accumulatori compulsivi

Questo pezzo è uscito su Artribune.

 

“You got to have brains to collect that much stuff.”

Uncle Arthur

“It’s as if that house was another country.”

E.L. Doctorow su Homer e Langley Collyer

Mi capita spesso, ultimamente, di riflettere sul senso di ciò che fanno gli “accumulatori”. Queste figure esercitano un fascino indubbio sugli spettatori di tutto l’Occidente (basta citare i titoli di alcuni reality e documentari televisivi a loro dedicati: Hoarders su A&E, Extreme Clutter with Peter Walsh su OWN-Oprah Winfrey Network, Hoarding: Buried Alive su TLC). Perché? Che significa esattamente ammassare con cura e amorevolezza per decenni in casa propria robaccia, oggetti inutili (che da altri cervelli, da altre identità verrebbero catalogati come immondizia, per essere immediatamente gettati via), conferendo in molti casi a queste operazioni un carattere addirittura monumentale?

Una prima spiegazione, piuttosto facile, consiste nel vedere le accumulazioni casalinghe come versioni estreme del consumismo. Tutti conosciamo il sollievo che proviene dall’acquistare beni che non ci servono (soprattutto quando per qualche motivo non ci sentiamo bene, “non siamo a posto”) e portarceli a casa. Questo sollievo, sottoposto ad una accelerazione e ad un sovraccarico quasi incredibili, dà luogo a masse di cianfrusaglie che invadono gli spazi dell’esistenza quotidiana… sostituendosi progressivamente ad essa.

Ed è qui, in fondo, che risiede forse la chiave per cominciare a capire l’intera faccenda. All’origine di un’accumulazione c’è sempre un trauma – o una sequenza di traumi. Per reagire a una perdita, a una ferita psichica che evidentemente non si rimargina, questi individui iniziano un’opera che lentamente li seppellisce vivi nei loro stessi ambienti privati. L’aspetto più agghiacciante, però, è che questo stesso processo di accumulazione impedisce di fatto una vita di relazione, ed è l’origine di altre perdite. Gli accumulatori si sganciano dai propri affetti, rinunciano ad essi, sottoponendosi ad ulteriori gravi traumi pur di non separarsi dai rifiuti che stanno ammassando.

Ciò ne fa personaggi tragici: questa tensione continua tra una forma molto acuta di dipendenza, di compulsione e la separazione progressiva dalla realtà della vita comune è qualcosa di interessante, da interrogare. Come dice E.L. Doctorow a proposito dei fratelli Collyer (leggendari accumulatori newyorkesi in azione tra anni ’10 e anni ‘40, alla cui vicenda interiore il grande scrittore postmoderno ha dedicato il suo ultimo romanzo Homer  & Langley, 2009): “è come se quella casa fosse un altro paese”.

E di che paese, di che spazio, di che territorio si tratta? Ognuno di questi accumuli – più o meno affascinanti e/o disgustosi – costituisce una commovente barriera eretta con pazienza sovrumana contro la morte e la scomparsa, propria e degli altri. È una sacca imbarazzante, socialmente inaccettabile, di resistenza alla condizione umana nella contemporaneità. Per questo quasi tutti siamo come ipnotizzati dalla visione di queste stanze e di questi corridoi resi impraticabili da ostacoli creati ad hoc – che naturalmente, da un altro punto di vista, sono invece sostegni – con oggetti di uso comune, assemblati e disposti in stratigrafie (le quali indicano, in molti casi, epoche diverse all’interno della stessa casa).

Gli accumulatori creano – sacrificando la propria vita quotidiana – un territorio privato nel senso più estremo ed esclusivo del termine (esclude infatti tutti coloro che non sono capaci di condividerlo e di apprezzarlo), sottraendolo al flusso del tempo, e alla sua azione. Ogni accumulazione crea, in definitiva, una “sospensione del tempo”: una capsula temporale malata, distorta, ossessiva, che però proprio attraverso la distorsione e l’ossessione riesce a ottenere ciò che è stato espulso con cura dalle nostre società. (E d’altra parte, su che cosa lavoravano se non sul tempo e sul suo congelamento tutte le grandi accumulazioni artistiche del XX secolo, dal Merzbau di Kurt Schwitters alle Time Capsules di Andy Warhol?)

Ciò che è stato espulso è precisamente il rapporto con la morte, la relazione tra tempo storico ed eternità. I territori creati dall’azione degli accumulatori sono dunque separati dalla realtà condivisa, sono “altri paesi” sottoposti a norme completamente diverse da quelle che regolano l’esistenza comune, caos privati e controllati che risultano invivibili alla maggioranza: ma se questi spazi, queste micro-nazioni separate, nascoste e autodistruttive fossero traduzioni molto più fedeli dei nostri ordini collettivi, precipitati più radicali – e dunque, paradossalmente, più ortodossi – dei sistemi che ci vengono consegnati alla nascita?

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2 commenti

  1. Verga ha espresso questi concetti da un bel po`, se non sbaglio. E il suo conterraneo Camilleri ha descritto in un bel racconto un tizio che raccoglieva finanche “la mia merdazza e la mia pisciazza”.

  2. Ma quello che ci viene consegnato alla nascita non è proprio questo ordine di accumulazione e consumo compulsivi?

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Autore

christiancaliandro@minimaetmoralia.it

Christian Caliandro (1979) è storico, critico d’arte contemporanea e curatore. Insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia. Tra i suoi libri: La trasformazione delle immagini. L'inizio del postmoderno tra arte, cinema e teoria, 1977-‘83 (Mondadori Electa 2008), Italia Reloaded. Ripartire con la cultura (Il Mulino 2011, con Pier Luigi Sacco), Italia Revolution. Rinascere con la cultura (Bompiani 2013), Italia Evolution. Crescere con la cultura (Meltemi 2018), Tracce di identità dell’arte italiana. Opere dal patrimonio del Gruppo Unipol (Silvana Editoriale 2018), manuale Storie dell’arte contemporanea (Mondadori Education 2021) e L’arte rotta (Castelvecchi 2022). Dirige la collana “Fuoriuscita” per l’editore Castelvecchi. Dal 2004 al 2011 ha diretto le rubriche inteoria e essai su “Exibart”; dal 2011 cura la rubrica inpratica su “Artribune”. Collabora inoltre con “minimaetmoralia” e “che-Fare”, e dal 2017 dirige insieme a Angela D’Urso La Chimera–Scuola d’arte contemporanea per bambini presso TEX, ExFadda, San Vito dei Normanni (BR). Ha curato numerose mostre personali e collettive in spazi pubblici e privati, tra cui: The Idea of Realism/L’idea del Realismo, American Academy in Rome, Roma (2013); Concrete Ghost/Fantasma Concreto, American Academy in Rome, Roma (2014); Amalassunta Collaudi, Museo Licini, Ascoli Piceno (2014); Sironi-Burri: un dialogo italiano (1940-1958), CUBO-Centro Unipol Bologna (2015); Cristiano De Gaetano: Speed of Life, Fondazione Museo Pino Pascali, Polignano a Mare (2017); Now Here Is Nowhere. Six Artists from the American Academy in Rome, Istituto Italiano di Cultura, New York (2017); le quattro edizioni de La notte di quiete, ArtVerona, Verona, quartiere Veronetta (2016-2019); le sei edizioni del progetto Opera Viva Barriera di Milano, Flashback, Torino (2016-2021); il progetto Artista di Quartiere, Torino (2020); Z/000 GENERATION. Artisti pugliesi 2000>2020, AncheCinema, Bari (2020); Fragile, galleria Monitor, Roma (2021); Cantieri Montelupo, programma di residenze artistiche, Museo della Ceramica, Montelupo Fiorentino (2021). 

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