di Maria Clara Restivo
Sono le 12:45 esatte quando arriva la comunicazione, l’ennesima. Da settembre saranno circa una trentina. Questo è l’orario che le segreterie preferiscono, sembra dire: per oggi l’abbiamo scampata, vediamo domani che succede. Prendo fiato.
In un Ted Talk di discreto successo, l’apneista francese Guillaume Néry spiega che l’immersione non è che quello che accade tra due inspirazioni. Lì in mezzo, però, ci si gioca la vita.
Per prima cosa occorre immagazzinare più aria possibile. A mano a mano che si scende in profondità il sangue si concentra attorno agli organi nobili: polmoni, cuore e cervello. È un meccanismo spontaneo, una tutela automatica. Dopo i trentacinque metri, però, i polmoni non fanno più da galleggiante, si attiva il fenomeno della caduta libera: il corpo si trasforma in un peso che sprofonda. Quando poi viene raggiunto il volume residuo, oltre il quale i polmoni non si possono più comprimere, le loro pareti si riempiono di sangue. Si chiama bloodshift e serve per evitare che la cassa toracica si schiacci. Del resto, la pressione è tredici volte quella esterna e la voglia di respirare inizia a bussare con urgenza.
Il rischio di perdersi è altissimo. La profondità, poi, talvolta produce una narcosi che confonde i pensieri al punto che si può arrivare a chiedersi se valga davvero la pena rischiare di smarrire se stessi e, in un certo senso, morire per questo.
Questa volta mi hanno convocato per una supplenza di sostegno, non so di preciso quale sia la classe, parliamo comunque di scuola secondaria di primo grado, per la mia generazione le medie. Sono molti a pensare che dal punto di vista educativo siano gli anni peggiori ed è soprattutto per questo che io credo siano i migliori, quelli in cui i giochi sono ancora aperti. Qualche tempo fa avrei detto che sono gli anni in cui si riesce ancora ad avvertire la speranza. Adesso faccio più fatica a pensarlo, ma tengo aperta una breccia.
Dunque è questo che faccio, la docente. Faccio e non sono, quello del professore è uno dei miei vestiti. Non il più comodo, anche se sembra che mi vesta bene. Più corretto sarebbe dire la supplente – se mi avessero davvero mai chiamato, senza dubbio sarei quello. Ora mi sento più una che si è stancata di aspettare e ha preso a camminare.
Mi chiamo Maria Clara Restivo, classe ’86.
Sono arrivata alla scuola tardi per un unico motivo: osteggiare mia madre e il suo miraggio del posto fisso. Il sogno di un’intera generazione di genitori, quella degli anni ’80 in cui c’era abbondanza di droga, hiv e lavoro. Mio padre mi racconta sempre che nel suo ufficio erano in venti a fare un lavoro per cui adesso sono in tre. Lo dice senza vergogna. Stupito, al massimo.
Sono arrivata alla scuola circa un anno fa, quando ho dovuto ammettere a me stessa che l’educazione mi appassionava e che ero brava.
Così nell’anno della pandemia mi sono rimessa a studiare, era maggio. Per entrare nella grande macchina dovevo recuperare alcuni crediti e sostenere gli esami abilitanti all’insegnamento.
Mi iscrivo a due università diverse, con la pubblica non c’è niente da fare: troppo tardi, troppe more, troppa la difficoltà di reperire i libri: l’ombra del lockdown si è appena ritirata, le biblioteche sono ancora chiuse. Dunque pago, studio e in tre mesi do ottantaquattro crediti formativi, dieci esami. Studio dalle sei del mattino fino alle otto di sera, in pausa pranzo vado al mare e supina ripeto le date delle battaglie di storia greca in ordine cronologico: prima c’è Maratona, poi Salamina e dopo Platea.
Mi mancano trentotto crediti, in realtà, ma io ne do ottantaquattro perché nel frattempo è cambiato il modo con cui si contano gli esami. Sono vecchia, questo è. Il 22 luglio sostengo gli ultimi orali. Entro il 6 agosto devo iscrivermi alle graduatorie e al concorso ordinario. Li passo tutti e li passo bene. Mi convinco che so ancora fare qualcosa: nel 2020 è cosa inattesa, soprattutto per un libero professionista.
Imparo che ci sono soltanto due modi per fare l’insegnante: essere precario e supplente per così tanti anni che il ministero agevola la tua assunzione (sempre facendo esami e tirocinio) oppure partecipando al concorso pubblico. Un po’ diverso è per coloro che vogliono insegnare alla primaria, perché per loro è stata studiata una facoltà apposita, sono pronti. Più pronti, anche a questo.
Il concorso è una cosa che succede, non si sa mai esattamente quando. L’ultimo è stato nel 2012 (nel mezzo altre chiamate alle armi, ma solo per sceltissimi gruppi di persone). Per questo motivo quest’anno ce ne saranno due, per favorire coloro che insegnano da più tempo.
La compilazione dei moduli online è un percorso accidentato. Se sbagli, sei fuori. Esistono dei tutorial su YouTube in cui insegnanti rodati si mettono a servizio e spiegano dove sono “i tranelli”, aggiornano sulle diciture e le sigle. Anche i sindacalisti lo sanno fare ma siamo in agosto, nell’anno del Covid.
Inserisco tutti i dati richiesti, biografia e titoli. Laurea triennale, laurea specialistica. Ho finito l’università nel maggio 2011 — il 5 maggio, come scordarlo. Da lì in poi ho fatto così tante cose che sul curriculum devo giocare di elisione e troncamento, altrimenti è troppa roba e nessuno lo legge. Eppure qui, su questa piattaforma pulita e piena di caselle, niente conta. Tutto quello che ho fatto fino ad ora non viene conteggiato: un master privato, esperienze di docenza, servizio civile nella scuola, stesura di antologie di italiano, non c’è la casella. Se non c’è la casella, allora non conta. Ma se allora non sono nemmeno quello che faccio, cosa sono?
Alla fine ho ventotto punti, gli stessi di un neolaureato infelice in posa per le foto accanto alla nonna e l’alloro in testa, pieno di stanchezza amara. A trentatré punti arrivano solo quelli con la lode, al tempo a me ne diedero ventotto e una beffa.
Dunque sono dentro. Si sale sulla giostra. Al concorso sono previste: una prova preselettiva, due scritti e un orale. Se concorri per due classi, fai questo per due volte. Se concorri per tre, triplica. Le prove sono nozioni, nozioni, nozioni. Vogliono sapere se so, dopo trecentottantaquattro crediti devo ancora dimostrarlo. Non c’è una prova in cui si giudichi la capacità di relazione, la propensione alla comunicazione, la qualità dell’ascolto, la facoltà di creare programmi efficaci. Se arrivi all’orale, forse, una domanda.
Le prove hanno data incerta, prima viene il sacrosanto concorso straordinario per chi è nella gabbia da più tempo, al ministero la cattività fa paura. Intanto inizia settembre come una di quelle locomotive pesanti, sporche e inquinanti. Ricomincia la scuola e la crisi delle supplenze.
In regione Lombardia, dove sono iscritta, si utilizza una piattaforma online che dopo i primi giorni si sente costretta a pubblicare un manifesto in cui si lava di dosso tutti i possibili ritardi e supplica gli insegnanti che la smettano di mandare mail. Questo l’ho capito: i docenti sanno cosa vuol dire insistere e non hanno paura di aspettare.
La piattaforma ha un sistema complesso e poi ogni regione usa la modalità che gli pare: a Torino, ad esempio, ci si raduna in un palazzetto o in una palestra e, come negli anni ’70, si chiamano le presenze e si segnano i risultati sui tabelloni. L’efficienza sembra una questione di punti di vista. Aspettare, dunque. Lo dicono tutti, sarà vero.
Il bene più prezioso in questa fase sono i già-insegnanti-amici. Perché non gli amici-e-basta? Perché chiunque non è nel mondo della scuola, non può — scusate, davvero, non è per scarsa fiducia: non è possibile – capire il delirante percorso che sta dietro a una nomina. Gli insegnanti non sono sempre desiderosi di aiutare il prossimo: dopo anni di fatiche e speranze bruciate non vedono altro che il posto che gli spetta, a ragione. E dunque perché prodigarsi per qualcuno che, sbagliando un qualsiasi passaggio, potrebbe liberarlo, quel posto?
I già-insegnanti-amici, invece, ti guardano con profonda tenerezza: forse si rivedono, forse hanno paura a dirti quello che i già-insegnanti-veri-amici mi hanno detto comunque, alla fine. Trova un piano B.
L’attesa del docente precario è faticosa perché non è vuota. Bisogna controllare giorno per giorno le graduatorie. Bisogna iscriversi a un sindacato. Bisogna inserirsi in qualche gruppo di docenti molesti e fissati con la giustizia sociale perché è un attimo che speri e l’attimo dopo hai perso tutto prima di averlo.
Le prime notti dormo male. Mi sveglio alle tre, alle quattro del mattino e controllo le graduatorie. Dalla finestra della cucina vedo sempre una luce accesa, nel palazzo di fronte. Mi chiedo che mestiere faccia, forse il fornaio, forse il netturbino. Per me conta non essere sola.
Non succede nulla. Per settimane. L’ansia dell’anticipazione (mi chiameranno? E quando? Devo cercare un altro lavoro? Avrò abbastanza punti?) si aggiunge alla paura di iniziare un mestiere nuovo, pieno di responsabilità e di procedure da sapere, lezioni da impostare, cose che ancora non vengono in automatico. Perché così succede, che il giorno prima sei a casa a sfornare biscotti di farro, senza uova, senza burro, senza latte ma con molte gocce di cioccolato per ingannare il tempo e la coscienza, e il giorno dopo ti trovi davanti una — o più — decine di adolescenti che sanno che tu sai. Perché il professore deve sapere, altrimenti che professore è. E i ragazzi sono una faccenda seria, io lo so. Insegno dal 2014, anche se al di là delle mura del ministero. La scuola per i ragazzi è una questione fondamentale, nel senso delle fondamenta. Parte tutto da lì, anche quando non parte.
Non c’è un modo meno violento e se esiste, non è qui: leggi il tuo nome in una lista fra migliaia — magari sono le due del pomeriggio, magari le nove di sera — e il giorno successivo alle otto del mattino devi essere in classe. O così o va qualcun altro e tu perdi un anno. La tua vita è la coda appesa al calcinculo, diventa un premio nel momento in cui qualcuno la afferra e il turno finisce. Prima è solo una pezza.
I già-insegnanti-veri-amici parlano sempre di scuola. Sono come quei palazzi liberty anneriti dal gas di scarico che ho imparato a conoscere nei miei nove anni da torinese, restano belli perché la bellezza è al loro interno, ma qualcosa ti fa dire: forse non ci vivrei. A parlare con loro ti accorgi che la fatica del sistema non è una questione soggettiva ma un problema conclamato di cui però nessuno osa far parola perché è così difficile da spiegare che ci vorrebbe davvero l’ascolto. Ti accorgi anche che le difficoltà non diminuiscono col passare del tempo o con il contratto indeterminato, ché la scuola assomiglia sempre così tanto a se stessa. Il tempo che passano a spiegare le proprie materie non è minimamente equiparabile a quello regalato per le riunioni extra, a cercare un vocabolario arabo-italiano che vada bene anche per la ragazzina egiziana appena arrivata o a contattare l’associazione che possa fornire degli occhiali allo studente del terzo banco, che deve alzarsi col quaderno in mano per copiare la lavagna, perché la famiglia non glieli può prendere, non quest’anno. In loro c’è una devozione necessaria e la certezza che ne vale la pena, poi, alla fine, forse.
E allora dopo, molto dopo, mentre aspetto, inizio a chiedermi se faccia per me. Non mi sento in difetto: per tutti la domanda arriva tardi perché prima non si ha la minima idea di cosa voglia dire fare l’insegnante. Prima del giorno in cui varchi la soglia di quella classe, nessuno si premura di valutare che quello sia il posto per te. Mentre trattieni il fiato, puoi solo immaginarti lì, qualunque sia il motivo per cui hai deciso di farlo.
Ed è a questo punto che mi torna in mente il Ted Talk di Guillaume Néry. È lì che mi trovo, in immersione: molto lontana dalle cose che conosco, in un ambiente dove vigono altre regole. Dalla mia parte ho solo il respiro che, in fondo, è l’unica cosa che conta.
Quando si risale dall’immersione la superficie è inospitale, i sensi sono in subbuglio, l’aria brucia la faccia, i sussurri echeggiano forti. Ma i polmoni tornano a riempirsi, a espandersi: troveranno di nuovo il loro ritmo, rimarrà impresso in loro il ricordo fisico della fatica e la possibilità di rifarlo ancora.
Per molti, per coloro che non immergeranno mai la testa sott’acqua, non sarà che un lungo respiro.
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Maria Clara Restivo è nata nel 1986, a Palermo, ma è cresciuta in Emilia. Dopo l’Università di Scienze dello Spettacolo a Milano, ha frequentato il biennio della vecchia Scuola Holden. Insegna scrittura e narrazione su e giù per l’Italia, soprattutto ai più piccoli. Ha una passione scellerata per le etimologie. Il suo primo libro, La strada da fare, è edito da Neo Edizioni.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

“Dieci esami in tre mesi”. E questo sarebbe il presupposto intellettuale per sentirsi in diritto di formare le nuove generazioni?
Caro Antonio Agostino, ma di tutto questo scritto a te è rimasto “i 10 esami in 3 mesi”? Allora il problema è tuo perché le capacità di questa persona sono lampanti ad ogni riga. O forse il problema è dell’istituzione scuola, che ha formato menti in grado di giudicare solo in base alla scala meritocratica del voto e dell’esame dato. Qualsiasi ragazzo capiti in classe sua sarà fortunato!
Anche io, classe ’92, dopo un master in sceneggiatura ed esperienze non riconosciute a livello di graduatoria nel mondo dell’educazione, ho preso lo scorso anno la mia prima, vera cattedra da precario.
Anche io continuo a chiedermi se tutto questo faccia per me e mi hai fatto sentire ancora meno in difetto, sapendo che non sono il solo. Grazie Maria Clara, grazie minima&moralia!
@francesca iovine Devo avere veramente un problema, grazie, se nell’Italia di oggi si urla alla “scala meritocratica del voto e dell’esame dato” di fronte all’ovvia constatazione che la cultura si forma in anni e anni di letture: possibilmente letture difficili, e scelte in sempre maggiore autonomia nel corso dei cosiddetti studi. Altro che crediti ministeriali. Il perché lo enuncia l’autrice stessa: “ti trovi davanti una — o più — decine di adolescenti che sanno che tu sai. Perché il professore deve sapere, altrimenti che professore è. E i ragazzi sono una faccenda seria”. Su questo concordo. I ragazzi sono una faccenda maledettamente seria, perché hanno il diritto di essere accompagnati nel mondo della cultura da qualcuno che ci sia già stato.
@francesco Lei è molto giovane, il sottoscritto assai meno (1968). Accetti prego un consiglio da chi ha avuto un po’ più di tempo per guardarsi attorno e farsi un’idea. Possedere un master di sceneggiatore, oggi, è l’equivalente di possedere un master di tribuno militare ai tempi di Cesare. Difficile negare, infatti, che nell’occidente contemporaneo chi lavora in ambito fiction, specialmente serie tv, entra a far parte della ristretta élite che controlla in modo abbastanza diretto il pensiero, gli orientamenti e l’immaginazione delle moltitudini. Fossi in Lei approfitterei della congiuntura storica. Dunque fiction, non parole. E non sto affatto scherzando.
La scuola non può continuare ad essere un ammortizzatore sociale per chi , come l autrice, ha scelto scienze dello spettacolo e per 10 anni ha provato a fare altro. Le lauree abilitanti credo siano l unica strada. Purtroppo è davvero pieno di docenti che palesemente vogliono fare altro e per cui i ragazzi sono l ultima spiaggia. Non mi ha convinta questo articolo.
Articolo scritto benissimo,da persona professionalizzata per la “narrazione”,vera fissazione “formale” del ceto intello’ 2.0 che ambisce alla nuova pedagogìa progressista.Ma mi chiedo se Pasolini,Sciascia o Gaber fossero piu’ preoccupati della forma dei loro scritti (comunque alta sia che fosse l’analisi marxiana di Pasolini o quella scarnificante di Sciascia) o dei contenuti che esprimevano nella puntuale critica sociale,in cui lo sguardo era rivolto sulla societa’ e non su SE’ STESSI e le conseguenze deelle proprie scelte.Qui tutto parla di “se’ stessa” ed è giusto riconoscere l’onesta’ intellettuale di esprimere il disagio in pubblico ma è un “disagio personale”…ma delle conseguenze umane,sociali e culturali di una evidente “scelta di ripiego” (perche’ bisogna pur mangiare…) che si scaricheranno su quegli “alunni” non leggo traccia.
Per chi sognava il “mondo dello spettacolo” (sindrome comune a tutte le accademie dal DAMS in giu’ che sfornano centinaia di laureati all’anno nel settore e poi si ritrovano con sbocchi lavorativi vicini allo zero e una frustrazione che li accompagna ogni giorno) è un articolo che fa male…ma un genitore chi affida i propri ragazzi sperando che imparino,maturino,crescano nella Scuola Pubblica,cosa dovrebbe pensare di questa disarmante “confessione” ?
@alberto Direi perfetto.
Il sostegno non può essere affidato a persone improvvisate, davvero è troppo importante . Per il resto articolo scritto benissimo. Spero aprano una graduatoria solo per specialisti, laureati nelle materie socio psico e pedagogiche. Infine con una laurea in scienze dello spettacolo e tanti anni passati a fare altro è abbastanza comprensibile che abbia avuto difficoltà ad inserirsi nelle graduatorie.
A leggere i commenti di alcuni pare che fare l’insegnante, più che un lavoro, debba necessariamente essere una specie di vocazione!
L’autrice esprime le sue perplessità in merito alle difficoltà di accedere a un sistema, e di orientamento all’interno dello stesso. C’è davvero un insegnante che può affermare che non esistono difficoltà di orientamento all’interno del sistema in cui lavoriamo? Che il percorso sia chiaro, come in ogni altra professione? Che le regole non cambino continuamente? Che i concorsi-straordinari-sanatoria siano al servizio di un reclutamento di insegnanti formati e non un modo per evitare che i contratti scadano e sia necessario intervenire per tempo? Che esista una seria formazione in entrata come ai tempi della SSIS e che TFA e FIT non siano stati la solita promessa non mantenuta? Credo che sia questo il punto senza scomodare, Gaber o Pasolini, scienze dello spettacolo o ammortizzatori sociali. Una persona può scegliere di diventare insegnante tardi se ritiene che sia una professione che le interessa. A mio avviso non esistono professioni-vocazione, tantomeno se siamo dipendenti dello stato; in questo pezzo mi sembra si esprima una fatica a stare dietro a un sistema folle. Non è corretto attaccare verbalmente qualcuno per ciò che ha studiato, fatto in questi anni, è irrispettoso, scorretto e sinceramente, leggerlo, è avvilente.
Se uno si laurea in Scienze dello Spettacolo, per 10 anni lavora in altri ambiti, poi decide di fare l’insegnante non stupisce che abbia problemi ad inserirsi in graduatoria.. non è questione di vocazione ma preparazione alla professione, fare l’insegnante non dovrebbe essere un ripiego (sorvolo sui 10 esami in 3 mesi perché solo in Italia possono accedere simili pagliacciate)
Ma magari da questi ambiti qualcosa può essere utile alla scuola, e qualcos’altro mancherà e necessiterà formazione. Magari in questi ambiti ha fatto formazione ad altri. Magari ha allenato una squadra, o guidato un gruppo scout o ha altre competenze educative. Non possiamo giudicare questa persona perché è laureata in scienze dello spettacolo se non sappiamo quali sono le sue esperienze altre, quelle che ci definiscono come persone e che non si esauriscono nella facoltà prescelta. E non mi sembra che per lei sia un ripiego, non lo dice nell’articolo. Se in Italia puoi fare 10 esami in 3 mesi nelle università online pagando non è colpa dell’autrice, e il sistema che si è venduto.
@Andrea: le simili pagliacciate di 10 esami in 3 mesi accadono nei migliori programmi universitari del mondo, dove ci sono almeno 4 sessioni di esami che iniziano la settimana successiva del termine delle lezioni e dove agli studenti non viene data la possibilità di rifiutare il voto o di rimandare l’esame tanto di appelli ce ne sono sei all’anno.
Ho letto con passione questo articolo e con sconforto la maggior parte di questi commenti. Chi state difendendo esattamente? Quale sarebbe il problema di Scienze dello Spettacolo e di aver lavorato per 10 anni in ambiti paralleli all’istruzione? (vorrei sottolineare che due rette parallele hanno in comune la direzione) Come possiamo decidere chi sia più o meno meritevoli di insegnare sulla base di CV standardizzati che, come tali, possono tranquillamente da una semplice routine di data mining (che si può apprendere con qualsiasi tipo di background in un mese al massimo)? Perché trovate sufficienti le parole “scienze dello spettacolo” e “dopo 10 anni” per decidere che l’autrice non è sicuramente in grado di essere un’insegnante eccellente?
Concordo pienamente con Andrea,Alberto e Ludovica Barbetta.
Spiace tantissimo vedere la Scuola come territorio attraversato da persone frustrate ,pronte alla lamentela continua.
Ho insegnato con Amore,Rispetto , Gioia per 42anni e 10 mesi.
E penso che l ‘esperienza del docente non possa prescindere dalla Passionalita’ altruistica.
Ringrazio @Antonio Agostino per il consiglio, ne farò tesoro.
A chi dice che fare l’insegnante non dovrebbe essere un ripiego rispondo che non dovrebbe essere nemmeno, per tutti e per forza, una “vocazione”: a me piace comunque il mio lavoro, anche se qualche anno fa avrei avuto difficoltà a immaginarmi in queste vesti – onestamente, non mi sono ancora abituato all’appellativo di “professore”. Sia a scuola sia nella scrittura metto tutta la mia passione, la dedizione e la competenza. Sono felice del fatto che, al momento, un’attività non esclude l’altra, anzi: le abilità nello storytelling e la conoscenza dei nuovi media mi aiutano a vivacizzare lo svolgimento delle lezioni.
A mio avviso, ciò di cui la scuola ha bisogno sono proprio persone appassionate e che abbiano fatto tante esperienze là fuori. Se gli alunni guardano gli insegnanti come delle bomboniere da mensola è proprio perché la gran parte di noi (specie quelli delle generazioni precedenti) sono usciti dal banco universitario e rientrati a scuola dietro una cattedra senza mai vedere il mondo. E si limitano a propinare agli alunni le verità improbabili di un libro. Chi ha invece fatto altre esperienze possiede una ricchezza che nessuna laurea abilitante potrà mai neanche far immaginare.
La laurea abilitante serve più che altro a ingessare la classe insegnante, farà questo mestiere solo chi a 18-19 anni avrà la lucidità di scegliere la facoltà giusta per poter poi insegnare, praticamente chi avrà una famiglia alle spalle in grado di scegliere per lui. È vero, sì, che molti scelgono questo mestiere come ripiego. Ma anzitutto non è certo una colpa se il Paese non ti dà altra scelta, e poi chi lo dice che fatta questa nuova esperienza uno non si accorga di avere tanta passione? Magari più di chi lo fa da quando aveva 25 anni, perché i suoi genitori lo erano a loro volta, come i nonni…
Primo tema: “la laurea abilitante serve a ingessare la classe docente”. Certo così chiunque può fare qualsiasi cosa. Questa è la mentalità di chi non sa fare una scelta perché vuole tenere il piede in tremila scarpe: lavorare nello spettacolo, scrivere scenografie, fare radio, tentare la carriera di scrittore, fare il giornalista e l’organizzatore di eventi mentre fa l’insegnante. Il lavoro di insegnante è un lavoro full time, per chi lo fa bene. Questo sfugge a tanti docenti. Secondo tema: Dalla mia esperienza di insegnamento ho visto parrucchiere che per 30 anni hanno avuto un negozio poi rispolverare il diploma magistrale e a 50 anni scoprirsi insegnanti della scuola primaria. Ho visto docenti di sostegno senza nessuna preparazione gestire casi gravi e far perdere tempo a ragazzi che poi duramente hanno dovuto recuperare quando hanno trovato un docente competente. Il problema di questo articolo è che autoreferenziale, così come lo sono i commenti delle amiche dell’autrice. Non c’è da prenderla sul personale perché nessuno sta parlando dell’autrice ma di un problema grande che va gestito.
Leggendo i commenti di questo articolo emerge una tifoseria tra sostenitori di docenti che hanno fatto giri di walzer prima di giungere all’insegnamento (come l’autrice) e sostenitori di docenti con percorso ordinario che hanno studiato per fare il mestiere e hanno dedicato la vita ai ragazzi. A me non interessa il percorso di una persona, io penso che in entrambi i casi sia necessario valutare sia le competenze sia il percorso di preparazione serio alla professione: uno studente si merita una persona preparata sulla materia a 360° e questo non può avvenire se non facendo un percorso di studio completo. Certo, fare teatro, scrivere libri e scenografie, organizzare eventi, fare la guida al Museo della Scienza, fare volontariato a khayelitsha, il contadino nelle terre della mafia, scrivere giochi.. sono attività meravigliose, ma non bastano per essere un buon insegnante. La passione non basta con i ragazzi, ci vuole uno studio serio e costante, non esami fuffa. Vedo nelle scuole parentali mamme che si improvvisano a fare le insegnanti di tutte le materie asserendo di avere passione e competenze diverse, qualsiasi cosa voglia dire; io sono convinta che non basti. Sul sostegno ho un’opinione a parte perché lo ritengo un ambito troppo delicato: le disabilità hanno bisogno di preparazione specifica, non si può dare l’incarico ad una persona senza esperienza, ma questo è un problema del sistema. In sintesi penso manchino sistemi di valutazione dell’operato dei docenti, molti sono spaventati quando viene paventata questa ipotesi ma è giusto e doveroso nei confronti degli studenti (visto che anche loro vengono valutati): in un ambito di lavoro in cui la gente si mette in fila, la valutazione potrebbe essere uno dei modi per far emergere la meritocrazia e impedire a docenti non preparati di insegnare.
Di tutta questa diatriba leggendo l articolo il mio pensiero va al sostegno e alla carenza di insegnanti specializzati per le disabilità. Non è questione che un docente laureato in lettere o scienze dello spettacolo o matematica possa insegnare sostegno, ma che lo faccia senza aver avuto una formazione specifica per approcciarsi a casi così delicati. Mentre esistono pei leggeri, altri tipo autismo, sindrome down e malattie cognitive gravi non possono essere affidate a chiunque. Questo credo sia il punto su cui riflettere, al di là di qualsiasi giudizio sulla simpatia, potenziale o qualità umana del docente che ben venga se ha fatto tante esperienze.
Gentile Andrea, non ha invece mai visto insegnanti che fanno gli insegnanti da una vita, dopo corsi, concorsi, abilitazioni… e che non hanno mai imparato a fare gli insegnanti? Strano. Eppure hanno scelto di fare questo lavoro con convinzione in tenera età. Potremmo continuare la querelle all’infinito se avessimo tempo – e per fortuna non lo abbiamo -, ma stiamo parlando del nulla perché, almeno secondo il mio avviso, si giudicano le persone non i titoli. Inoltre io non ho mai detto che si debbano fare più lavori insieme, infatti è vero che questo è un mestiere che ti assorbe completamente. Ho semplicemente detto evviva chi a un certo punto, per qualsiasi ragione, decide di provare a insegnare e si mette seriamente a imparare, studiare, etc. Seriamente, ripeto. Io l’ho fatto sei anni fa e sto ancora studiando per imparare nonostante la specializzazione universitaria. Chi lo fa solo per lo stipendio non rientra nei miei discorsi. Anche perché tra gli insegnanti titolati, abilitati, specializzati e che si sono dedicati a questo fin da subito c’è una pletora di gente che lo fa solo ed esclusivamente aspettando il 23 del mese. E spesso lo fa male. So che gli outsider sono sempre guardati con sospetto, e che è più semplice leggere quattro righe di titoli piuttosto che osservare quotidianamente un insegnante al lavoro, ma la pratica è l’unico modo esistente per valutarlo davvero. Sempre che lo si voglia fare.
@Giuseppina Campo veramente Macbeth dice “Pietà, Rispetto, Amore”, e comunque solo quando è spacciato. Quello di Verdi, naturalmente (atto 4, scena 5).
mah…la mia esperienza è diversa, entrare nel mondo dell’insegnamento è stato un percorso tutto in discesa, dalle prime supplenze alle cattedre annuali di oggi, mai dovuto fare concorsi o sis o tirocini formativi attivi, sempre avuto vasta scelta su posti vacanti che non aspettavano altro che essere coperti, tanto che andarmene sbattendo la porta dal mondo dell’industria privata per approdare quasi per gioco a quello della scuola a 45 anni suonati è stata la cosa più semplice mai fatta in vita mia. Ah dimenticavo, la mia laurea è in Matematica non in Scienze dello Spettacolo. Forse è questo il dettaglio che fa la differenza.
@fabrizio mi sa che la batto. Primo, perché sono entrato nel mondo della scuola a 46 anni suonati e non 45, secondo perché la parte più facile è stata superare il concorso, non saltarlo. Ah dimenticavo, la mia laurea è in Lettere non in Matematica. Forse è questo il dettaglio che fa la differenza.