
Pubblichiamo un pezzo uscito sul Manifesto, che ringraziamo. (fonte immagine)
Nelle ultime settimane, il consenso attorno all’idea che è intollerabile assistere e contribuire al genocidio del popolo palestinese si è enormemente allargato. Ne ha parlato il manifesto proprio ieri. È difficile dire cosa sia successo. Forse le dichiarazioni ormai del tutto esplicite di chi guida Israele politicamente e militarmente hanno fatto apparire ridicoli gli ultimi tentativi di negare una parola attorno a cui si discute da troppo tempo: genocidio. Forse certe immagini strazianti di bambini uccisi dalla fame (fame usata consapevolmente come arma di sterminio) hanno rotto gli argini. Forse gli sforzi inesausti di chi da venti mesi non fa altro che lottare contro questa mattanza immonda hanno messo insieme emozioni e consapevolezza.
Non importa, in fondo, riconoscere le cause di questa ondata di condanne che trasversalmente, con accenti e toni diversi, sta finalmente confluendo in una richiesta decisa e ultimativa che i governi dei Paesi Occidentali faticano a respingere. Quel che conta è ciò che ancora si può fare. E questo è in fondo l’aspetto drammatico di quello a cui stiamo assistendo senza più trovare parole. Perché, nonostante le critiche sempre più feroci alla macelleria di cui si è resa responsabile da quasi due anni Israele, cambiamenti all’orizzonte non se ne vedono. Si vede anzi un inasprimento per certi versi folle dell’impeto distruttivo.
Una follia razionalmente calcolata, sia chiaro. Bombardamenti che non danno scampo a nessuno. Ombre di bambini che camminano fra le fiamme. Corpi dilaniati e in pasto ai cani. Donne che assistono allo sterminio dei propri figli mentre cercano di curare altri infanti. Storie che superano ogni confine di immaginazione. E, mentre la fame monta sempre più inesorabile, si fanno largo strategie per offrire briciole di cibo in località lontane da tutto pur di costringere la popolazione a lasciare ciò che resta della propria terra.
Cosa sta succedendo allora è facile immaginarlo. Dopo venti mesi di impunità pressoché totale di fronte ai più orridi scempi (su tutto, la pianificata distruzione di ospedali, l’uccisione di medici e paramedici, la detenzione senza capi d’accusa di altrettanti medici e paramedici, la carneficina di giornalisti e di chiunque possa raccontare l’orrore) chi governa Israele (non un solo uomo, sia chiaro, e non un uomo contro il volere dei cittadini, come mostrano gli impressionanti sondaggi pubblicati da Haaretz) non ha più alcun interesse a tener conto del dissenso. Certi di poter fare tutto quel che credono al di là di ogni limitazione, questi governanti e militari hanno perso definitivamente il senso dell’appartenenza al genere umano. Quasi nulla può più fermarli. È una banalità evidente a tutti. Tanto che molti di quelli che fin dall’inizio si dannano per diffondere, denunciare, convincere, sono oggi presi da una rabbia che li spinge a guardare indietro anziché avanti e ripetere: se aveste parlato prima. Se aveste collaborato. Dove eravate? Perché tacevate? Queste sono le conseguenze. Ne siete responsabili anche voi.
Ma non ha mai senso guardare indietro usando l’ipotetica dell’irrealtà. Non ha senso soprattutto oggi, mentre la resistenza palestinese è allo stremo e tuttavia è viva, perché donne e uomini di Palestina vogliono vivere, sì, ma vogliono che la loro vita abbia un senso e quel senso la vita lo trova nella loro terra. È a un popolo e alla sua terra che dobbiamo guardare, oggi. Per salvarne tutta la bellezza. In questi giorni, mentre ci ripetiamo che qualcosa è ancora nelle nostre mani, nulla è più giusto che guardare alla bellezza a cui continua a dare vita il popolo di Palestina anche negli ultimi terribili tempi. Leggiamo le loro poesie, i loro racconti. Sono usciti libri strazianti. Guardiamo alla loro cura, alla loro arte.
Fermiamoci davanti al genio di Malak Mattar, per esempio, che ha appena dato alla luce un’opera magistrale, una Guernica di Gaza che farà storia, stavolta intitolata semplicemente “No Words”. E convinciamoci: cosa possiamo fare ancora se non unire tutte le forze possibili perché il nostro Paese non rinnovi accordi economici e militari con Israele? Altro che portarne la bandiera in manifestazioni improvvisamente equidistanti. Nessuna scelta ci resta se non lavorare incessantemente perché il nostro Governo ascolti un dissenso drastico, radicale, ultimativo. È adesso che bisogna guardare al futuro e credere, nonostante tutto, nella democrazia. Perché la democrazia è rispetto delle minoranze. Figuriamoci delle maggioranze che si ribellano e gridano fino a perdere la voce perché rifiutano di essere corresponsabili di un genocidio.
Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L’abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L’eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L’Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it
Riflessione ineccepibile. Sconcertante è l’incapacità di agire da parte del cosiddetto mondo civile. Si sta compiendo una barbarie davanti ai nostri occhi e noi ci voltiamo dall’altra parte. Anche questa volta tramanderemo che non sapevamo nulla? che senso di impotenza e di dolore di fronte a quei corpicini innocenti. Per fortuna ci sono ancora persone che, come lei, continuano a mostrare le dolorosa realtà contro il mainstream dominante