Parlando dei miti sulle origini del mondo, lo studioso Mircea Eliade ha detto che il mito è narrazione di una storia sacra, «un avvenimento che ha avuto luogo nel tempo primordiale, il tempo favoloso delle “origini”». La realtà, così come il pensiero dello storico delle religioni rumeno, è molto più complessa di quanto viene riassunto e semplificato in questa frase: in ogni caso queste narrazioni hanno un valore assoluto di verità e significato religioso, oltre che essere un tentativo di scoprire i segreti dell’universo, della morte e della vita, lanciate quindi verso un’esigenza archetipica di comprensione del mondo e di se stessi. I miti hanno poi subito nel corso della storia trascrizioni differenti che spesso hanno portato un tale carico di nuovi dettagli ed elementi tanto da generare anche versioni molto diverse dalla prima. La somiglianza però è dettata da domande costanti che caratterizzano la natura umana e la sua interrogazione perpetua: ne sono esempio, tra i molti, le narrazioni cosmogoniche sulla creazione, o quelle sul diluvio, presenti in molti dei popoli che hanno abitato terra.

Proprio attorno al racconto del diluvio si muove il nuovo libro di Roberto Calasso La Tavoletta dei Destini, l’undicesimo della sua grande opera unica, il successore del Libro di tutti i libri dedicato all’Antico testamento e pubblicato l’anno scorso. La Tavoletta dei Destini si basa sul dialogo tra Utnapishtim, superstite appunto al diluvio universale, e Sinbad il Marinaio, giunto a Dilmun dove vive Utnapishtim a seguito di una tempesta «diversa da tutte quelle che aveva già attraversato». E così, ricoverato in una tenda in cui una lama di luce interrompe il buio del sonno e lo porta pian piano a riabituare gli occhi a vedere altro che non sia l’oscurità, Sinbad si trova appunto al fianco di Utnapishtim, «il più vecchio dei vecchi e il più vivo dei vivi», che gli inizierà a narrare una storia che, come «un antico uso vuole», comincia dagli dèi. Utnapishtim infatti inizia a raccontare a Sinbad come sono stati creati gli uomini, «sostituti» creati dagli dèi, nati dal sacrificio di uno di loro, dall’argilla mescolata al sangue e da una successiva purificazione nell’acqua. Sinbad, confuso dal racconto di Utnapishtim, ascolta poi il racconto del diluvio, punizione divina per le molestie degli uomini («Posso calare la mia mano contro quelli che ho creato?»), e di come la divinità Ea abbia avvertito per tempo Utnapishtim del pericolo, in modo da dargli il tempo di costruire un battello e salvarsi, rifugiandosi appunto sull’isola di Dilmun, dove vivrà in eterno.

Ma la funzione di Sinbad nel libro di Calasso non è solo quella di passivo ascoltatore perché il naufrago inizia a visitare Dilmun e incontrare sulla sua strada eventi eccezionali e inspiegabili con i classici meccanismi del pensiero. Uno dei momenti centrali del racconto è quello in cui Utnapishtim fa conoscere al marinaio Sinbad, che ha visto molti mari, «il mare che ancora ti manca: l’Apsu, acqua dolce senza confine che sta sotto ogni punto del mondo e lo avvolge», un oceano diverso da quelli che ha conosciuto, il luogo in cui erano stati immersi i me, i poteri, e la Tavoletta dei Destini: senza di questi «nessuno poteva dirsi sovrano». La Tavoletta dei Destini, che «concentrava in un minimo spazio orizzontale l’asse che attraversava il cielo», è allora un piccolo oggetto che secondo alcuni non si trova in nessuna parte del mondo, ma che ha la straordinaria potenza, attraverso dei segni incisi sull’argilla, di arginare il caos, ciò che è casuale, frenando così il terrore dell’ignoto: senza di questa gli dèi «non dominavano l’ordine che li precedeva e li sovrastava».

La Tavoletta dei Destini è un libro che pare assestarsi tra i territori di una narrazione che ha a che fare molto con il romanzesco, ruotando appunto attorno al dialogo tra Utnapishtim e Sinbad. Ma anche la scelta di utilizzare un dispositivo romanzesco, quello del racconto a un altro personaggio della propria vita e delle proprie storie, porta a identificare il meccanismo narrativo non come un semplice artificio, ma come il disvelamento chiaro e pragmatico di una fiducia incrollabile nella parola umana e nella funzione della trasmissione delle storie, forse l’unico modo per andare oltre la finitezza dell’esistenza. È quello che dice Utnapishtim a Sinbad: «Talvolta avevo la sensazione di parlare da solo. Ma ora so che quelle storie, almeno per frantumi, e sempre con larghi squarci tra l’una e l’altra, abitano anche in te. Sono come me, sfuggite alla morte».

Ma come tutta l’opera di Calasso manifesta, il testo si muove sempre in maniera peculiare al confine tra i generi e la consapevolezza di trovarsi davanti a un testo inclassificabile non è quindi un atto di trascuratezza o di pigrizia, quanto piuttosto individuare l’esistenza di un genere altro, fortemente legato ed esemplificato nell’opera di Calasso, come testimonia in questo libro l’intrecciarsi tra il dialogo e l’analisi continua di uno dei testi più antichi al mondo, quello appartenente al mito sumero. La scelta di questo materiale limitato, certamente di più rispetto a quello utilizzato per altri suoi libri, sembra evidenziare come Calasso abbia scelto di provare a trovare il centro delle cose indagando l’origine del tutto in un caso specifico e particolare.

Ed ecco così raccontata la nascita di Babilonia (gli Anunnaki «volevano un luogo dove poter riposare la notte, quando scendevano sulla terra», «“Fate Babilonia!”» gli dice così Marduk: cominciarono così a delinearsi il profilo della città con il suo «palazzo del piacere degli dèi del cielo, casa che emana splendore, casa dall’alta cime, casa che crea tutti gli dèi, casa che opera tutto e ama la verità») o le storie di Gilgamesh, il protagonista del poema omonimo in dodici tavole, per due terzi dio e per un terzo uomo, che nel corso del poema cercherà proprio di sottrarre se stesso e l’umanità dal buco nero della morte, non riuscendoci ma acquisendo una grandissima saggezza. Utnapishtim racconta il suo incontro con Gilgamesh e il modo in cui gli spiega che «le sue avventure non conducevano a niente» sembra essere un accorato suggerimento a non perdere mai l’idea di finitezza che caratterizza ogni uomo, «tutti destinati alla morte, anche Gilgamesh» ricorda Utnapishtim.

«Da noi, per dire attenzione si diceva orecchio» dice a un certo punto Utnapishtim al suo interlocutore, sottolineando come questi uomini antichi fossero abituati «prima che a vedere a udire», a utilizzare zelo e meticolosità nel rapporto con gli oggetti del mondo. Nel racconto poi Utnapishtim racconta cosa sono i destini: «La necessità non significa. Il destino significa. I destini sono un ordine che significa e si sovrappone alla necessità, punto per punto, passo per passo». Attenzione nel leggere la realtà e consapevolezza della forma e della funzione del destino: questo quello che ci lascia la Tavoletta dei Destini prima di tornare alle nostre occupazioni, come Utnapishtim e Sinbad al momento del saluto («So che stai per partire. È quello che hai fatto sempre. Anch’io continuerò a fare quello che ho fatto sempre: rimanere vivo»), ma con l’esperienza di una preziosa conversazione in più.

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2 commenti

  1. Splendida e fedele recensione. Sto leggendo proprio in questi giorni, il saggio di Calasso. Concordo sulle suggestioni che la sua scrittura suscita: la scintilla della Vita come prolungamento del Divino; il passaggio da materia inanimata, inorganica a materia altra, trasformata dal “soffio di Vita”. È un testo denso, ricco, che dietro al racconto di un incontro, fra un marinaio, viaggiatore naufrago, e un isolano (isolato!) privilegiato,
    in filigrana racconta, altre mille storie.
    Andrea.

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Autore

matteomoca@minimaetmoralia.it

Matteo Moca è dottore di ricerca in italianistica e insegnante. Scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio, Domani, L'indice dei libri del mese, Blow Up e il blog di Kobo. Ha pubblicato le monografie "Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett",  "Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi" e "Un'esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico"

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