
[Pubblichiamo, su gentile concessione dell’editore, il testo di Vanni Santoni per il libro Dove si scrive, come si scrive che esce oggi per Rizzoli, a cura di Carlotta Sanzogni, con foto di Pietro Baroni]

– Scrivere al bar: basta dirlo, basta evocare la possibilità di farlo, senza neanche arrivare a spiegare che, sì, scrivi al bar, per far fiorire discorsi infiniti sul rapporto tra gli scrittori e l’alcol, o tra gli scrittori e il caffè: intere mitologie, tra le quali c’è posto anche per il tè, al quale Ernst Jünger riconosceva una superiorità ontologica rispetto al caffè, assegnandolo alla categoria dei phantastica, ovvero in compagnia degli psichedelici, una scelta farmacologicamente inconsistente – qua si potrebbe aprire l’ulteriore filone del rapporto tra gli scrittori e gli psichedelici, ma difficilmente Huxley, Michaux, Morante o Nin li assumevano al bar (adesso qualcuno evocherà Burgess e il Korova Milkbar, e lo deluderemo spiegandogli che la mescalina nel latte+ è un’invenzione del doppiaggio italiano del film, dato che il Moloko Vellocet è in realtà alle anfetamine, come è del resto logico per una bevanda che deve alimentare l’ultraviolenza) – ma spiegabile nella natura a un tempo più tenue e più profonda della stimolazione da tè, in effetti adatta al lavoro di scrittura, tant’è che quando, al pomeriggio, a volte, colpevolmente, forse addirittura senilmente, scelgo la biblioteca sul bar, ho cura di portarmi una borraccia piena di tè – avviso per chi scambiasse tutto questo per una guida operativa: mai bere il tè dopo le 17:00 o l’effetto non sarà dissimile dal Moloko Vellocet e costringerà l’autore a scrivere tutta la notte, il che può essere anche un bene, a patto che il recupero non prenda più tempo di quello guadagnato, ed eccoci già condotti, chissà forse dalla stimolazione teinica che articola i pensieri come ghirigori senza mai smettere di spingerli avanti, alla questione in realtà centrale, il tempo. Sì, perché è ben facile immaginare che uno scrittore o una scrittrice scelga di scrivere al bar per altri motivi: perché caffeinomane, perché alcolista, per staccare rispetto a cosa c’è a casa propria, fidanzati, coinquilini, figli, consorti, genitori, telefonate, accolli, o ancora per mettersi in mostra, per dimostrare al mondo (e quindi a sé) di star scrivendo, di essere una scrittrice o uno scrittore, oppure, non sia mai, per rimorchiare, avvalendosi di quel residuo d’aura che il libro comunque mantiene, e se lo scrittore non sarà mai più – se mai lo fu – nello stesso rango di appetibilità erotica del musico o dell’attore o dell’artista, star lì da solo a bere con un quadernetto davanti varrà quantomeno da garanzia di esser di fronte a un soggetto sufficientemente disturbato, e si sa che esiste una parte della popolazione per la quale i disturbati sono ineludibilmente attraenti; più complicato è il caso di chi usa il computer, dato che un tizio da solo al bar con un computer difficilmente darà l’impressione di essere Rimbaud scappato da Charleville, sembrando piuttosto un esaurito che si porta il lavoro dall’ufficio, o un malato di mente che non riesce a staccarsi da Internet (tipologia questa di malati di mente che esercita invece un’attrattiva erotica bassa), e in effetti il fatto che nella maggior parte dei casi lo scrittore o la scrittrice utilizzi un computer è testimonianza della sua buona fede rispetto ai sospetti di cui supra, e anzi per la scrittrice l’uso del laptop finisce per essere un gesto difensivo minimo, dato che quando scrive in un bar i disturbatori sono dieci volte quelli dello scrittore, e per lo più non nobili spasimanti attratti dall’aurale barbaglio delle lettere, ma sfigati rompicoglioni di merda che se vedono una donna da sola che per di più osa farsi i fatti suoi si sentono in dovere di infastidirla, come a dire Oh ti abbiamo vista, cosa pensi di fare, ma anche al di là di ciò, tanto la scrittrice quanto lo scrittore prima o poi finiranno per lavorare direttamente su laptop, perché fa risparmiare tempo, e finiranno quindi a portarsi il laptop anche al bar e bona l’è, perché in fondo la questione è sempre una, sempre lei, il tempo, il tempo, il tempo, e anche se lo scrittore sceglierà di scrivere al bar, sarà in fondo per ragioni di tempo, perché (questa parte, sì, volendo è una guida operativa) quando si compie il passo per molti versi tragico ma anche mai rimpianto da nessuno di dedicarsi seriamente alla scrittura, si scoprirà che non si è scelto di farne solo un mestiere ma di farla diventare la propria vita, e non tanto per un grandioso afflato romantico, quanto perché, prosaicamente, scrivere bene, o anche solo provare a scrivere bene, o anche solo sperare di mettere insieme delle frasi che non nascano inutili e già dimenticate, o anche solo sperare di dare un umile, minuscolo apporto alla foresta delle lettere, magari destinato a non esser mai notato ma tale da contribuire a far sì che altrove, in quella foresta, sbocci un’orchidea, o anche solo non fare schifo al cazzo scrivendo banalità immonde, tutto questo richiede un impegno totalizzante, le ore di lettura devono moltiplicarsi, le ore di scrittura pure, la letteratura deve prendersi tutto lo spazio o non saresti serio (certo, esistono scrittori professionisti che non sono seri, ma non ci devono interessare, il loro nome è già polvere… come? anche il nostro? senza dubbio, ma dopo: ci aggrappiamo a quel dopo, no?), resta solo il tempo di leggere, scrivere e guadagnare il denaro necessario a campare nel caso che la scrittura non basti, e ogni passatempo e interesse che non innervi in qualche modo il lavoro di scrittura deve sparire, anche la cosiddetta vita privata deve essere sacrificata, è tutto un enorme sacrificio rituale, e non tanto agli dei della letteratura quanto a quelli del tempo, perché la storia della letteratura qualcosa di chiaro ce lo racconta, e quel qualcosa è che se i suoi dei ti baciano (ma in bocca eh, come Rimbaud, non un bacetto sul capo), potresti anche fare a meno del tempo, ma se non ti baciano, potrai comunque sedere, dopo morto, allo stesso tavolo nel Valhalla di coloro che il bacio l’hanno avuto, se ti sei impegnato abbastanza, e questo “abbastanza” è semplicemente tutto il tuo tempo finché non rendi l’anima gorgogliando, e allora siccome di tempo per uscire non ce ne sarà più, avrai cura di andare a scrivere al bar, così da aver l’impressione di esistere ancora tra gli uomini – sensazione utile per affrontare gli abissi di non-senso in cui ci si ritrova ogni volta, tra l’ingenua gaiezza che ci dà lo spuntare di un’immaginetta da cui intuiamo potrebbe prender forma un libro, e la spossatezza post-partuale, il dubbio di non aver fatto abbastanza e la necessità, già, di cercare un’idea successiva, onde tentar di emendare il pasticcio che si è fatto con l’ultima, che arrivano con la fine della revisione –, e anche un po’ per forzarsi a usarlo, questo benedetto tempo: sei lì, ti sei messo al tuo tavolino preferito, hai ordinato la tua birra o il tuo caffè o il tuo tè o il tuo assenzio, hai aperto il laptop con tutto ciò che comporta, ti sei ricordato pure di caricarlo, e adesso che fai, non scrivi?
– Aspe’, ma una volta non mi avevi detto che ti piacciono i bar perché…
– …da bambino volevo andarci per i videogiochi ma non mi era permesso? È vero.
– Ma scusa, da quando hai potuto uscire da solo, non so, dai dodici anni finché non te ne sei andato dal paese, non hai passato tipo ogni singolo pomeriggio al bar a giocare ai videogiochi, a biliardo, a biliardino, a briscola/ventuno, a Magic, a teresina e a Texas hold’em clandestino?
– Sì.
– E non t’è bastato?
– No.


Vanni Santoni (1978), dopo l’esordio con Personaggi precari ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008, Laterza 2019), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), la saga di Terra ignota (Mondadori 2013-2017), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017, dozzina Premio Strega), I fratelli Michelangelo (Mondadori 2019), La verità su tutto (Mondadori 2022, Premio Viareggio selezione della giuria), Dilaga ovunque (Laterza 2023, Premio selezione Campiello). È fondatore del progetto SIC (In territorio nemico, minimum fax 2013); per minimum fax ha pubblicato anche Emma & Cleo (in L’età della febbre, 2015) e il saggio La scrittura non si insegna (2020). Scrive sul Corriere della Sera.
Il suo ultimo romanzo è Il detective sonnambulo (Mondadori 2025).