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Photo by JOHN TOWNER on Unsplash

Come si fa a descrivere una città, evocarne le atmosfere quotidiane, renderne il sapore nascosto, la vita che non fa rumore, la consistenza più intima? Forse descrivendo i suoi luoghi più famosi, i suoi monumenti più noti, le sue chiese, le sue strade? O forse raccontandola polvere depositata sulle scale dei suoi palazzi più vecchi, gli alberi che ne adornano i viali, ciò che si beve nei bar aperti la sera?

Anche quando è sogno, o una narrazione inventata, surreale, o addirittura irreale, la narrativa parte sempre da un’esperienza. Ma mentre l’esperienza rimane nel cuore, resta privata, inaccessibile dall’esterno, il racconto che se ne fa è condivisibile; e anche se non ti restituisce l’esperienza così come realmente è stata, te ne regala un’altra, unica e inimitabile, confezionata apposta per te. Diversa da quella cha ha ispirato l’autore, ma altrettanto vera.

Riversare la propria esperienza in un racconto più o meno ordinato è ciò che ha fatto Eleonora Marangoni nel suo ultimo libro, Paris, s’il vous plaît (Einaudi, 18,50 €). Marangoni racconta la sua Parigi, città nella quale ha vissuto per otto anni nel periodo della sua prima giovinezza. Non so se siano stati gli anni più belli, ma certamente sono stati gli anni decisivi per la sua formazione, come scrittrice, come studiosa, ma soprattutto come essere umano. Sono stati anni densi e leggeri allo stesso tempo, quelli in cui ha maturato la propria idea del mondo, o – come a lei piace dire – di come stare al mondo.

Quando, lo scorso maggio, ho letto il libro per la prima volta, ho deciso immediatamente che sarei andato a Parigi, dopo avere ignorato per cinquantadue anniuna delle città più celebri nel mondo per la sua bellezza. Mi ero separato da appena un mese da mia moglie, e avevo bisogno di distrarmi un po’; ma soprattutto voglia di impiegare la mia nuova libertà facendo cose che mi arricchissero, e che riempissero il vuoto che all’improvviso si era creato nella mia vita.

A Parigi però sono andato solamente in agosto, dopo una seconda lettura del libro, curiosissimo di vedere con i miei occhi ciò che nel libro avevo letto. Cioè, sapevo bene che non avrei mai potuto vivere Parigi nel modo in cui l’autrice l’aveva vissuta, ma speravo che il suo racconto – filtrato dalle scarse esperienze che i pochi giorni della mia visita mi avrebbero consentito – potesse spalmare sul mio cuore ferito un balsamo di speranza e di nuova giovinezza; che mi facesse smettere di piangere ogni giorno, e mi facesse guardare al futuro pieno di fiducia e di speranza. Certo, non con gli stessi occhi che si hanno a vent’anni, ma con la stessa limpidezza di veduta, e con una gioia preziosa perché sparita da parecchio tempo dal mio cuore.

E ovviamente ho portato con me il libro, che fornisce un’abbondanza di indicazioni sulla città in un modo tutto suo, tanto che è difficile classificarlo in un genere letterario. Non è un romanzo, perché non ha una trama e un intreccio, né uno sviluppo narrativo. Non è nemmeno una guida turistica, perché, è vero, descrive molti luoghi di Parigi, ma con il filtro dell’esperienza, del vissuto dell’autrice; delle cose che vede a Parigi, descrive solamente la parte che le interessa, e descrive molte cose che in una guida turistica non vengono dette, come la rarità degli ascensori nei palazzi, le scale di legno scricchiolanti per le quali occorre inerpicarsi per salire nei piccolissimi appartamenti parigini, i codici numerici necessari per accedere alla maggior parte delle case; non è autofiction, perché anche se l’autrice racconta molti episodi della sua vita, il protagonista assoluto rimane Parigi, e non lei stessa. Forse potrebbe essere definito un memoir, perché l’autrice ricerca una verità vissuta e non oggettiva, e soprattutto non procede in ordine cronologico, ma organizzando il testo per temi e luoghi parigini.

Ogni capitolo è contraddistinto da un titolo e da un sottotitolo. Il sottotitolo fa quasi sempre riferimento a una zona di Parigi, mentre i titoli sono forniti da oggetti, da idee, da frasi evocative, da ciò che procura un’anima alla zona alla quale tali titoli sovrintendono, ovvero agli spazi evocati nel sottotitolo, rendendoli interessanti e degni di essere esplorati.

Ma avendo pochi giorni a disposizione – e avendo il privilegio di conoscere Eleonora personalmente – ho chiesto direttamente a lei di suggerirmi qualche luogo imperdibile da visitare, che mi potesse far gustare, non tanto la fama impersonale della città turistica, quanto le sue atmosfere più suggestive, nelle quali così tanti scrittori e artisti stranieri si sono recati per cercare ispirazione.

Nel suo lungo messaggio di risposta su Whatsapp, è partita dalle librerie (e appena l’ho visto ho capito che aveva messo a fuoco molto bene i miei desideri); ha continuato con i bistrot, i ristoranti, i bar. Solo dopo tutte queste cose mi ha suggerito qualche museo. E, infine, mi ha dato il consiglio più bello: «Vai a passeggiare ai giardini del Palais-Royal, e siediti a leggere su una sedia vicina alla fontana».

Nel libro, dei giardini del Palais-Royal si dice questo:

Più che un rifugio, i giardini del Palais-Royal sono una specie di avamposto, riserva naturale di un tipo particolare di grazia che altrove – a Parigi e forse nel mondo – non si trova più, e che invece lì dentro è stata messa in salvo. Inoltre, anche nei giorni in cui il cielo è bianco e i colori sembrano non esistere più, sono uno dei pochi posti di Parigi in cui pare sempre esserci luce. Anche la notte, vista dal Palais-Royal, non sembra la stessa, ma questo purtroppo è un segreto, perché la sera i giardini chiudono al pubblico, e che il buio non faccia davvero paura lo sanno soltanto in pochi, pochissimi che abitano case affacciate lì.

Nonostante sia rimasto a Parigi solamente per quattro giorni, ai giardini del Palais-Royal sono stato due volte. La prima volta – la più bella – ci sono andato incuriosito dal brano sopra riportato. Era uno splendido mattino d’estate, ho ignorato il Louvre e la sua fila chilometrica sull’altro lato di rue de Rivoli, e sono entrato con trepidazione e leggerezza nel giardino, stranamente un po’ nascosto, poco segnalato. Ho subito trovato la fontana a cui Eleonora alludeva, e in effetti ho notato che intorno a essa (è una fontana di forma circolare molto grande, dal diametro di circa 25 metri) sono presenti coppie di sedie leggermente inclinate all’indietro, per consentire ai visitatori (che siano accompagnati o solitari) di sedersi lì di fronte, distendere la schiena, poggiare i piedi sul bordo della vasca, e in quel modo rilassarsi, leggere, pensare. Ma soprattutto, con lo sguardo forzatamente rivolto verso l’alto per la postura assunta, hanno la possibilità di guardare il cielo.

Eleonora Marangoni, oltre a essere una scrittrice, è un’appassionata di storia dell’arte. Tra i suoi primi lavori pubblicati ce n’è uno su Proust e la pittura italiana, e uno sul significato dei colori nella Recherche. Non mi stupisce dunque che le sue considerazioni sul giardino siano relative alla luce e ai colori. E, in effetti, l’esperienza che ne ho fatto io stesso è essenzialmente un’esperienza luminosa.

La grazia salvaguardata dal giardino consiste davvero nella sua riserva di luce, che il cielo e la fontana si rimandano l’un l’altra, amplificandola e irradiandola sulle cose. Nella mattina in cui l’ho visitato la prima volta, il cielo era offuscato da nuvole grigie di passaggio. Minacciava pioggia, e poi, in effetti, nel pomeriggio è piovuto. La luce faticava a trovare spazio nel cielo, rallentata come da una patina opalina, lattiginosa, che fosse stata spalmata sull’aria dalle nuvole gonfie di pioggia. Eppure, dalla prospettiva della fontana, l’aria conservava la propria nitidezza, le sedie avevano mantenuto il loro colore, verde com’erano verdi le foglie degli alberi tutto intorno; il palazzo sullo sfondo rimaneva del suo colore marrone chiaro.

Ma Parigi non è solamente una bellissima città, in cui è possibile trovare molti posti magici come il Palais-Royal, un luogo in cui è più facile essere felici. «Parigi è un ottimo posto sia per festeggiare che per disperarsi», ci suggerisce l’autrice. E in un altro passo ci spiega il motivo:

il cliché della Parigi meta per innamorati presuppone buonumore e dimentica un aspetto essenziale di questa città: che è un posto ideale, in quanto rifugio solitario, in cui trovarsi non solo quando va tutto bene, ma anche quando si sta così così. Per molti anni, in tanti modi diversi e nonostante i suoi cieli bianchi, Parigi per me è stata luce e, quando la luce non c’era, è stato un bel posto per aspettare che tornasse. È qualcosa che ha a che fare con il suo lasciarci liberi di leggerla come vogliamo, quel contraddirsi di continuo da sola, essere al tempo stesso cosmopolita e sciovinista, distaccata e galante, organizzata e amante dell’improvvisazione, curiosa del futuro e irresistibilmente attratta dalla malinconia. E che soprattutto è legato alla sua stessa essenza, all’abilità e alla costanza con cui riscrive le priorità del «reale».

Non so se l’autrice scrivendo questo brano avesse in mente qualche episodio della sua vita, qualche esperienza personale particolare; ma quando io, a Parigi, l’ho riletto per la terza volta, ho capito perfettamente cosa significasse per me. Quando ho deciso di andare a Parigi, la mia vita era tutta da ricostruire. Ero afflitto da una profondissima disperazione. Piangevo tutti i giorni ormai da mesi, forse da anni (era divenuta un’esperienza così normale e quotidiana che non saprei dirlo con esattezza), e, come Prospero nella Tempesta, un pensiero su tre lo dedicavo alla mia tomba. Ecco, a dirla tutta, non stavo affatto «così così», come dice Marangoni. Ero profondamente disperato. Chi ha provato almeno una volta nella vita questa sensazione sa di cosa sto parlando.

Ma il giorno della partenza, mentre ero seduto di fronte a un gate del Terminal 1 di Fiumicino in attesa di imbarcarmi, il mio telefono ha squillato, e proprio quel giorno, ho ricevuto una delle notizie più belle della mia vita. Forse la più bella, dopo quelle della nascita dei miei figli.

«Parigi è un ottimo posto sia per festeggiare che per disperarsi», aveva scritto Marangoni, e questa frase mi tornò alla memoria come una specie di profezia. Salire sull’aereo con quella gioia insperata che mi dilatava il petto – dopo mesi il cui mi era sembrato che il cuore divenisse ogni giorno più piccino per la costernazione – mi pareva una specie di gesto simbolico.

Avevo molto di cui disperarmi a Parigi, ma anche qualcosa da celebrare, e non vedevo l’ora di fare entrambe le cose. «Parigi per me è stata luce e, quando la luce non c’era, è stato un bel posto per aspettare che tornasse», citando ancora Marangoni. E infatti la luce aveva iniziato a tornare ancora prima di salire sull’aereo.

Sono andato a Parigi da solo, desiderando di stare lì da solo. Avevo bisogno di quella solitudine. Avevo la necessità di riscoprire, dopo tanti anni, se fossi ancora in grado di stare da solo. Sapevo bene che avrei potuto passare da solo gli anni che mi restavano della vita, e su questa cosa potevo riflettere molto meglio a Parigi che a Roma. A Parigi, lontano dai miei pochi affetti, dai luoghi consueti, dal cibo che mi piace, in un paese del quale non conoscevo la lingua, avrei potuto capire – davvero – cosa significasse la solitudine.

E desideravo vivere quella solitudine in pienezza, per capire cosa rappresentasse, se ero in grado di sopportarla, o se addirittura potesse piacermi.

Il primo privilegio della solitudine è quello di poter scegliere in autonomia cosa visitare in un viaggio come quello. In una città come Parigi, straripante di luoghi da vedere, di musei da visitare, di librerie in cui cercare libri meravigliosi, di strade per cui passeggiare, di ristoranti in cui mangiare, di bar in cui prendere qualcosa da bere, be’, credetemi, poter scegliere da soli dove andare è un privilegio, che ti comunica un forte senso di libertà.

E infatti ho preso alcune decisioni delle quali sarebbe stato complicato convincere qualcun altro. Ad esempio, non ho visitato alcun museo. Avevo bisogno di vedere persone. Per vedere statue e quadri, ho pensato, avrò sempre tempo. È vero, una mezza giornata al Louvre l’avrei trascorsa volentieri, ma mi sono lasciato scoraggiare dalla coda di quattro ore e dalla vista di quella cosa di vetro, orrenda e appuntita, che qualcuno ha messo di guardia all’ingresso dell’area.

E così mi sono dedicato a un’attività tipicamente parigina: la flânerie. Marangoni dedica alla flânerie numerose pagine del suo libro. Il flâneur è una persona che cammina lungamente per le strade di una città senza avere uno scopo particolare, a parte camminare. Cammina e osserva, ma in realtà camminando segue i propri pensieri e può arrivare a prendere delle decisioni importanti per la propria vita. L’autrice del nostro libro riporta una definizione del flâneur di Walter Benjamin, che lo descrive molto chiaramente:

Chi cammina a lungo per le strade senza meta viene colto da un’ebbrezza. A ogni passo l’andamento acquista una forza crescente; la seduzione dei negozi, dei bistrot, delle donne sorridenti diminuisce sempre più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo della strada, di un lontano mucchio di foglie, del nome di una strada. Poi sopravviene la fame. Egli non vuole saper nulla dei mille modi per placarla. Come un animale ascetico si aggira per quartieri sconosciuti, finché sfinito crolla nella sua camera, che lo accoglie estranea e fredda.

Io a Parigi ho camminato moltissimo (ne è testimone l’app di Samsung Heath sul mio telefonino), e sicuramente ero più interessato ai miei pensieri che non alle vetrine dei negozi. Però, naturalmente, ero un turista, e dunque mi ponevo delle mète, e il cuore curioso camminava dieci metri avanti a me in cerca di emozioni. Ero dunque un flâneur imperfetto. Mi sono fermato più di una volta ad ammirare un tramonto sulla Senna, a pranzare con una baguette in una bottega stranamente a buon mercato su rue de Rivoli, mi sono fermato in alcuni bar per bere un costosissimo cappuccino (con il cafe au lait non ce l’ho fatta: ma come lo fanno?) e mangiare un ottimo pain au chocolat.

Ciononostante, mi sentivo un flâneur. Perché, sì ero andato a Parigi per il fatto che è una splendida città; e, naturalmente, perché avevo cinquantadue anni e non ci ero mai stato; e perché il libro di Eleonora mi aveva incuriosito tantissimo. Ma, principalmente, ero andato a Parigi per ritrovare me stesso, perché la sua bellezza, la sua maestosità, le sue contraddizioni, la sua capacità di cambiare rimanendo in fondo uguale a sé stessa, mi aiutassero a sciogliere dei nodi strettissimi intorno al mio cuore, a donare un po’ di sollievo al mio animo tormentato, e a darmi una prospettiva un po’ più nitida verso il futuro così nebuloso della mia vita. E, finalmente, andare avanti.

Per chiarire questo concetto, Marangoni riporta una frase detta da Julio Cortázar durante un’intervista: «Marcher dans Paris signifie avancer vers moi», ovvero «Camminare per Parigi è camminare verso di me». Proprio così, camminare verso di me. Ecco di cosa avevo bisogno: fare breccia nella mia corazza solidissima, che serra una pluralità straordinariamente estesa di emozioni, di pensieri, di sofferenze, e di un’angoscia così profonda che io non riesco a spiegarla a nessuno, e nessuno riesce a comprendere. E così fare spazio, lasciare entrare un po’ d’aria, perché questa congerie di disordine e di turbamenti potesse a poco a poco venir fuori, perché smettesse di opprimere il mio cuore in maniera così soffocante e finalmente cessassi di piangere ogni giorno.

Come poteva Parigi farmi camminare verso di me? Mostrandomi un modello esterno di ciò che albergava dentro di me, aiutandomi così – facendomelo vedere – a capirlo, a capirmi. Questo poteva accadere solamente in una città come Parigi, in cui – come sostiene Marangoni – esistono dei posti come «i giardini del Palais-Royal, la Galerie Vivienne e a modo suo perfino la place des Vosges con la sua pelouse non interdite, in cui Parigi è al tempo stesso sontuosa e a portata di mano; posti che non ti danno l’impressione di visitare una città, ma di farne parte».

Ecco, a Parigi ho avuto proprio questa sensazione: pur essendo la prima volta che ci andavo, e pur essendo rimasto solo per pochi giorni, passeggiando per i suoi ampi viali o per le sue stradine, attraversando avanti e indietro la Senna più volte al giorno, facendo colazione nelle boulangerie più eleganti o in quelle più a buon mercato, non mi sono mai sentito in pericolo, non ho mai avuto la sensazione di essere uno straniero, neanche di fronte a una risposta un po’ sgarbata o a un sorriso di sufficienza di qualche negoziante. Non ero mai stato prima in questa città, eppure mi ci sentivo a casa, perché in qualche modo mi somigliava.

E dunque era vero: camminare per Parigi significava camminare verso di me. Mi aiutava a far luce sugli intricati grovigli che mi opprimevano il cuore in modo doloroso, e, piano piano, a scioglierne alcuni, ad allentare un po’ la morsa insopportabile che era divenuta la mia vita. E affinché tutto ciò si realizzasse, era necessario che io ci andassi da solo, perché soltanto da solo potevo entrare in dialogo con Parigi, e dunque con me stesso. A questo proposito l’autrice afferma:

 Parigi viene spesso descritta come la città perfetta per gli innamorati, eppure non è un posto che collego davvero all’essere in due. Nella mia testa è piuttosto il paradiso dei solitari o di gruppi di solitari che si formano a caso, riuniti intorno a un tavolo per il tempo di una sera. È il luogo ideale in cui tornare o camminare verso noi stessi, o faire et refaire le monde seduti alla terrasse di un caffè. Mi capita di arrivare in città e di non avvertire di proposito nessuno per un paio di giorni, e di godermi Parigi in completa solitudine, in bilico sulla soglia che separa una città da un’altra, nella terra di mezzo in cui le parti non sono già scritte e il tempo sembra scorrere un po’ meno in fretta.

Ecco, questo tempo che scorre un po’ meno in fretta era quello che mi occorreva per fermarmi in un caffè a fare e rifare il mio mondo. Era quell’opportunità che mi serviva per ricostruire le cose, decidere cosa tenere e cosa buttare, e queste sono decisioni troppo importanti per prenderle con qualcun altro. Certo, io sono seguito da una psicologa e da un equipe di psichiatri molto bravi, ma loro non prendono le decisioni per me. A volte mi piacerebbe, ma non lo fanno. Ogni decisione presa nell’ultimo anno, quelle buone e quelle molto sbagliate, le ho prese da solo, e ora mi ritrovavo a prenderne di più importanti. La mia vita di prima non c’era più, e il futuro mi si distendeva davanti in modo nebuloso e indecifrabile. E io dovevo decidere cosa fare. Dove andare ad abitare. Come recuperare il rapporto coi miei figli, se cambiare lavoro, se cambiare paese, a quale dei miei numerosi progetti di scrittura dedicarmi. Tutte decisioni che potevo prendere solamente io, magari passeggiando per Parigi per prendere coscienza di cosa realmente volessi.

Uno dei momenti più importanti per queste mie riflessioni è stata la passeggiata per rue du Faubourg-Saint-Denis. La strada attraversa da nord a sud il decimo arrondissement di Parigi. Siamo in uno dei quartieri più multietnici di una città che di per sé già accoglie cittadini di molte parti del mondo. Non è dotata di attrazioni turistiche particolari, ma proprio per la varietà dei suoi abitanti, dei suoi negozi, delle sue brasserie, dei suoi cafè, è un luogo che offre lezioni sulle possibilità. E io avevo bisogno proprio di quello. Di sapere che tutto era ancora possibile. Era possibile ricominciare. Era possibile trovare un posto dal quale essere accolto, trovare nuove amicizie, nuove opportunità di lavoro, un posto in cui potevo ricostruirmi e fare di nuovo pensieri positivi.

Eleonora mi aveva consigliato di andare in questo luogo, e pensando a tutti i posti più belli e più frequentati che si trovano a Parigi, quando sono arrivato sono rimasto un po’ sorpreso. La spiegazione della sua predilezione è contenuta nel suo libro, nel quale si trova un capitolo intitolato «Un certo non-so-che», dove afferma: «Faubourg-Saint-Denis […] resta un territorio impreciso, risultato di più popoli, anime, classi sociali. I turchi pensano che sia il loro quartiere, gli africani anche, così gli indiani, gli arabi e i cinesi, e da qualche anno anche i bobos. Alla fine questi gruppi vivono insieme, più o meno appassionatamente, in un faubourg vitale e sgangherato dove si trova un po’ di tutto e un po’ di tutto può accadere».

Oggi posso dire che, passeggiando per questo quartiere, si capisce che la diversità non pregiudica l’armonia, la rende anzi più feconda. Durante la mia passeggiata mi sono fermato un’oretta nel pub Chez Jeannette e poi ho cenato nel ristorante Bouillon Julien. Chez Jeanette è un bar normalissimo non particolarmente elegante, anzi, probabilmente avrebbe bisogno di un amano di restauro. Eppure è uno di quei posti di Parigi in cui si percepisce un’allegria che non si sa bene da dove provenga. Quando ci sono stato ho ordinato una birra à la pression e un piatto di patatine fritte. La birra era ben fredda e piacevole da bere in quel pomeriggio molto caldo. Le patatine erano per lo più bruciate, e infatti non sono riuscito a finirle. Alla mia sinistra erano due ragazze tedesche. Anche loro avevano davanti una birra, ma quasi non la bevevano. Io sono arrivato dopo di loro e quando me ne sono andato il loro bicchiere era ancora quasi pieno. Tentavo di capire cosa si dicessero e cosa le facesse ridere, ma parlavano molto rapidamente, e io riuscivo a capire solo poche parole. Avrei voluto chiedergli di parlare un po’ con me, per provare a praticare il mio tedesco, di cui ho presso lezioni per tutto lo scorso anno, ma non ne ho avuto il coraggio (molti insegnanti di lingua danno consigli simili, ma non mettono in conto che non è facile richiedere una cosa del genere a degli sconosciuti senza essere fraintesi).

Alla mia destra c’era una donna sola, sulla cinquantina, cha ha ordinato un Aperol Spritz e delle patatine, come me. Sembrava molto pensierosa. Tentavo di immaginare che pensieri facesse, se fossero simili ai miei o completamente diversi. Ma le nostre espressioni taciturne dovevano sembrare buffe a chi ci guardava dall’esterno, come se fossimo due compagni di viaggio che seguivano itinerari diversi e si fossero ritrovati per qualche strano motivo in quel bar sperduto, chez Jeanette.

Quel giorno, l’allegria brulicava nei tavolini esterni, dove era seduto un gruppo di francesi che beveva molta birra e rideva molto, gridando a voce alta. Era un bar che faceva venir voglia di scrivere (sono certo che Hemingway ci sarebbe andato), ma purtroppo a Parigi non avevo portato il mio laptop, il taccuino l’avevo lasciato nello studio che avevo affittato, e a scrivere sul telefonino ci mettevo troppo. Così mi sono limitato a osservare gli altri, e quell’osservazione mi ha rivelato qualcosa sulla mia vita. Ho intuito che avrei potuto di nuovo essere felice, trovare nuovi amici, magari un lavoro più interessante. Il catalizzatore che aveva innescato questi pensieri positivi non saprei rivelarlo. Spiega Marangoni che da Chez Jeanette si respira

un’allegria che soltanto alcuni bar qualunque hanno e che, purtroppo o per fortuna, è difficile riprodurre, forse perché è  difficile distinguerne gli ingredienti. Di bar e bistrot Parigi è piena: le sedie in rotin, l’ardoise con i plats du jour scritti a mano, gli specchi fumes, i camerieri un po’ svogliati sono gli stessi dappertutto, eppure a volte questi ingredienti, mescolati tra loro, producono qualcosa di speciale. […] Si tratta di luoghi ordinari ma tutt’altro che anonimi, indiscutibilmente provvisti di qualcosa, «qualcosa che ci riempie con la sua presenza invisibile, di cui l’assenza inspiegabile ci lascia stranamente inquieti, la cosa che valga la pena di essere detta e la sola che appunto non possa essere detta!» Così scriveva alla fine degli anni Cinquanta il filosofo Vladimir Jankélévitch nell’opera Il non so che e il quasi niente, e naturalmente non parlava dei bar, ma il concetto del «Je ne-sais-quoi et Presque-rien» è talmente vasto e al tempo stesso preciso che può essere applicato alle cose più disparate.

Questo concetto del non so che e il quasi niente mi sembra uno dei più suggestivi di questo libro, sebbene l’autrice l’abbia mutuato dal filosofo francese Vladimir Jankélévitch. Il non so che e il quasi niente è un’opera che Marangoni aveva citato in epigrafe anche nel suo romanzo Lux, segno che la sente particolarmente affine al proprio pensiero e alla propria sensibilità. La frase citata in Lux sottolineava l’importanza dell’iridescenza, delle sfumature dell’arcobaleno, del luccichio dei tessuti, insomma, di tutto ciò che sembra irrilevante ma che invece rappresenta una parte importante dell’esistenza. Come per comprendere al meglio la vita non occorresse soffermarsi sui fatti macroscopici, ma semplicemente prestare attenzione a dettagli che rischiano di sfuggire per la loro irrilevanza, ma che sono dotati di una bellezza innegabile, e per certi versi salvifica.

Il Je ne-sais-quoi et Presque-rien mi spiegava il motivo di tante cose. In relazione a Parigi, certo, ma anche in relazione alla vita in genere. Era stato per un non so che o un quasi niente che la mia esistenza, dopo tanti anni di pienezza e di felicità, aveva iniziato a incrinarsi, e a portarmi, un passo alla volta, dall’insoddisfazione, all’insofferenza, all’angoscia, ala malinconia, alla disperazione più cupa, e infine a frequenti impulsi anticonservativi (l’inoffensivo eufemismo con cui gli psichiatri chiamano il desiderio di farla finita).

L’ultima volta che ci avevo provato era stato lo scorso 6 aprile, quando un’unità del 118 venne di notte a casa mia per iniettarmi l’antidoto alla sostanza che avevo assunto e a rianimarmi con l’ossigeno. Ricordo che quella notte, quando fui risvegliato dalla flebo attaccata alla vena di una mano e mi resi conto di essere ancora vivo, mi sentii molto arrabbiato con quella dottoressa che tentava in tutti i modi di farmi parlare di argomenti futili (li ho dimenticati tutti, tranne un riferimento a una partita della Roma in una coppa europea dal nome mai sentito prima).

Anche in quel caso, che cosa fu mi tenne in vita? Un non so che, un quasi niente. Forse, se avessi trovato dentro casa un’altra boccetta di Rivotril, sicuramente avrei bevuto anche quella, e – ancora forse – l’antidoto non avrebbe funzionato. Forse, se mia sorella non si fosse allarmata perché non rispondevo al telefono alle nove e mezza di sera e non avesse allertato mia figlia, avrei continuato fino all’eternità il sonno artificiale in cui cercavo un po’ di sollievo a quel dolore insopportabile. Ma forse –ancora forse – se non avessi compiuto quel gesto estremo, non mi sarei mai reso conto del baratro esistenziale in cui ero sprofondato, e non avrei deciso, due giorni dopo, di andare via di casa per pensare un po’ a me stesso senza sentire la pressione, per attenuare l’ansia terribile che da molti mesi mi paralizzava e finalmente ritrovarmi.

Su questo argomento vorrei dire un’ultima cosa. In Paris, s’il vous plaît, ci sono delle pagine meravigliose in cui l’autrice parla del suicidio di un suo amico. Eleonora conosceva Stefano da quando studiava ancora a Roma. Era una bella amicizia, avevano molte cose in comune e si vedevano molto spesso. Avevano continuato a sentirsi (e a vedersi, quando lei tornava a Roma per qualche tempo) anche dopo il trasferimento di Eleonora a Parigi. A lei non sembrava un tipo particolarmente inquieto, anche se di tanto in tanto percepiva qualche cupezza cui non riteneva opportuno conferire un’importanza eccessiva.

Un giorno Stefano parte con la macchina da Roma, e anziché recarsi al lavoro, si dirige verso Parigi, a trovare Eleonora. Da qualche tempo frequentava una ragazza, Priscilla, ma a quanto pare lei non si interessava a lui quanto lui a lei, e questo lo faceva soffrire. Arrivò a Parigi quando ormai era sera. Cenarono in un ristorante e poi arrivarono a casa di Eleonora, ma non entrarono. Si sedettero sul pianerottolo a fumare, bere e a parlare fino all’alba. Parlarono principalmente di Priscilla, ma non fu una serata triste. Fu una di quelle serate che capita di trascorrere soltanto nella giovinezza, nella quale stare insieme, a parlare e a fumare e a bere, con qualcuno a cui si vuol bene, la rende una notte indimenticabile.

Pochi mesi dopo Stefano si tolse la vita. Eleonora si trovava a New York quando ricevette la notizia in un mattino di giugno del 2008. Racconta: «Da quel mattino, per molte ragioni, la mia vita è cambiata per sempre. La notte sulle scale resta l’ultimo, vero momento che io e Stefano abbiamo passato insieme. forse l’ultimo giorno in cui siamo stati davvero ragazzi, la prova assurda che l’amicizia non basta e anche che al tempo stesso è tutto quello che abbiamo».

Ecco, Parigi per me ha significato anche questo: riflettere sull’esperienza del suicidio con gli occhi di chi resta. Dopo averci pensato mille volte, e dopo averci provato per due volte, probabilmente non mi ero mai reso conto dell’incredulità e della desolazione che affligge coloro che vedono morire una persona cara in questa maniera. Leggendo l’ultima frase del brano citato, ho pianto disperatamente. Il cosiddetto suicidal – termine che in inglese indica sia chi ha tendenze suicide sia chi si toglie realmente la vita – difficilmente pensa davvero al dolore che provocherà in quelli chi gli sono vicini. Magari pensa che meritino di soffrire un po’ anche loro, così come ha sofferto lui; o semplicemente non gli interessa. Nel mio caso ero talmente preso da me stesso che gli altri semplicemente non li vedevo più. Leggere questo brano, che sa esprimere questo dolore immenso in modo misurato – verrebbe quasi da dire con educazione – mi ha scosso profondamente.

Ho pensato che io smisi di essere davvero un ragazzo con una nascita e con un sorriso – quello della mia prima figlia, quando avevo ventiquattro anni –,mentre per Eleonora era stata una morte a segnare la fine della giovinezza. Mentre ero a Parigi ho pensato a lungo alla scena della conversazione sul pianerottolo fino al mattino. Ho pensato che, venendo a Parigi, dovevo chiudere i conti col mio dolore. La splendida notizia ricevuta il giorno della partenza in aeroporto era un magnifico viatico. Le colazioni fatte a Parigi su un tavolino all’aperto in queste mattinate frizzanti di metà agosto erano un ottimo catalizzatore che poteva darmi la spinta giusta. Ero finalmente solo, e avevo a mia disposizione una delle città più belle del mondo, che poteva dare un impulso decisivo al mio bisogno straziante di ritornare a vivere.

Non era niente di straordinario, in fondo. Un viaggio di quattro giorni, una sosta breve ma densa di speranze. Parlando di un romanzo di Georges Perec, La vita, istruzioni per l’uso, Marangoni afferma che in realtà questo libro «di istruzioni per la vita non ne contiene davvero, se non quella, immensa, di imparare a trattare l’ordinario come lo straordinario, e viceversa».

Ecco, nell’ordinarietà del mio breve viaggio ho imparato a riconoscere una cosa straordinaria, che per molti è scontata e nella quale oramai non credevo più da molto tempo. La consapevolezza che potevo farcela, potevo ricominciare a vivere.

Ed è un fatto che, dal giorno della mia partenza per Parigi fino a oggi, nel momento in cui sto scrivendo questo pezzo, io abbia smesso di piangere. Dopo aver pianto tutti i giorni per un anno intero (e intendo proprio tutti i giorni senza saltarne uno), da quando sono andato a Parigi – e con la guida preziosa di Paris, s’il vous plaît, io non ho pianto più.

 

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1 commento

  1. Mostrare apertamente le proprie fragilità con l’aiuto salvifico della letteratura è un atto – in questi anni di felicità forzata – è un atto a dir poco rivoluzionario.
    Grazie.

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Autore

lucaalvino@minimaetmoralia.it

Luca Alvino è nato nel 1970 a Roma, dove si è laureato in Letteratura Italiana. Nel 2025 ha pubblicato per Il Convivio la raccolta poetica Sono il poeta. Nel 2023 ha tradotto e curato per Interno Poesia un’ampia antologia delle poesie di John Keats, intitolata Mio cuore. Nel 2021 ha pubblicato, ancora per Interno Poesia, la raccolta poetica Cento sonetti indie. Nel 2018 è uscita per Castelvecchi la sua raccolta di saggi Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter. Nel 1998 ha pubblicato con Bulzoni una monografia sull’Alcyone di Gabriele d’Annunzio, intitolata Il poema della leggerezza.

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