Foto di Masiar Pasquali
Con “La valigia dell’autore” proviamo a creare un racconto e una mappatura della scrittura per il teatro in italia. Drammaturghe e drammaturghi italiani di questo primo quarto di XXI secolo si raccontano, riflettendo attorno al metodo, agli incontri essenziali, all’immaginario che hanno plasmato sul palcoscenico (G.G.).
Puntata n°4 – Sedici domande a Davide Carnevali, collaboratore del Piccolo Teatro di Milano che ha diviso la sua attività di scrittore per il teatro, oltre che in Italia, tra Barcellona e Berlino. Autore di testi tradotti e prodotti in Germania, Francia e altri paesi, esplora una scrittura a cavallo tra la tradizione tedesca e quella ispanica. Ha pubblicato per Einaudi “Variazioni sul modello di Kraepelin” e “Ritratto dell’artista da morto”.
Dove nasce la prima scintilla della tua scrittura teatrale, l’idea di partenza e l’incipit: in sala o alla scrivania?
L’idea di partenza non è mai un’idea: sono impressioni, appunti, intuizioni – spesso sbagliate – che si riformulano di continuo. Di solito si fissano prima su un taccuino e poi prendono forma alla scrivania. Sono originate da un’esigenza intima di espressione, dubbi personali, ma anche dal confronto, dal dialogo con le persone interessanti che mi circondano. Capita che nascano in sala, ma non tanto quando siamo al lavoro: piuttosto quando sono seduto in platea come spettatore. Prendo molti appunti quando sono a teatro; molte idee sorgono da quello che vedo, dalle soluzioni sceniche che mi interessano o da quelle che non mi convincono – idee che prendono forma come alternativa alle idee di altri: è l’eredità del lavoro da critico, da teorico. In generale, comunque, lo spunto iniziale nasce sempre in ascolto di ciò che accade fuori dalla sala, come risposta alle questioni inerenti alle condizioni sociali, economiche e politiche attuali. A partire dalla domanda: a cosa potrebbe servire quello che voglio scrivere, per questi tempi, per questa società?
Come funziona la parte di scrittura in solitaria? Dove scrivi? Quante ore al giorno? Hai una routine?
La scrittura in solitaria funziona sempre in modo misterioso per me. Non ho una routine, non so dedicare un numero specifico di ore giornaliere a un’attività come la scrittura. Per molti anni ho scritto soprattutto di notte, e ancora adesso capita che durante la redazione finale di un testo saltino tutti gli orari. È fondamentale che saltino, significa che si sta producendo una rottura con il quotidiano, con il tempo del quotidiano: in fondo la creazione implica sempre un tempo “altro”, riflesso di uno stato di alterazione. Non c’è nulla di magico; al contrario, è piuttosto una de-mistificazione, una liberazione, un ritorno a un sentimento del tempo non adulterato dalla performatività cui siamo obbligati e obbligate nella vita di tutti i giorni. Così, anche la scrivania, che è il luogo più legato all’impegno giornaliero, diventa qualcos’altro: di solito è ordinata, mentre quando sono in una fase intensa di scrittura, tutto si accumula. Quel caos controbilancia la chiarezza estrema che si fa in testa quando un’opera ha trovato la sua pienezza; quando, cioè, il contenuto ha trovato la sua forma di espressione più adeguata. Quando questo accade, la scrittura diventa un gioco; per questo non può essere routinaria.
Come funziona la revisione dei tuoi testi? Sono influenzati dal lavoro in sala? Riscrivi scene che vengono provate?
Negli ultimi anni, da quando metto in scena le cose che scrivo e scrivo per mettere in scena, i testi restano sempre aperti al lavoro in sala. Il fatto di collaborare spesso con le stesse attrici e attori ha permesso che si creasse un ambiente ideale per la messa in prova di quello che ho scritto. Daniele Cavone Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manea, Giulia Trivero, sono sempre in qualche modo co-autrici e co-autori delle cose che ho scritto prima a ERT, e ora al Piccolo. Io arrivo con una prima versione e in prova scopriamo insieme cosa è essenziale e cosa è superfluo, cosa funziona e cosa no; e soprattutto cosa si adatta meglio a loro, cosa hanno più voglia di fare in scena. Il testo è pre-scritto, ma non è pre-scrittivo: riscrivo e riproviamo, e così fino all’ultimo giorno; in realtà sono loro che poi lo aprono e chiudono, di volta in volta, a ogni replica. Lo stesso è accaduto quando ho scritto per Fabrizio Martorelli, che mi ha insegnato molto del mondo interiore dell’attore.
E poi ovviamente con Ritratto dell’artista da morto, il cui testo si modifica a ogni versione per adattarsi alla biografia di chi lo interpreta: Daniele Pintaudi, Michele Riondino, Sergi Torrecilla o Marcial Di Fonzo Bo. Le mie parole devono diventare le loro; d’altraparte, perché dovrei costringere un attore a fingere di essere un’entità che non esiste? Per me è molto più interessante che non sia l’attore ad aderire al personaggio, ma il personaggio all’attore. In questo tipo di operazioni è evidente che non c’è più distinzione tra la mia funzione di autore, quella di Dramaturg e quella di regista. Dopotutto, la scrittura alla scrivania è solo letteratura; la drammaturgia deve preparare al fatto teatrale, favorire le condizioni in cui questo fatto si verifica. Così, per me, la regia è ora semplicemente una forma di drammaturgia, che si serve di un testo per preparare all’incontro con il pubblico. L’orizzonte è sempre l’esperienza dello spettatore / spettatrice: il testo si chiude lì, eventualmente. Ma è meglio se non si chiude affatto, in fin dei conti; che spettatori e spettatrici se lo portino via e lo mantengano aperto nella loro interpretazione, commentandolo, riflettendoci su, sentendolo loro.
Carta o computer? Che differenza c’è per te? Il mezzo influenza la scrittura?
Carta per gli appunti, computer per la redazione del testo. Ho bisogno di cancellare e riscrivere, spostare pezzi, cercare frasi e replicarle, distribuire parole e segni in luoghi diversi del testo. Non scrivo in modo lineare, è tutto un lavoro di montaggio. Con il computer è più semplice.
Hai dei rituali per la tua scrittura? Scaramanzie?
Ogni tanto muoio. Poi, però, sono sempre tornato in vita.
Qual è il testo teatrale che nella tua carriera ha rappresentato il momento di svolta? E perché?
Sicuramente Variazioni sul modello di Kraepelin. Prima avevo scritto solo qualche adattamento, e un testo – Saccarina – che era stato finalista al Tondelli, ma che era troppo autoreferenziale. Kraepelin l’ho scritto appena arrivato a Berlino; avevo 27 anni ed era un periodo strano, estremamente difficile, ma anche estremamente interessante. Una città nuova, una lingua nuova, una tesi di dottorato da preparare, una relazione finita, mio nonno malato… tutto questo è entrato nel testo. Volevo scrivere qualcosa sull’Alzheimer e non ci riuscivo, nulla mi sembrava veramente adatto. Poi ho capito che non dovevo scrivere qualcosa sulla malattia, ma come la malattia; dovevo scrivere un testo che riflettesse nella forma ciò che presentava come contenuto. E la cosa più paradossale è che quel contenuto era la crisi stessa della forma, della forma logica, della concezione razionale dello spazio e del tempo e dell’identità, che si verificano con la malattia. Nel momento in cui l’ho capito, scrivere il testo è stato semplice. Sei mesi di tentativi falliti e poi, nel giro di qualche giorno, tutto funzionava. L’ho finito il 29 novembre, il 30 scadeva il termine per inviarlo allo Stückemarkt del Theatertreffen – che era il concorso di drammaturgia più importante in Germania. Sono andato a farlo stampare e l’ho portato personalmente, in bici, al Berliner Festspiele, perché non c’era più tempo. Poi l’opera è stata selezionata, tradotta, presentata in forma di lettura al Theatertreffen 2009 e ha vinto uno dei premi. Da lì è iniziata la carriera di autore: traduzioni del Kraepelin in altre lingue, traduzione in tedesco dei testi seguenti, l’adattamento per la Deutschlandradio Kultur, la pubblicazione in Francia con Actes Sud, l’invito a Buenos Aires – che è stata a sua volta la scusa per trasferirmi lì. Fino alla prima pubblicazione con Einaudi, dieci anni dopo. Mi parla ancora, perché è un testo che apre molte questioni teoriche, ma allo stesso tempo è molto umano, toccante. Ed è profondamente teatrale.
Anche Ritratto dell’artista da morto rappresenta un punto di svolta, perché è stata, nel 2018, la mia prima regia all’interno di un grande teatro pubblico, la Staatsoper Unter den Linden di Berlino; e poi, ciunque anni dopo, con la versione italiana, al Piccolo Teatro di Milano. La versione francese sarà in tournée nel 2025/26 per la terza stagione consecutiva. Mi ha dato una dimensione internazionale anche come regista.
A quale dei tuoi testi sei più affezionato? E perché?
Anche Sweet Home Europa nasce come tentativo di soluzione a una questione teorica: capire se fosse possibile dividere un in-dividuo, cioè creare un personaggio che fosse allo stesso tempo una singolarità e una molteplicità di personaggi; con una storia che fosse allo stesso tempo lineare e astratta, particolare e universale. Il mio agente tedesco mi aveva detto che un titolo come Variazioni sul modello di Kraepelin era troppo difficile da vendere; Sweet Home Europa invece attirava maggiormente l’attenzione e parlava al pubblico in modo più immediato, e infatti debuttò subito al Schauspielhaus di Bochum e poi in altri teatri tedeschi. Lo avevo pensato come un dittico, ma la seconda parte ci ho messo sei anni a finirla. È stata un’altra crisi profonda, anche quella risolta in pochi giorni, buttando via il lavoro di anni e riscrivendo di getto, trattenendo solo lo stretto necessario, liberato dal resto, che era diventato un peso. Anche per questo Goodbye Europa. Lost Words è forse il mio testo preferito. È tremendo, terribile, apocalittico, ma allo stesso tempo è anche molto comico. E poi è sconosciuto in Italia, è stato fatto solo all’estero.
La Confessione di un ex presidente che ha portato il suo paese sull’orlo di una crisi è nato a Buenos Aires, è fluito fuori in modo semplice; ci sono affezionato perché mi ricorda il periodo passato lì, anche se continua a essere molto attuale.
Anche Ritratto di donna araba che guarda il mare ha avuto una genesi placida: volevo scrivere alla maniera di Koltès, affidando tutto al linguaggio, alle parole, al ritmo. Nasce da tre scene scritte a partire da tre esperienze vissute durante un viaggio in Marocco; qualche mese dopo le ho riprese, messe a posto e integrate con altre scene: il testo è terminato in un paio di settimane. Era più semplice, più accessibile dei precedenti, e ha vinto il Premio Riccione.
Tra i testi che ho anche diretto, è stato interessante scrivere il Lorca sogna Shakespeare in una notte di mezza estate, perché segna un’evoluzione nel mio lavoro con attori e attrici e nella mia ricerca sulle forme di teatro partecipato; tutto questo all’interno di un grande teatro pubblico com’è ERT. Coinvolgevamo una decina di spettatori e spettatrici, che dovevano recitare la scena del balcone di Romeo e Giulietta e la scena dei comici del Sogno di una notte di mezza estate; chi sapeva suonare, poteva alzarsi e venire a suonare; altri potevano prendersi una birra da un frigorifero che avevamo sistemato sul palco e guardare lo spettacolo da lì, fumando liberamente. Lo spettacolo iniziava con Michele Dell’Utri che serviva vodka al pubblico, mentre nella Sala Salmon suonava musica a tutto volume. Maria Vittoria Scarlattei entrava come cameriera e diventava Puck, Simone Francia suonava il basso e faceva recitare il pubblico… Scrivere tutto quel caos in forma di testo è stata un’esperienza unica.
Tra quelli che ho fatto al Piccolo per giovani pubblici, l’Antigone in cattedra è quello che amo di più: l’espediente di Creonte come professore supplente che entra in aula per imporre l’ordine sulla classe dei Tebani mette in moto una macchina scenica che funziona a meraviglia con ragazze e ragazzi.
Quale dei tuoi lavori è stato il più difficile? E perché?
Non saprei dire quale sia stato il più difficile, perché arrivare a concepire come scrivere il Kraepelin o Goodbye Europa mi ha consumato e fatto soffrire, ma poi la stesura finale in sé è stata facile e bella. Menelao è rimasto incompiuto per lungo tempo, ma è iniziato rapidamente nel 2009 e terminato rapidamente nel 2017: ci ho messo 8 anni a rendermi conto di che forma dovesse prendere. È stato molto difficile capire come adattare Feydeau per lo Stabile di Torino, una decina di anni fa, perché non sapevo a quale pubblico realmente avrei dovuto rivolgermi. Per lo stesso motivo è difficile scrivere ora per un pubblico delle scuole medie: in una stessa classe spesso ci sono dislivelli brutali nel modo di approcciarsi alla vita. Costruire uno spettacolo per “adolescenti in via di formazione” è molto più complesso; anche per questo i tre spettacoli che abbiamo fatto, l’Orlando hater e Angelica furiosa, la Guida pratica per orientarsi nella selva oscura e Quel ladro del Lago di Como, sono molto diversi l’uno dall’altro: esplorano possibilità. Forse la difficoltà maggiore in questi ultimi tre anni – in cui ho fatto tre spettacoli all’anno per giovani pubblici, oltre agli spettacoli in cartellone al Piccolo e all’estero – è stato evitare di cadere nella dinamica della “catena di montaggio”, nella ripetizione. Cercare di mantenere lo sguardo lucido, e la curiosità, la voglia di fare e rinnovarsi.
La tua scrittura e il tuo metodo sono cambiati nel tempo? Come?
La mia scrittura è cambiata radicalmente quando ho iniziato a montare i miei testi. Prima scrivevo sostanzialmente per essere messo in scena da altri, possibilmente in diversi paesi. Erano testi pensati soprattutto per essere letti, perché dovevano essere attraenti per i comitati di lettura, per le giurie dei premi, per gli uffici di Dramaturgie, per registi e registe. Dovevano circolare il più possibile in forma di testo; quindi dovevano mostrare un certo valore letterario e possibilmente essere pubblicati. Questo ovviamente può essere un limite, perché un testo teatrale non può mai essere solo un testo letterario; ma ha anche un grosso vantaggio, perché scrivere senza pensare ai problemi pratici di una messa in scena mi dava molta più libertà. Da questo punto di vista, il fatto di essere a Berlino e avere come riferimento il teatro tedesco è stato fondamentale, perché avevo la sensazione di potermi permettere tutto, in fase scrittura; e che tutto quello che scrivevo avrebbe potuto effettivamente essere messo in scena. Erano testi che risentivano molto delle questioni teoriche che affrontavo nella mia tesi di dottorato: la destrutturazione della storia, l’indagine sul concetto di personaggio, l’opposizione ai principi aristotelici di linearità, causalità e di non contraddizione. Erano forme che dovevano mettere in crisi la forma logica della drammaturgia convenzionale dal suo interno. Però, ovviamente, con una certa dose di comicità – spesso cinica – e con un’attenzione particolare ai temi politici dell’attualità, che avrebbe dovuto renderli attraenti – altro insegnamento del teatro tedesco.
La mia scrittura cambia a partire dal 2016, con lavori come Peppa Pig prende coscienza di essere un suino e Maleducazione transiberiana. Dovevo metterli in scena io, quindi dovevo affrontare una serie di questioni molto pratiche, legate alla produzione e al budget. Non erano testi pensati per girare, dovevano servire come materiale di lavoro per le prove, non c’era bisogno che avessero anche un aspetto “letterario”. Il risultato più evidente è stata una mutazione radicale nella concezione delle didascalie. Le didascalie che avevo sempre scritto sfidavano la rappresentazione; qui, invece, commentavano il testo per aiutare attori e attrici a capire cosa fare: li accompagnavano. Dovendo lavorare con pochi mezzi, bisognava puntare su quello che avevamo a disposizione: testo e attore / attrice. Nel periodo in cui vivevo a Buenos Aires avevo seguito il lavoro di Ricardo Bartís, Rafael Spregelburd, Federico León… Come fare spettacoli stupendi con niente, solo con un buon testo e buoni attori e attrici.
E però, venendo da Berlino, ero anche impregnato di quell’estetica post-brechtiana, in cui attori e attrici sono sempre se stessi in scena, non pretendono di spacciarsi per qualcuno che non sono: “giocano a recitare”, entrano ed escono dal personaggio, parlano con il pubblico. Si trattava di mettere insieme le due cose. Fare questo con attori e attrici formati nelle accademie italiane era, ovviamente, più complicato. Nel 2018 Claudio Longhi mi ha chiamato a ERT con l’idea di lavorare su questa linea, per una serie di spettacoli destinati a giovani pubblici. I Classroom Plays erano veri e propri drammi didattici, da portare in luoghi non teatrali (le aule scolastiche) senza scenografia, con pochi elementi scenici e un computer per le proiezioni. Lo stesso testo era interpretato da diverse coppie di performer, aveva vite differenti, e mi permetteva di scrivere per attori e attrici di diversa natura, diversa età, diversa formazione; ma anche di provare quel metodo con loro, adattandolo a loro. Lavorare con una compagnia stabile a ERT è stato meraviglioso, e utilissimo, per me. In questi ultimi anni, al Piccolo, quella forma di dramma didattico si è evoluta e ha assunto nature differenti. Scrivere per fasce di età diverse mi obbliga a mantenere il focus ben centrato sul pubblico, a chiedermi costantemente se quello che io propongo riesca a interessare quel particolare tipo di spettatore e spettatrice di 7, di 13, di 18 anni. Con fasce di età di questo tipo, la mia scrittura dev’essere tutta “a disposizione” del pubblico, e questo mi porta a riflettere continuamente sulla funzione del teatro nella società.
Cos’è per te oggi la drammaturgia? Di cosa deve occuparsi? Cosa la distingue dalla letteratura e dalla scrittura per il cinema?
La drammaturgia è la scrittura “per” il teatro, cioè quel tipo di scrittura che prepara l’evento teatrale. Il che non significa che debba essere per forza scrittura di parole che gli attori e le attrici pronunceranno. C’è una drammaturgia testuale, ma c’è anche una drammaturgia dello spazio, del corpo, della luce, una drammaturgia sonora… sono tentativi di sistematizzazione, secondo un determinato codice (che è assimilabile al codice linguistico: un sistema organico, organicista, logico), di idee da tradurre poi sulla scena; o che si sono realizzate in scena, se la drammaturgia nasce a posteriori, come risultato dello spettacolo. Da quando metto in scena i miei testi, per me la regia è diventata una forma di drammaturgia; così come lo è il lavoro degli attori e attrici in prova, che propongono, modificano, aprono possibilità alla parola e al gesto.
Se invece intendiamo la drammaturgia semplicemente come scrittura di testi, allora non possiamo non rilevare già il suo status paradossale: la scrittura è sempre insufficiente e incompleta, perché trova il suo senso ultimo e la sua completezza al di fuori di sé, nella messa in scena, nell’evento teatrale. E l’evento teatrale, proprio perché “evento”, non è parola: è un “fatto”, un fatto reale, esperito; un qualcosa che trascende la possibilità di essere scritto, descritto, filtrato dal linguaggio naturale. Anzi, se viene scritto, descritto, messo in parola, perde qualcosa della sua essenza: per cui smette di essere fatto e diventa storia, cioè “immagine di un fatto”, formalizzazione di un’esperienza. In fondo la drammaturgia non è altro che questo “darsi e ritrarsi” della parola: è parola che si dichiara insufficiente e prepara la sua propria sparizione. C’è qualcosa del rapporto tra il profetico e il messianico in tutto questo; e se leggi Artaud, Beckett o Sarah Kane è evidente: la parola, il logos, prepara il terreno per l’arrivo del corpo, per ciò che si manifesta fisicamente davanti al pubblico. Il teatro è l’unica delle arti in cui parola, immagine e corpo si incontrano e si scontrano.
Non accade nella letteratura, in cui il rapporto si gioca sempre tra la parola e l’immaginazione; né nel cinema, in cui all’immaginazione si sostituisce l’immagine. In teatro, invece, il logos può evocare un’immagine, un’idea, un “eidos”, che si forma nella mente dello spettatore / spettatrice; ma ciò che accade in scena, ciò che si manifesta materialmente come corpo, come “physis”, può contraddire il “logos” che l’ha evocato e “l’eidos” che l’ha atteso. Il teatro è il luogo in cui il corpo mette in crisi il linguaggio e la forma. Così, la drammaturgia mostra che il linguaggio non può mai cogliere del tutto il reale, che c’è sempre una porzione di reale che resta estranea al linguaggio, che oppone resistenza alla sua formalizzazione logica. La cosa dolorosa e al contempo magnifica del mio lavoro di autore che usa il linguaggio è che devo costantemente fare i conti con il suo fallimento.
Quali sono i testi teatrali di “maestri” che ti hanno influenzato o che hai amato di più? (massimo tre)
Il primo maestro non è stato un autore, ma un critico, Franco Quadri. Avevo 24 anni e mi interessava il teatro, però non sapevo cosa me ne sarei fatto di quell’interesse. Mi piaceva scrivere e quindi scrivevo di teatro, per “Hystrio”; e sicuramente volevo occuparmi di drammaturgia come teorico, accademico. A Barcelona avevo conosciuto Juan Mayorga, stavo scrivendo una tesi di laurea su di lui e avevo proposto a Quadri di pubblicare alcune sue opere in italiano; da lì avevo cominciato a collaborare con Ubulibri, curando poi un numero del Patalogo dedicato al teatro iberoamericano, insieme a Manuela Cherubini. Intanto avevo iniziato a scrivere testi: Saccarina era arrivato in finale al Tondelli. Quadri diceva che era un testo troppo milanese; era andato in magazzino ed era tornato dicendo: «Leggiti questi». Erano i volumi di Fausto Paravidino, Letizia Russo e Annibale Rucello. Lì qualcosa ha fatto “click”. Anche negli anni seguenti, il nostro dialogo è sempre stato fondato su questo scambio: io gli raccontavo cosa vedevo di interessante a Berlino e a Barcelona, lui mi dava da leggere cose che potevano farmi crescere come autore.
Poi, dal punto di vista della scrittura, il primo incontro fondamentale è stato con Laura Curino, che in quegli stessi anni mi ha insegnato che un testo teatrale è frutto di un lavoro di ricerca, di analisi di altri testi, di taglia e cuci, di montaggio.
Ma se dovessi scegliere tre titoli, direi Attempts on Her Life di Martin Crimp, Far Away di Caryl Churchill e Cleansed di Sarah Kane – anche se potrei dire tutta la sua opera. Curiosamente teatro britannico, che io non amo particolarmente. Ma la loro rilevanza per me sta nel fatto che si tratta di tre opere che spiccano come eccezioni all’interno di un panorama drammaturgico tutto sommato convenzionale, fondato sulla story; queste tre opere invece mettono in crisi, da punti di vista differenti, il concetto di “storia”. L’incontro con questi testi, a 25 anni, anni mi ha aperto un mondo di possibilità, nella scrittura. Le prime due le ho scoperte appena arrivato a Barcelona: alla Sala Beckett – che ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la Royal Court di Londra – stavano facendo un ciclo su Crimp; la Churchill invece era in scena al Teatre Lliure. Sono stati un po’ anche il mio punto di partenza per la tesi di dottorato; il che mi ha poi portato a rileggere tutta Sarah Kane (che invece conoscevo grazie a Einaudi) sotto una luce nuova. Lo stesso vale per Brecht e per Heiner Müller. Tutti gli autori e le autrici che ho citato sono stati importanti per la mia formazione: da un lato ne analizzavo le strutture drammaturgiche sotto l’aspetto teorico; dall’altro cercavo di rinnovarli nella mia scrittura.
Quali sono gli spettacoli importanti della tua vita di spettatore?
I primi spettacoli importanti sono stati sicuramente quelli al Teatro del Trebbo, che ci portavano a vedere alle scuole elementari. Era (ed è ancora, mi pare) uno spazio al secondo piano di un edificio di via De Amicis, a Milano; non c’erano sedie, poltrone: sedevamo su un pavimento di moquette, alla rinfusa, e gli attori e le attrici erano lì con noi, parlavano con noi, ci coinvolgevano. Questa forma di partecipazione era meravigliosa. Quando trent’anni dopo a ERT, grazie a Longhi, ho cominciato a occuparmi di teatro partecipato e di teatro per le scuole, sono partito da quell’esperienza. Coinvolgere lo spettatore / spettatrice attivamente; favorire il sorgere di un’esperienza non solo intellettuale, ma anche fisica, pragmatica; accostare l’aspetto ludico all’aspetto didattico. Tutto il teatro successivo visto con le scuole alle medie e al liceo è stato deludente: erano semplicemente matinée noiosissime di spettacoli serali fatti senza criterio. Per questo ora mi interessa moltissimo creare testi e spettacoli appositamente pensati per giovani pubblici, che trattino i problemi che le persone del pubblico vivono. Per trasmettere a ragazzi e ragazze l’idea che il teatro può essere qualcosa di molto vicino alle loro vite, alla loro quotidianità. È una forma di riscatto dello spettatore deluso che sono stato da adolescente.
Forse in quel periodo il teatro migliore lo vedevo in televisione. A Mai dire gol, sicuramente; a Zelig, a L’ottavo nano… Quel tipo di comicità è stato fondamentale per il mio modo di scrivere, e Antonio Albanese, Paola Cortellesi e Corrado Guzzanti hanno segnato il mio stile tanto quanto Giovanni Testori, Biljana Srbljanović o Roland Schimmelpfennig. Lo stesso potrei dire del Barcelona di Guardiola, perché veder giocare Messi insieme a Xavi e Iniesta mi ha fatto capire come la tattica, cioè la normativizzazione del gioco, sia sterile se non include punti di rottura e imprevedibilità: un concetto che si può perfettamente applicare alla scrittura del testo teatrale. Da questo punto di vista, il 5-0 del 2010 al Real Madrid di Mourinho è sicuramente il più bello spettacolo a cui io abbia mai assistito nella vita.
Se invece dovessi citare spettacoli teatrali che ho visto da spettatore maturo, inizierei sicuramente da Infinities di Ronconi, che per me è lo spettacolo perfetto, in cui forma e contenuto coincidono, e lo spettatore / spettatrice fa esperienza proprio di quella coincidenza – che è poi la messa in discussione radicale del nostro modo di esperire il tempo. Lo spettacolo più bello che io abbia visto in teatro resta comunque l’Emilia Galotti di Micheal Thalheimer al Deutsches Theater, di una straordinaria semplicità e con un cast ineguagliabile. Seguito da l’Idiota di Frank Castorf alla Volksbühne, che invece era, all’opposto, caos e accumulazione allo stato puro. La scoperta di quel teatro tedesco è stata fondamentale, per me: mi faceva sentire libero come autore, mi faceva pensare che in teatro tutto è possibile; e la stessa cosa ho sentito davanti alla Tragedia endogonidia di Romeo Castellucci. E forse devo citare anche Espía a una mujer que se mata, di Daniel Veronese e Terrenal di Mauricio Kartun, che hanno segnato il mio periodo in Argentina.
Cosa non deve mai fare un’autrice/autore teatrale?
Forse non deve mai pensare che qualcosa che abbia scritto sia indispensabile. Che una scena ben riuscita, a cui tiene molto, sia per forza da tenere. Capita che ci affezioniamo a una cosa che abbiamo scritto e cerchiamo di salvarla a tutti i costi, anche quando stona nell’insieme dell’opera. Io credo di aver imparato veramente a scrivere quando ho imparato a cancellare, a rinunciare a quello che avevo scritto. Rinunciare anche a mesi di lavoro, buttare via tutto, per ricominciare da capo, perché quello che esisteva non mi convinceva del tutto. E rinunciare è sempre stata per me una cosa difficilissima, perché fatico a lasciar andare, a perdere… Ma a volte è proprio quell’atto di rinuncia che segna la nascita del testo, che si porta dietro la versione precedente di sé in forma di “traccia”. Questa “presenza dell’assenza” mi pare fondamentale non solo nella scrittura, ma anche in teatro. Perché, anche in scena, ciò che è presente rimanda sempre a qualcosa di assente: quando l’attore o l’attrice interpretano un personaggio stanno sempre “per qualcun altro” che non c’è, di cui sono testimoni. Io credo che un testo teatrale porti sempre in sé quella testimonianza di “ciò che non è più”, che lo ha preceduto. È una sorta di rielaborazione, che vede nella sparizione della forma anteriore il requisito fondamentale per la nascita di una forma nuova.
Cosa non può mancare in un testo teatrale che consideri ben fatto?
Non credo che ci siano aspetti di un testo imprescindibili o prescindibili; credo che tutto possa esserci e tutto possa mancare, dipendendo dal senso che il testo porta in sé, cioè dal discorso che lo anima e lo giustifica. Forse, se c’è una cosa che non deve mai mancare in un testo teatrale, è la coscienza che la sua denominazione come “testo teatrale” sia sempre in qualche modo ossimorica; perché un testo, in quanto “testo”, non può mai essere veramente “teatrale”. Ma, appunto, occorre lavorare proprio all’interno di questa apparente contraddizione; anche perché il nostro lavoro è sempre, costantemente, il protrarsi di un’apparente contraddizione.
Si può davvero insegnare a scrivere un testo teatrale? Fino a che punto?
Certo non si può insegnare a fare qualcosa la cui origine è estranea alla norma, alla regola, restando sempre di per sé misteriosa, come nel caso della creazione artistica. Quando si scrive, si scrive perché si sente che qualcosa non può non prendere forma; una forma caduca, insufficiente, ma che deve comunque “farsi”: questa esigenza e il processo che mette in moto non si possono insegnare. Si possono analizzare gli aspetti formali della scrittura del testo, quelli “tecnici”; cioè quegli aspetti che mostrano come le nostre forme espressive siano pre-determinate da una specifica visione del mondo: per esempio il fatto che gli avvenimenti debbano configurarsi in forma di storia; o che un’idea debba essere espressa in forma linguistica. Questo si può insegnare, perché ha come oggetto, appunto, una forma in qualche modo de-finibile.
Ma imparare le regole e analizzare con attitudine scientifica le forme insegna semplicemente a replicare forme vuote, spesso prive di contenuti e prive del senso; prive di quella intima, estrema, tremenda necessità di esprimersi, che dovrebbe portare alla loro genesi. Testi scritti benissimo, ma che non dicono niente. Perché continuare a insegnare, allora? Perché, attraverso la pedagogia, possiamo preparare il terreno, favorire le condizioni per le quali questo fenomeno inspiegabile che è la creazione artistica si produce. Portare esempi, mostrare connessioni e affinità, stimolare la critica, invitare alla riflessione. Si può insegnare a essere coscienti che l’orizzonte di quello che facciamo è sempre il pubblico; e che allo stesso tempo non dobbiamo perdere mai il contatto con noi stessi. Rispettare e dare ascolto alle nostre proprie esigenze, eppure fare in modo che entrino in contatto con le esigenze della società in cui operiamo. Non si può insegnare “come” fare tutto questo; però si può insegnare che questo si è fatto, si può fare e forse “va fatto”, questo sì.
Se vuoi aggiungi una tua riflessione
Viviamo in periodo in cui non c’è spazio per la riflessione, e soprattutto non c’è tempo. Tutto va fatto e detto in fretta, le connessioni sono rapide, la diffusione è istantanea, i post, i titoli, i giudizi sui fatti, sulle persone, sono in-mediati. Il teatro invece è una forma di mediazione, che richiede il suo tempo. Un tempo non organizzabile a priori, non prevedibile. E tale è anche il tempo della scrittura: un tempo non misurabile e, spesso, non produttivo. Quanto tempo le va dedicato? Quanto va remunerato? Quali sono i suoi “risultati”? La scrittura, la creazione artistica, difficilmente sono quantificabili secondo i parametri di “definizione” e “produttività” caratteristici del nostro sistema economico. Per non parlare della sua capacità di diffusione. Confrontiamo un post, un tweet, un X, con la scrittura per il teatro: non c’è competizione, oggi il teatro perde su tutta la linea. Da questo punto di vista, il teatro diventa una forma di resistenza, una presa di posizione etica, quindi un atto politico. Ma forse dobbiamo renderci conto che la cifra che segna lo spirito di questi tempi rispetto alla politica non è più la resistenza; quanto la sconfitta. A me la scrittura ha insegnato che è proprio sapendo perdere, lasciando andare ciò che non ha più senso che resti, che si può generare una forma nuova, veramente adatta a ciò che vogliamo esprimere e allo spirito dei tempi nel quale operiamo. Una forma nuova nel discorso politico delle sinistre, per esempio, oggi è più che mai necessaria.
Graziano Graziani (Roma, 1978) è scrittore e critico teatrale. Collabora con Radio 3 Rai (Fahrenheit, Tre Soldi) e Rai 5 (Memo). Caporedattore del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha collaborato con Paese Sera, Frigidaire, Il Nuovo Male, Carta e ha scritto per diverse altre testate (Opera Mundi, Lo Straniero, Diario). Ha pubblicato vari saggi di teatro e curato volumi per Editoria&Spettacolo e Titivillus. Ha pubblicato l’opera narrativa Esperia (Gaffi, 2008); una prosa teatralizzata sugli ultimi giorni di vita di Van Gogh dal titolo Il ritratto del dottor Gachet (La Camera Verde, 2009); I sonetti der Corvaccio (La Camera Verde, 2011), una Spoon River in 108 sonetti romaneschi; i reportage narrativi sulla micronazioni Stati d’eccezione. Cosa sono le micronazioni? (Edizioni dell’Asino, Roma, 2012). Cura un blog intitolato anch’esso Stati d’Eccezione.
