
Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica. Vi segnaliamo che in questi giorni è in corso in molte librerie l’iniziativa Arlt Attack!, promossa da Del Vecchio Editore e Edizioni Sur. (Fonte immagine)
Dormiva spesso vestito, così era pronto a scendere in strada quando lo catturavano improvvise visioni notturne. Scriveva come viveva e viveva come scriveva e soprattutto scriveva quel che viveva. Perché – disse – il dolore non s’inventa. Il dolore deve provarlo anche il lettore. Dunque, si deve scriverlo così com’è, senza letteratura. Senza parlare di letteratura. Si deve scriverlo con rabbia e istinto. Per colpire con la violenza di un gancio alla mandibola. Cercando la verità a tutti i costi. È per questo che nessuno è felice, quando legge. Perché ci si aspetta sempre di trovare la verità, ma la verità è relativa, è una verità così piccola, così piccola…
Roberto Arlt la cercò senza mai fermarsi, questa verità minuscola, sferrò ganci alle mandibole dei lettori e scrisse con furia, conquistandosi critiche e disprezzo fino all’immenso riconoscimento postumo. “Il miglior romanziere argentino” (così César Aira), padre tedesco e madre triestina, non ha mai trovato troppo spazio in Italia. Ma la sua riscoperta viaggia veloce dallo scorso anno, quando il suo capolavoro I sette pazzi è stato ripubblicato (da Einaudi e SUR), e il suo ultimo romanzo, L’amore stregone, è stato tradotto per la prima volta (da Intermezzi). Arrivano adesso in libreria due decisive parti della sua opera finora da noi quasi completamente neglette. Innanzitutto i racconti, con una bella raccolta curata e tradotta da Raul Schenardi (Scrittore fallito, SUR, pp. 233, euro 15) che si affianca a un racconto lungo e importante (Un viaggio terribile, Arcoiris, pp. 97, euro 10, anch’esso curato e tradotto da Schenardi). Eppoi, gli schizzi, i resoconti, gli affreschi, i bozzetti giornalistici, quell’altro enorme capolavoro che sono le Acqueforti di Buenos Aires (Del Vecchio, pp. 303, euro 15, trad. M. Magliani e A. Prunetti). Ritroviamo i bassifondi popolati di criminali, falliti, impostori e sognatori che già conoscevamo bene. Ritroviamo l’idea dell’evento straordinario che può cambiare la vita, presente ovunque in Arlt e decisamente biografica. Ritroviamo amore, umorismo e invenzioni in bilico fra l’assurdo e il grottesco. Ma scopriamo anche altri mondi. Con i racconti, sconfiniamo nel fantastico e nell’esotico (conseguenza soprattutto del viaggio in Spagna e Africa del Nord nel 1935), e con le Acqueforti viaggiamo per la Buenos Aires perduta di ottant’anni fa finendo per viaggiare soprattutto nella testa dell’autore. È qui che siamo costretti a spiccare un salto nel buio.
Bianco o nero senza sfumature di grigio, la tecnica dell’acquaforte in mano a Arlt è fuoco. I pezzi di costume, filosofia e riflessione varia pubblicati fra il 1928 e il 1933 ogni martedì su El Mundo ruppero qualsiasi schema. Le vendite, di martedì, s’impennarono e il direttore decise di disorientare i lettori pubblicandole in un giorno qualsiasi della settimana. Ognuno aspettava se stesso, ogni strada di Buenos Aires aspettava di essere raccontata, eppure ancora oggi, molto lontano da Buenos Aires, noi stessi voliamo tra queste pagine.
C’è il riparatore di bambole frequentato da genitori che “hanno amareggiato l’infanzia ai bambini”; c’è “l’uomo con la canottiera fuori dai pantaloni”, marito di donna che stira, dedito a far la guardia alla soglia come il “Socrate del palazzo”; ci sono i gelosi (“si può stabilire questa regola: meno donne ha avuto un individuo e più è geloso”); ci sono gli strabici innamorati, gente sfortunata perché “l’amore non è compatibile con lo strabismo”; eppoi ci sono le parole dell’argot porteño, il lunfardo, quel castigliano declinato nelle lingue degli immigrati. Resoconti e indagini geniali in cui l’italiano fa la parte del padrone: “furbo” (“originaria delle belle colline del Lazio”), “fiacca” (portata dai genovesi a La Boca), “squenun”, ossia il poltrone maggiorenne. Più andiamo avanti e più scopriamo che ciò che cattura l’attenzione di Arlt è l’ozio, la pigra contemplazione, la libertà dal lavoro. Come se lui, lavoratore adrenalinico, fosse davvero come gli uomini che ama osservare: “Quello scioperato di Arlt!” dice a un tratto di se stesso. E allora affondando definitivamente nel labirinto oscuro dell’autore scopriamo che in lui moltissimo è menzogna.
Diede quattro giorni di nascita ai biografi (1, 2, 7 e 14 aprile), sostenne di essere stato espulso dalle scuole elementari mentre finì con cura e buona condotta il percorso primario, dichiarò di essere stato buttato fuori dalla Scuola Militare che in effetti lui stesso abbandonò ripudiando il rigore della disciplina. Si costruì il mito del barbaro, dell’autodidatta incolto. E per anni gli si è creduto, senza mai risolvere il famoso dilemma in base a cui qualsiasi maestrino avrebbe potuto correggere grammatica e sintassi dei suoi celebri strafalcioni, eppure nessuno sarebbe stato capace di costruirle, quelle folli frasi. È vero che come i suoi eroi cercava la svolta risolutrice in invenzioni assurde (per tutta la vita inseguì la ricchezza lavorando a un brevetto per calze di nylon femminili rinforzate su tacco e punta) ed è vero anche che come i suoi eroi godeva nella truffa (l’uomo che si dilettava dell’inutilità dei libri era un lettore onnivoro e la figlia ha raccontato della gelosia con cui curava la sua intoccabile biblioteca). Ma soprattutto perché l’inganno è necessario a raggiungere la verità. Almeno in letteratura.
L’unica monografia italiana dedicata a Roberto Arlt (Variazioni sul tema della lettura di Loris Tassi) torna costantemente sulla questione. Scrivere, falsificare, leggere e trasformare la realtà per restituire un briciolo di verità, almeno una piccola, piccolissima verità. Lo hanno definito “macchina letteraria”. Viaggiava, osservava, leggeva e scriveva. Scriveva, scriveva, scriveva in continuazione e non aveva finito di scrivere un’opera che già ne pensava e ne annunciava un’altra. Scrivere e scrivere perché altrimenti si muore. Correva in un’atroce lotta contro il tempo. Se non si seppe mai il giorno, si conosceva con certezza l’anno di nascita – il 1900 – e si sarebbe conosciuto molto presto anche l’anno della morte, il 1942. Ha lasciato moltissimi scritti da fraintendere. Stiamo cominciando a muoverci nel suo magma. Forse potremo scoprire infine che tutto quel che sognava, come racconta una delle più toccanti acqueforti, era qualcosa di semplice e pericoloso assieme: “essere sinceri con tutti (soprattutto con se stessi) anche se questo potrebbe nuocerci”.
Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L’abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L’eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L’Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it
2 commenti