
Questo pezzo è uscito sul Venerdì.
Sperduta nel Kansas, Butcher’s Crossing nel 1870 è una manciata di baracche di legno tagliata in due da una strada sterrata. Maniscalco, barbiere, emporio, hotel, saloon e bordello costituiscono l’ossatura di questo villaggio, assieme all’uomo che sembra rappresentarne il futuro: J.D. McDonald, ricco commerciante in pelli di bisonte.
È proprio di McDonald che è in cerca William Andrews, ventenne studente dell’est, quando un mattino di primavera scende dalla diligenza che lo ha accompagnato nell’ultima tappa del suo lungo viaggio da Boston. Ha in tasca una lettera del padre, una specie di raccomandazione. Ma non cerca lavoro. Non scommette sul successo nel nuovo mondo. Ha lasciato Harvard per inseguire ben altro: qualcosa che ha a che fare con se stesso e con la sfida della natura.
Forse ha letto Ralph Waldo Emerson e questa “natura selvaggia che andava cercando” è “una forma di libertà e bellezza, di speranza e vigore alla base di tutte le cose più intime della sua vita”. Fatto sta che ha bisogno di qualcuno disposto a iniziarlo, qualcuno che lo accompagni, un esperto del Paese e della sua immensità. McDonald non ha dubbi e offre a Andrews il nome del miglior cacciatore di bisonti, Miller, un tipo ombroso e complicato, divorato dal sogno di ritornare in una valle sperduta sulle montagne del Colorado dove ha visto scorrazzare anni prima mandrie sterminate.
Inizia così questo bellissimo romanzo sospeso tra Melville e Cormac McCarthy che prende il nome del villaggio cui Andrews e Miller, dopo una lunghissima caccia, dovranno fare ritorno, per accorgersi che il vero ritorno, come insegna Odisseo, è sempre impossibile. Scrittore, poeta, studioso, John Williams pubblicò Butcher’s Crossing (Fazi, trad. S. Tummolini, pp. 369, euro 17,50) nel 1960, cinque anni prima di Stoner (anch’esso tradotto da Fazi lo scorso anno con grande successo) e dodici prima dell’acclamato Augustus (Castelvecchi) con cui vinse il National Book Award.
Difficile capire il motivo per cui, fra le tonnellate di spazzatura in carta che sommergono le nostre librerie, questo libro sia rimasto nascosto, non tradotto per più di mezzo secolo. Williams ci immerge completamente nel suo mondo. Elaborando a modo suo l’arte della descrizione più meticolosa – come preparare i proiettili per la caccia, come guidare un carro, come uccidere i bisonti, come scuoiarli –, ci spinge a sondare i nostri limiti di fronte alla grandezza della natura. Finiremo per scoprire, assieme a Andrews, qualcosa di indicibile e misterioso che ci appartiene, qualcosa che è legato alla materia più oscura di cui siamo costituiti e che è capace di trasfigurarci, mostrandoci gli abissi di follia e nobiltà del nostro essere animali.
Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L’abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L’eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L’Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it
Attention! Nella foto che avete postato non è ritratto John Williams ma SEAMUS HEANEY!
Ci scusiamo per la svista e sostituiamo la foto. Grazie della segnalazione. 🙂
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