto di pubblicare in seguito alle leggi razziali, fino all’inspiegabile oblio del dopoguerra. Dovrà passare mezzo secolo dalla sua morte perché la figlia maggiore, Denise, decida di aprire la valigia che il padre le aveva affidato prima di essere a sua volta arrestato, e che per anni aveva portato con sé nel corso della sua fuga. È grazie al suo infaticabile lavoro di trascrizione delle oltre trecento pagine fitte di inchiostro azzurro che, nel 2004, il mondo scopre Suite francese, i primi due tomi di un romanzo dalla complessa architettura rimasto incompiuto, che Némirovsky immaginava come una grande composizione musicale in cinque movimenti: Tempête en juin, Dolce, Captivité, Batailles e La Paix.
Ed ecco ora, a quasi vent’anni di distanza, il secondo episodio di questa incredibile avventura editoriale. Dagli archivi a cui Denise ha affidato gli scritti della madre riemerge una seconda stesura del primo volume del romanzo, Tempesta in giugno, dattiloscritta dal marito di Némirovsky e da lei corretta a mano, con quattro capitoli in più e diversi rimaneggiamenti rispetto alla prima versione. Facendo seguito alla pubblicazione in Francia, Teresa Lussone e Olivier Philipponnat ne curano ora per Adelphi l’edizione italiana, arricchita dagli appunti che Némirovsky aveva preso per Dolce e Captivité e da un apparato critico che ricostruisce le vicissitudini dell’opera.
Difficile astenersi dal gusto aneddotico, è vero. Eppure, il successo di Suite francese non deve nulla a peripezie editoriali e colpi di scena, così come non ne avrà bisogno Tempesta in giugno: chi non l’ha mai letto, vi scoprirà il grande affresco della società francese alle soglie dell’occupazione nazista che l’ha reso, come Némirovsky aveva previsto, il suo capolavoro. Chi lo conosce, vi rintraccerà i segni di una svolta fondamentale nella sua scrittura: un ancor più spiccato gusto dell’ironia e del grottesco, che non esita a sfiorare il ridicolo, un’esasperazione dei contrasti che governano una società, tristemente manichea, in cui si è prede o predatori, eroi o vigliacchi. Lo stile si asciuga, la maestosa eco tolstojana si attenua e il narratore, alla maniera di Flaubert, si fa da parte per lasciare la Storia in mano a personaggi sempre più forti e caratterizzati, i cui destini individuali si intrecciano nella comune esperienza della fuga dai tedeschi.
Comune, certo, come solo le tragedie sanno esserlo, ma non per questo sufficiente ad accomunare. Ancor più che nella prima stesura, complice la decisione di Némirovsky di riservare ad alcuni dei personaggi una sorte diversa, le distanze si acuiscono, gli scrupoli religiosi e filantropici cadono come orpelli svelando il più crudo individualismo e, salvo rare eccezioni, il campionario di tipi umani che già popolavano il romanzo dà vita a una “fiera delle viltà” ancor più amaramente tragicomica.
Mentre le bombe cadono su Parigi e i poveri si accalcano in rifugi pervasi dall’odore stagnante di muffa, Charlotte Péricand, quintessenza della tartufesca rispettabilità borghese, è turbata dalla presenza in salotto dei domestici, che impudenti infrangono l’usuale decoro per ascoltare alla radio il bollettino serale: non è tanto l’imminente naufragio a preoccuparla, quanto il momento in cui “tutte le classi sociali si ritrovano mescolate sul ponte”. Mentre la folla si rassegna a lasciare la capitale a piedi, con i pochi beni che riesce a trasportare, l’egocentrico e narcisista scrittore Gabriel Corte è esasperato dalla volgarità della massa di pidocchiosi che lo circonda, colpevole di infangare l’immagine tragica, ma grandiosa, della disfatta. Il banchiere Corbin non esita ad abbandonare a Parigi i dipendenti per far spazio alle valigie dell’amante, il collezionista di porcellane Langelet non si fa scrupoli quando si tratta di derubare due giovani della poca benzina rimasta loro. Tra intellettuali, presunti benefattori, ballerine e famiglie altolocate, ben più numerosi sono coloro che sopravvivono alla fame, ai bombardamenti e all’esercito rispetto a chi si salva dallo sguardo spietato di Némirovsky. Una coppia di impiegati senza risorse, Maurice e Jeanne Michaud, costretti a una vana fuga a piedi, padre Philippe Péricand, la cui levatura morale non fa che marcare, per contrasto, la meschinità dei familiari, qualche proletario e disgraziato senza volto, confuso tra la massa in cammino. Il mondo vacilla, e con lui ogni parvenza di generosità e modestia: Tempesta in giugno è un’epopea senza pathos, un dramma senza eroi, da cui emergono soltanto ipocrisia, grettezza e vanità.
Non stupisce che Lussone, nel rivedere la traduzione già esistente, abbia deciso di modificare il titolo da Temporale di giugno in Tempesta in giugno. Quello che Némirovsky mette in scena non è un temporale, come quelli estivi, tanto inattesi quanto fulminei, ma una tempesta il cui arrivo, nonostante l’ostinata speranza dei parigini (“mica bombarderanno proprio qui”, si ripetono), è annunciato e inevitabile. Una tempesta travolgente, distruttiva, capace di far emergere quanto di più contraddittorio e spregevole sa fare l’uomo.
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