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Non è l’azione artistica del poeta a rendere stupefacente il quotidiano, ma è l’esistenza ad apparire ai suoi occhi come leggenda manifestandosi nelle sembianze di un sogno, sosteneva Sandro Penna quando ne Il caldo, il freddo delle sale d’aspetto (Stranezze, 1976), scriveva che “Il mondo mi pareva un chiaro sogno/ la vita d’ogni giorno una leggenda”.
Un sogno nitido che in mutate sembianze prende forma tra le pagine

di una delle più originali voci poetiche della contemporaneità, Raffaella D’Elia, che con Ritmi di veglia (exorma, 2019, prefazione di Emanuele Trevi) sceglie di non servirsi della realtà come antitesi per la costruzione dell’immaginario, ma di osservarla per rielaborarne i contorni a partire da una esperienza sensibile.

Usa la prosa per dare forma ai meccanismi di decostruzione dell’apparenza propri della poesia e, attraverso le voci che popolano le sue pagine, narra la capacità di vivere estraniandosi dalla percezione ordinaria delle cose. Si addentra nella descrizione della sospensione per osservare il presente attraverso le sue forme sovrasensibili, a partire dal rilievo assegnato all’immaginario per chi, come Ida, è intenta a proiettarsi in duri allenamenti di danza, che però non può ballare.

Abita una solitudine costellata da piccoli quotidiani esercizi di sopravvivenza che le restituiscono la sua inadeguatezza e la sua stonatura ogni volta che è costretta a uscire dal suo rassicurante isolamento e prova a imbastire conversazioni in farmacia o al mercato, imitando le donne che osserva. Sembra arrivare da un posto remoto quando sveste i panni di danzatrice e si cala nella vita pratica. La sua esistenza si nutre di silenzio, di una quiete apparente, legata a quella condizione inaccessibile agli altri, propria di chi erige un baluardo da cui fatica a uscire. “Nevica disagio, e lei sotto, a non saperlo evitare”.

Ciò che D’Elia consegna al lettore esula da qualsiasi definizione formale, sfiora il diaristico e assume le sembianze di un poema in prosa in cui le descrizioni nitide degli oggetti del quotidiano assumono una valenza molteplice, racchiudono il presente e al contempo permettono a chi li osserva di esularsi da esso. Una prosa sviluppata attorno alla descrizione dei percorsi tortuosi e sconosciuti di chi nel provare un’improvvisa consapevolezza della vita si confronta di continuo con lo straniamento che ne deriva.
Descrive fulminei stupori provocati delle immagini del quotidiano che la investono, il cortocircuito generato dall’attrito con la vita concreta, quella che appare come un dovere, una incombenza da sbrigare e che può assumere le sembianze di una distrazione dall’angustia dell’esistenza. “I divertimenti indotti, le file nei centri commerciali, le file: l’umanità nelle sue mestizie, furbizie delinquenziali, l’indifferenza, la troppa invadenza, l’opacità”.

Nei dettagli del quotidiano risiede la materia originaria della riflessione sull’individuo, sul mistero della condizione umana, sulla difficoltà di vivere in equilibrio, sul vuoto di giorni senza senso. Le direzioni prese dai fallimenti, le coincidenze del destino e la relazione individuale col dolore permettono a D’Elia di disegnare una mappa dello spaesamento.

Le descrizioni nitide di particolari all’apparenza minimi favoriscono la riflessione sulla materia e sui suoi confini imperscrutabili che permea una narrazione dalla forte caratterizzazione visiva. “La città si raggiunge che la mente è impreparata, arriva all’improvviso, la città, un dettaglio, un angolo dalla porta dell’autobus che rivela: già qui”.

La scrittura si fa strumento per descrivere le mutazioni interiori e del corpo, con un sotteso al dramma del vivere, reso nel parallelo con l’esperienza del dolore e il peso delle conseguenze, paragonate ad alberi di fichi “portatrici di cambiamenti e crescite vicine e irregolari.”

Un’indagine sulla relazione tra la dimensione corporale e quella del pensiero che trova nell’espressione della danza il modo di onorare “la fine e l’inizio di ogni cosa”. In quella percezione del corpo legata alla fatica fisica, all’attenzione per la tecnica, risiede la ricerca della noncuranza: “Il corpo sordo, muto, che parla, il corpo da governare, dimenticare, come l’esatta cura e noncuranza di sé, l’insieme del bianco e del nero, il buio; la luce, la danza.”

La riflessione sull’identità, sulla sua dispersione, sugli effetti del sapere e sulle tecniche di resistenza all’oblio sono alcuni degli approdi di una narrazione che alterna la prima persona alla seconda e alla terza, passa dallo sguardo di una danzatrice a quello di uno scrittore, e si sofferma sulle differenti percezioni dello stato vitale.

Un apice che per la danzatrice è raggiunto quando la luce cala e si mescola con l’aria, nell’apparente assenza di alterazione. Per lo scrittore arriva invece quando si riapre per lui il “doppiofondo del mondo, quel luogo in cui sostavano e prendevano radice i suoi sconforti.”

Sono figure opache, che appaiono indefinite al lettore perché incarnano l’essere umano nel tempo storico presente. Sole e isolate, vivono la morte e i desideri come uniche forme di trascendenza e sono rese nelle loro azioni, nella perenne mescolanza di piani tra il reale e l’immaginifico. I loro corpi paiono quasi agire senza volontà, indotti al movimento.

In quella apparente stasi, la scrittura si manifesta come forma di concretezza che risponde a una inquietudine antica, ai tormenti della giovinezza. È una compulsione ritenuta capace di strappare “l’infanzia all’infanzia, era quotidianità e mistero, liturgia, materiale di scarto” e di marcare una direzione all’esistenza, illuminandola sino a farla ardere.

La tensione di questo elogio dell’assenza è affidata al racconto dell’attesa, alla provvisorietà e all’incertezza vissuta aspettando che le cose accadano per poi viverne lo straniamento. “Dopo aver atteso una vita che la vita arrivasse, e dopo la sua sopravvenuta, il sentimento prevalente era che si stesse procedendo in ritardo, ed era vero, ed era falso”.

L’irrisolto rivela il peso di vincoli invisibili, e il filtro del sogno e dell’invenzione letteraria consegna uno strumento ulteriore per instillare nel lettore nuove visioni sul reale. Sono i frammenti di immagini, di volti, eventi e ricordi a cadenzare un percorso interiore in cui la centralità consegnata alla parola annuncia il suo forte radicamento nella realtà, anche nel lambire i confini dell’immaginazione.

Un’indagine sull’oblio imbastita nella perenne ricerca di una forma di gioia nel silenzio e nell’assenza, con una scrittura che oscilla perennemente tra l’atemporale e l’onirico, il reale e l’etereo, per condurre il lettore tra i labirinti di un’infanzia remota e il disadattamento del presente. L’intreccio di competenze, suggestioni e visioni allucinate procede attraverso una prosa carica di rimandi e simbologie in cui D’Elia rivendica la propria anarchia letteraria ridefinendo costantemente il genere per dare forma, al contempo, a una narrazione introspettiva che indugia sul dolore dell’esistenza dall’infanzia alla maturità; a un poema in prosa incentrato sulla costante ridefinizione del sé sulla base degli elementi naturali e del quotidiano; a un percorso al limite del visionario scandito dalle suggestioni mentali e dalle immagini legate al disagio attraversato negli anni. La piena centralità consegnata al corpo diventa strumento primario di ispezione di traumi remoti necessario per misurare i limiti dell’individuo nel dolore.

Al pari dei suoi contenuti, la prosa di D’Elia richiama una profonda riflessione sulla natura plastica del linguaggio, affine al percorso avviato da Anne Carson in Antropologia dell’acqua (Donzelli, 2010) nel compiere un’indagine sulla relazione con l’altro e sul rapporto con la fine. “La nostra piccola dose d’inferno la calziamo ogni mattina, ma l’alba la confonde con il nascere del giorno e il giorno contribuisce a mescolarla alle nostre attività”.

D’Elia si interroga sulla percezione che si ha dell’esistenza nell’infanzia per tracciarne l’inconsapevolezza, il valore del sogno, l’attesa, la fedeltà alla realtà nell’esigenza di ancorarsi alle evidenze nell’età in cui “l’alfabeto e la vita” appaiono ancora come “due insiemi distinti e non confondibili, gli anni con gli anni, i destini con i destini, i fantasmi con gli esseri umani, la vita tutta prima delle ore in classe, con gli altri, che sancivano quella dello studio, delle cose da fare”.

La ricerca di un significato da dare alla realtà e l’osservazione della sua trasfigurazione in età adulta rappresenta uno dei centri di un romanzo inclassificabile per natura, originalità stilistica e formale, tensione poetica.

È un visibile solo all’apparenza labile e ambiguo quello descritto da D’Elia, dove ogni oggetto diventa simbolo e mezzo di un tentativo di ancoraggio alla realtà, a cui avvicinarsi attraverso la veglia. I suoi ritmi appartengono al silenzio che accompagna il momento che precede una disgregazione, la distruzione della materia. “Più che in relazione con il sonno, la veglia è da intendersi come ciò che più si avvicina alla realtà, ciò che più vi si allontana. Quello che tiene legate a filo doppio queste condizioni è il sonno, e tutto ciò che lo riguarda è verità e menzogna, invenzione, bugia”.

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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