
di Fabrizio De Palma
Il 29 agosto 1994 usciva il disco d’esordio degli Oasis, la cui formazione originale comprendeva oltre agli arcinoti fratelli Gallagher – Noel alla chitarra e Liam alla voce – il bassista Paul “Guigsy” McGuigan, l’altro chitarrista Paul “Bonehead” Arthurs e il batterista Tony McCarroll. Cinque ragazzi delle case popolari di Manchester che sognavano di diventare delle rockstar, proprio come nella loro fin troppo esplicita Rock ’n’ Roll Star, pezzo di apertura dell’album e brano fondamentale per capire dove affondano le radici della band e quali sono le basi del loro successo interplanetario. Un successo che sa di riscatto sociale, alla stessa stregua di quello cantato da Bruce Springsteen in Thunder Road – e in moltissimi altri brani – o di quello vissuto da molti artisti della scena hip-hop contemporanea. Rock ’n’ Roll Star non è solo il biglietto da visita del disco, ma anche la sua migliore rappresentazione concettuale, una fantasia di fuga dalle brutture di una città operaia in rovina, che non ha più nulla da offrire oltre al sussidio di disoccupazione e al grigiore delle fabbriche.
È impossibile comprendere il disco d’esordio della band senza tenere ben presente il contesto sociale da cui è scaturito: per far fronte alla crisi economica in cui era precipitato il Regno Unito negli anni ’70, il governo di Margaret Thatcher attuò per tutti gli anni ’80 un programma di destra radicale volto a smantellare il welfare: l’idea alla base era che esistesse un tasso di disoccupazione “naturale” e che il governo non avrebbe dovuto preoccuparsi troppo di questo gradino più basso della società. Manchester divenne così una città sempre più in declino e abbandonata a sé stessa, con un tasso di disoccupazione altissimo e una criminalità in forte aumento. Le lunghe code di padri e figli in fila per ricevere i soldi del sussidio di disoccupazione sono un ricordo ancora vivido nella memoria di Noel Gallagher – “Quella era l’era di Maggie Thatcher – tutti erano all’ ufficio sussidi con il proprio padre” – e costituiscono un’immagine desolante da scolpire bene nella mente mentre si ascoltano le canzoni del primo album degli Oasis.
La differenza tra queste e tutte le canzoni successive del gruppo – non solo quelle tremende pubblicate dal terzo in disco in poi, ma anche quelle stupende di (What’s The Story) Morning Glory? – è tutta qui: molte canzoni di Definitely Maybe furono scritte da Noel Gallagher in un magazzino della British Gas mentre si stava riprendendo da un infortunio in cantiere; tutte le altre sono state scritte in camere d’albergo di lusso o in tour bus extralarge da un neo-milionario in preda ai deliri di onnipotenza alimentati dall’abuso di droghe. Cogliere questa differenza oggi, direbbe il critico Alex Niven, autore di uno splendido saggio alla base di questo articolo, è come cogliere “un granello di polvere in uno stadio di calcio”, ma il punto è proprio questo – per citare la band – “vedere cose che gli altri non riescono a vedere”.
Nelle prime pagine del suo saggio, Niven individua due elementi caratterizzanti dell’album e più in generale della musica degli Oasis. Il primo è una sorta di ottimismo radicale, una specie di speranza eccessiva ed esagerata in un futuro migliore, che sfocia nella spavalderia di Rock ’n’ Roll Star:
In my mind my dreams are real
Now you concerned about the way I feel
Tonight I’m a rock ‘n’ roll star
Non dice “un giorno sarò”, dice “stasera sono”. Si tratta di un salto quantico d’immaginazione dagli scantinati alle stelle (I live my life for the stars that shine), un’iperbole a cui era difficile credere tra il ’91 e il ’93, quando il brano è stato scritto e concepito: gli Oasis erano ancora lontani anni luce dall’essere delle rock star e c’è chiaramente una differenza abissale tra il cantare e il dire di essere una rock star mentre si fanno le prove da soli in uno scantinato e farlo, qualche anno più tardi, davanti a folle oceaniche di duecento mila persone adoranti.
Che inizialmente si trattasse solo di una fantasia irrealizzabile lo dimostra banalmente anche il fatto che gli Oasis usino spesso, in questo e in altri brani come Shakermarker, la metafora dell’automobile: “I’ll take my car / and drive real far”. Nella mitologia dei fratelli Gallagher l’auto è un mezzo su cui fuggire via ad alta velocità, lasciandosi alle spalle le macerie della propria vita precedente, un fatto piuttosto ironico considerato che nessuno dei due fratelli Gallagher ha la patente. Ma è proprio questa la loro forza. In un famoso commento alla disperata situazione in cui vertevano le masse di giovani inglesi disoccupati, il noto segretario all’occupazione di Margaret Thatcher – Norman Tebbit – consigliava loro di “salire in biciletta” e pedalare finché non avessero trovato un lavoro. La risposta degli Oasis è ancora più esagerata: ci dite di salire in bicicletta e cercare lavoro, noi saliremo su un’auto e scopriremo i nostri sogni, ci dite di puntare in alto, noi raggiungeremo il cielo. Il fatto che poi ci siano anche riusciti per davvero all’epoca non era rilevante.
Questo slancio verso l’alto è parte del motivo per cui molte canzoni degli Oasis parlano del cielo, del sole, delle stelle, delle nuvole e della sensazione di volare nell’aria: si pensi ad esempio a Live Forever – maybe I just wanna fly, wanna live, don’t wanna die – a Champagne Supernova, oppure, per restare sul primo disco a Up in the Sky. La predilezione per le immagini astrali è sicuramente anche uno dei tanti debiti della band nei confronti dello stile lirico di John Lennon, nume tutelare di entrambi i fratelli Gallagher. Del resto, diceva Simone Weil ne La gravità e la grazia: “È la luce che cade continuamente dal cielo che, da sola, dà all’albero l’energia per inviare potenti radici in profondità nella terra. L’albero è davvero radicato nel cielo”.
Le canzoni di Definitely Maybe erano radicate nella terra dei quartieri popolari da cui provenivano e nell’ambizione di volare via – offrivano un forte messaggio di affermazione e speranza, formulato in un linguaggio chiaro e semplice: mentre la lunga era post-punk, culminata con il grunge all’inizio degli anni Novanta, aveva celebrato la negazione e fatto virtù dei motivi di morte e sconfitta, i testi degli Oasis parlavano di un desiderio di vivere con tutto il cuore e accennavano alla possibilità di ottenere una sorta di vittoria spettacolare, sgusciando via dall’incubo degli anni Ottanta. Noel Gallagher chiarirà questo punto, mettendosi in fiera opposizione con il nichilismo dei Nirvana: “[Cobain] aveva tutto, ed era infelice per questo. Noi non avevamo un cazzo di niente, e io pensavo ancora che alzarsi la mattina fosse la cosa più bella del mondo, perché non sapevi dove saresti finito la sera”.
Ma l’ottimismo sfrenato non sarebbe stato sufficiente a garantire da solo il successo di Definitely Maybe. Sarebbe stato, anzi, considerato fin troppo naif se non fosse stato controbilanciato da un secondo elemento che Niven definisce come una sorta di “malinconia oceanica” ereditata dagli altri numi tutelari della band, ovvero gli Smiths, non a caso sempre di Manchester. La maestria del songwriting dei primi Oasis sta proprio nella capacità di comunicare questa malinconia oceanica anche nei loro momenti più arroganti. Supersonic, pubblicato come primo singolo, ne è un esempio perfetto: la spavalderia nonsense del “sentirsi” per l’appunto “supersonici” è attenuata da una sorta di ossessione per la separazione, l’abbandono e la dislocazione dell’individuo. Il protagonista del ritornello è seduto in un angolo da solo e vive sotto una cascata (prendete e mettete da parte), nessuno riesce a vederlo, nessuno può sentirlo gridare.
Sits in a corner all alone
He lives under a waterfall
Nobody can see him
Nobody can ever hear him call
Questo elemento di “malinconia subacquea” è ancora più accentuato ed evidente nelle b-sides del gruppo che, come sanno bene i fan più accaniti, nel caso degli Oasis a volte sono persino meglio dei brani ufficiali finiti su disco e costituiscono un importante tassello da recuperare per ricostruire il mosaico completo della band. L’inserimento nelle varie edizioni deluxe dell’album di brani come Sad Song e Fade Away, non è un mero riempitivo per completisti come spesso accade in questi casi, ma un “must have” necessario per conoscere ed esplorare fino in fondo anche il dark side della band.
In generale, le canzoni degli Oasis proliferano di appelli all’evasione e alla partenza, ma c’è sempre la sensazione che questo comporti anche un tradimento e la perdita di qualcosa. Ripetutamente, si grida che le cose stanno scivolando via (Slide Away) o che le cose svaniscono (Fade Away), che qualcosa rischia di essere buttato via (la famosa “please don’t put your life in the hands, of a rock’n’roll band, who throw it all away”), che il tempo sta per scadere e che la tristezza sta per inghiottirci anche nei momenti di euforia e trionfo. Fade Away, una delle più famose e brillanti B-sides degli esordi, condensa questo tema in un bellissimo motto, il cui succo è che i nostri sogni sono in uno stato di decadenza quasi dal momento in cui nasciamo.
Dal lato opposto dello spettro dell’ottimismo radicale, quindi, le canzoni degli Oasis sono pervase da un senso di collasso e disastro imminente. Le immagini delle inondazioni abbondano: la pioggia si riversa, i lavandini si riempiono, il suono del mare soffia in sottofondo e gli individui vengono sepolti sotto grandi maree d’acqua. Le immagini acquatiche sono così tante che rischiano letteralmente di sommergerti. Forse si tratta di un’altra eredità delle loro origini di Manchester, nota per essere la città più piovosa del Regno Unito. Anche il nome della band in origine era The Rain (un probabile tributo alla b-side dei Beatles – Rain – pubblicata insieme a Paperback Writer nel 1966). Fatto sta che in molte canzoni dei primi Oasis si fa riferimento a fiumi, pioggia, navigazione, bevande, lavandini, tracimazioni, acquazzoni, nuvole di pioggia, cascate, paura di perdersi in mare e fantasie di fuggire verso la costa. Due esempi su tutti presenti in Definitely Maybe: la cascata in cui vive il protagonista di Supersonic citata poc’anzi e la dolorosa pioggia del mattino che ti entra fin dentro le ossa in Live Forever:
Lately, Did you ever feel the pain
In the morning rain
As it soaks you to the bone?
Per quanto riguarda le famose accuse di scarsa originalità o di veri e propri plagi musicali, Niven si limita a constatare che il collage guitar rock degli Oasis in realtà è molto più vicino all’omaggio intenzionale, o – al limite – al pastiche, qualcosa di assimilabile alla cultura del campionamento, che ha segnato l’epoca d’oro dell’hip-hop, genere con cui gli Oasis condividevano, almeno inizialmente, la voglia di riscatto e la scarsità dei mezzi (economici e culturali) a disposizione.
Definitely Maybe è dunque un disco magnifico e stratificato che, fin dal titolo, si regge su fragilissimi equilibri fra contrasti: la speranza, l’ottimismo e i sogni di gloria da una parte contro il disfacimento e il crollo degli stessi dall’altra, ma anche la spacconeria e la vulnerabilità, il rumore e la melodia, il furto e il talento.
L’obiettivo finale di questo insieme eterogeneo era per i fratelli Gallagher quello di “essere grandi”, un desiderio spesso scambiato per megolamania, anche per via dell’atteggiamento strafottente mostrato durante le interviste, in cui non facevano altro che ribadire questo concetto: “siamo la più grande rock band del mondo”, lo diranno ripetutamente, attirandosi le antipatie di mezzo mondo, ma non dobbiamo dimenticarci che a dirlo erano gli stessi ragazzi delle case popolari che urlavano di essere delle star del rock mentre suonavano in uno scantinato puzzolente. Dietro a questa spacconeria c’era il sogno utopico di volersi rivolgere davvero a tutti, a tutto il paese, a tutta la società, a tutto il mondo. Per Niven si trattava dell’estensione di una visione indiscutibilmente operaia, fondata, cioè sulla solidarietà e sulla fratellanza dell’esperienza vissuta della classe proletaria. A questo elemento il critico (ed ex musicista degli Everything Everything) aggancia il concetto di “sentimento oceanico” coniato da Sigmund Freud. Nel definire la “coscienza oceanica” nel 1929, il padre fondatore della psicologia moderna disse che era “una sensazione di qualcosa di illimitato, senza limiti… la sensazione di essere connessi con l’intero mondo al di fuori di sé”. Più precisamente ne Il disagio della civiltà Freud scrive:
Si trattava di un sentimento particolare di cui lui stesso non si era mai liberato, che aveva trovato confermato da molti altri e che supponeva fosse condiviso da milioni di persone, un sentimento che era propenso a chiamare “eternità”, un sentimento di qualcosa di illimitato, senza limiti, per così dire “oceanico”… È un sentimento… di essere indissolubilmente legato e appartenente a tutto il mondo al di fuori di sé stessi.
Niven sottolinea che quando gli Oasis sognavano questo sogno, vivevano sul campo, in un contesto in cui l’idealismo trovava espressione in un feroce bisogno di affermare la convinzione che la vita non è, in ultima analisi, una questione di sé e di evasione, ma di scoprire il paradiso nelle menti degli altri. Questa è la speranza nascosta nel granello di polvere dentro lo stadio di calcio, e questo particolare tipo di anelito collettivo è ciò che dobbiamo riscattare e recuperare ascoltando le struggenti canzoni popolari degli esordi degli Oasis.
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