Kraftwerk

Una versione ridotta di questo pezzo è uscita sul dorso toscano del Corriere della Sera. Le note e l’ultima parte sono state aggiunte dopo il concerto.

 

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Lunedì prossimo i Kraftwerk saranno a Firenze1, al Teatro dell’Opera, per la loro unica data italiana. Si tratta di qualcosa di diverso dal classico concerto di vecchie glorie2 che tornano in scena per compiacere i fan dei tempi d’oro: per quanto la carriera del gruppo di Düsseldorf cominci nel 1970, con l’incontro di Ralf Hütter e Florian Schneider, allora studenti di conservatorio, e conosca il primo apice nel 1974, con l’uscita dell’album Autobahn, che segna il definitivo passaggio dal krautrock a quell’electro che loro stessi andavano inventando attraverso l’incrocio delle sperimentazioni elettroniche di Stockhausen con i ritmi della musica nera debitamente disumanizzati, la produzione dei Kraftwerk è ancora attuale, e non tanto per i piccoli aggiornamenti inseriti negli anni, quanto per la semplice ragione che i Kraftwerk sono i musicisti in attività più rilevanti al mondo. Si può infatti affermare senza grossa tema di smentita che tutto ciò che viene composto, prodotto, trasmesso, ballato e ascoltato oggi, al netto ovviamente di quanto deliberatamente rivendica radici in tradizioni preesistenti, viene in qualche modo dai Kraftwerk. Se ritrovare la loro influenza nell’elettronica sperimentale, nell’industrial o nella techno e sue varie filiazioni sarebbe fin troppo facile – fu del resto il leggendario dj di Detroit The Electrifying Mojo a cominciare a proporre a ciclo continuo Autobahn, trovato, pare, nel cestello dei remainder di un negozio di dischi, e a influenzare così una generazione di musicisti, tra cui quel Derrick May che fu poi, con Juan Atkins e Kevin Saunderson, padre della prima techno, genere che lui stesso definì ‘nient’altro che i Kraftwerk e George Clinton chiusi assieme in ascensore con un sequenziatore’ –, potrebbe invece stupire qualcuno lo scoprire che i Kraftwerk sono cruciali3 nella formazione della moderna R&B e del pop contemporaneo, in virtù delle basi ritmiche usate oggi da questi generi, e addirittura dell’hip-hop. Se già negli anni ’70 nei club underground newyorkesi si sentivano mixare il gelo dei Kraftwerk e il fuoco di Fela Kuti, fu nel 1981 che Afrika Bambaataa, ibridando le kraftwerkiane Trans-Europe Express e Numbers, creò Planet Rock, pezzo fondamentale per lo sviluppo dell’hip-hop nelle direzioni che conosciamo. kraftwerk_1_1342742363Quasi trentacinque anni dopo, sarebbe impossibile citare tutti gli artisti influenzati dal gruppo di Düsseldorf: oltre alla EDM presa in blocco, si va dai ‘direttamente influenzati’ come Depeche Mode, Ultravox, Pet Shop Boys, Soft Cell, Daft Punk, Moby, Björk…, a rocker più classici come Joy Division, David Bowie, REM o Coldplay, a rapper come Mos Def, Jurassic 5, Jay Z, Dr. Dre o Lil’ B, a star del pop come Madonna, fino addirittura al metal dei Rammstein4, ed è solo una parte assai ridotta dei nomi che si potrebbero fare. Anche spostandoci a un livello più sotterraneo, l’influenza dei Kraftwerk è decisiva: al di là dell’aver generato la techno, senza la quale non esisterebbero né tekno né trance, una buona parte dell’ideale e dell’estetica rave non è altro che l’industriale kraftwerkiano traghettato nel postindustriale, ed è noto che anche ai party sulle spiagge di Goa – l’altra metà del cielo della cultura rave – fu il passaggio dalle vecchie tracce psychedelic rock ai pezzi degli alieni venuti dalla Germania (non senza qualche resistenza da parte degli hippie più anziani) a gettare il primo seme di quella che sarebbe divenuta poi la psytrance5.

Se per disc-jockey, musicisti e una fetta non indifferente –  ancorché mai veramente ‘di massa’ – di pubblico fu subito chiaro il potenziale insito in Autobahn, la stampa di settore considerò il primo disco ‘maturo’ dei Kraftwerk uno scherzo, o al massimo una curiosità: il critico Keith Ging della rivista Melody Maker parlò di ‘roba senza spina dorsale e senza emozioni’, invitando tutti a ‘tener fuori i robot dalla musica’; l’inglese Barry Miles arrivò a scrivere, con un chiaro riferimento all’ultima guerra, che ‘una delle ragioni per cui i nostri padri hanno combattuto è salvarci da una simile musica’; John Mendelsohn di Rolling Stone parlava di ‘un macchinario complicato col sistema delle emissioni fuori controllo’, e ancora nel 1979 la guida ai dischi della stessa rivista li liquidava come ‘una stramberia musicale’. Start-1024-30-3D

Se ancora oggi, sebbene sia ormai più questione di gerontocrazia culturale che altro, c’è chi si esprime in termini analoghi circa la musica elettronica in generale, il posizionamento dei Kraftwerk al Teatro dell’Opera (o, se vogliamo, alla TATE Gallery di Londra, dove si sono recentemente esibiti) dovrebbe essere sufficiente di per sé a smontare tale opinione, ma ancor meglio sarà, per chiunque covi ancora simili pregiudizi, assistere allo spettacolo. Oggi quelle voci robotiche e quei loop non risulteranno più ‘freddi’ come un tempo, ma riverbereranno, anche per l’ascoltatore casuale, di tutto il loro carico di visione e malinconia: i Kraftwerk non hanno solo reso possibile gran parte della musica che ascoltiamo oggi, ma hanno anche anticipato il mondo a venire, in cui la ‘rimozione del corpo’ sarebbe divenuta fatto normale della quotidianità di ciascuno, destinati come siamo a vivere per porzioni sempre più lunghe del giorno fermi dietro uno schermo, e anzi attraverso di esso definire la nostra identità, esattamente come i quattro robot tedeschi durante la loro performance6. Performance rispetto alla quale le innovazioni, come lo spettacolo a base di proiezioni 3D che verrà proposto lunedì assieme alle canzoni, non sono che gradevoli fronzoli7, poiché la loro musica era così avanti quarant’anni fa da esserlo tuttora, anche mentre vi riverbera all’interno l’antico embrione di una realtà poi fattasi concreta. Si potranno allora organizzare le vittorie dei Kraftwerk su due livelli. Uno, più serio, riguarda la sopra descritta pervasività della loro influenza e la loro capacità di vedere e celebrare anzitempo il mondo a venire; l’altro, se vogliamo più ironico, ma con i Kraftwerk viene sempre il dubbio che non stiano mai scherzando8, l’essere riusciti a far indossare all’intero pubblico di un teatro d’opera degli occhialini 3D e averlo portato ad applaudire degli automi9.

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Note:

1 ”Lunedì scorso i Kraftwerk erano a Firenze…”

2 sebbene in comune col concerto di vecchie glorie ci sia l’applauso di intensità proporzionale alla riconoscibilità del pezzo che viene via via attaccato.

3 (almeno quanto Giorgio Moroder)

4 tutto questo senza contare gli innumerevoli casi di cover, remix, campionature, tributi, citazioni. Una lista parziale può essere trovata qui.

5 ascoltando peraltro i Kraftwerk in concerto, ovvero con un impianto di degna potenza, i bassi vanno a sovrastare il resto, e ci si rende conto (a suon di flashback) della quantità enorme di tracce, anzitutto psytrance, ma anche acid house, techno, tekno, drum’n’bass, dubstep, che utilizzano le loro basi ritmiche – accelerate, mischiate tra loro o anche prese come sono, a seconda dei casi.

6 e in effetti l’impressione, vedendo i Kraftwerk in azione davanti a un pubblico decisamente non underground, più che quella di vecchie glorie venute a raccogliere cascami degli antichi allori, è quella di profeti benedetti dalla rara possibilità di tornare a farsi dire ‘avevate ragione voi’.

7 3D che però, dopo mille utilizzi in fin dei conti futili al cinema, pare oggi inventato proprio per loro, e per la loro estetica a un tempo futuristica e retró: tecnologia nata vecchia, il 3D annoia applicato alle Banshee di Avatar almeno quanto esalta con i telefoni a tasti e i tralicci proiettati sullo sfondo dello show dei Kraftwerk.

8 scherzano, questi, quando esaltano con amore aperto e spassionato non solo il computer o l’autostrada, ma addirittura la calcolatrice tascabile e il neon (con immagini di insegne di hotel e farmacie che scorrono malinconiche sullo sfondo)? Probabilmente no: anche il loro modo di dire ‘siamo felici di essere qui’ consiste nel video di un disco volante che dopo essere entrato nell’orbita terrestre localizza la posizione della città e ‘atterra’ in una fotografia dello stesso Teatro dell’Opera.

9 Nel vero senso della parola: dei manichini automatizzati sostituiscono infatti il gruppo quando arriva il momento dell’esecuzione di The robots, idea che costituisce una sorta di anticipazione dell’interfaccia solo tecnologica costituita dal muro di altoparlanti dei free party, dove il dj in quanto star – e dunque in quanto corpo e carisma – è invisibile e in ultima istanza scarsamente rilevante.

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vanni.santoni@gmail.com

Vanni Santoni (1978), dopo l'esordio con Personaggi precari ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008, Laterza 2019), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), la saga di Terra ignota (Mondadori 2013-2017), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017, dozzina Premio Strega), I fratelli Michelangelo (Mondadori 2019), La verità su tutto (Mondadori 2022, Premio Viareggio selezione della giuria), Dilaga ovunque (Laterza 2023, Premio selezione Campiello). È fondatore del progetto SIC (In territorio nemico, minimum fax 2013); per minimum fax ha pubblicato anche Emma & Cleo (in L'età della febbre, 2015) e il saggio La scrittura non si insegna (2020). Scrive sul Corriere della Sera. Il suo ultimo romanzo è Il detective sonnambulo (Mondadori 2025).

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