
Dopo la poesia di Christian Raimo pubblicata ieri, abbiamo deciso di aprire uno spazio per documentare quello che si preannuncia – dopo tanto tempo – come un reale anno di lotta. Ringraziamo la rete di AteneinRivolta per averci concesso di pubblicare la testimonianza degli studenti di Siena. Se l’inverno è già così caldo, aspettiamo che arrivi primavera.
A seguito della manifestazione del 14 dicembre, molte voci e molti commentatori si sono cimentati nell’esercizio di racconti improvvisati ed elaborazioni semplicistiche, nessuna delle quali pensiamo abbia colto il senso ultimo e vero di quella giornata.
Crediamo opportuno dare anche il nostro contributo, il contributo di chi quel giorno c’era e non rinnega di esserci stato, il contributo di un movimento che ha la maturità e le capacità di analizzarsi e di leggersi senza parzialità e autoreferenzialità.
Riteniamo doveroso mettere da subito in chiaro quelli che per noi sono dei cardini incontrovertibili: quel pomeriggio a Piazza del Popolo c’eravamo tutti. Non avrete da noi nessuna dissociazione e nessun distinguo. Chi si diletta in questo tipo di operazioni probabilmente avrebbe fatto meglio a non scappare da Piazza del Popolo, lasciando alla mercé delle forze dell’ordine i manifestanti, ma piuttosto mettere in campo un’altra gestione della piazza che era possibile, necessaria e che probabilmente, con la forza di tutti e tutte, ci avrebbe fatto arrivare ai Palazzi del potere.
Non riteniamo di dover dare conto della nostra azione a chi è intenzionato a mettere in piedi un gioco al massacro che ci vuole dividere in buoni e cattivi. Rifiutiamo questo campo di confronto che i media e il potere, ipocritamente, ci vogliono imporre.
Non ci interessa quindi discutere inutilmente sulla presenza o meno di infiltrati, presunte frange estremiste o fantomatici black block. Non ci interessa perché rivendichiamo una rabbia ed una indignazione giusta che hanno unito tutti coloro che il 14 hanno di fatto sfiduciato il governo. Un governo che, barricato e asserragliato oltre innumerevoli zone rosse, porte chiuse, blocchi della polizia, si presenta di fatto impermeabile e ottuso, chiuso nel binomio dei festini e delle decisioni autoreferenziali dell’oligarchia al potere. A questa dimensione la piazza del 14 ha opposto la sua forza e la sua disperazione, un ripetuto “tutti insieme facciamo paura” che esprime veramente il terrore che il palazzo ha di una moltitudine libera, consapevole, in lotta per il proprio futuro e che non accetta di confrontarsi a partire dai canoni che il palazzo stesso gli vuole imporre.
Chiariamo un altro punto: la vera dimensione di violenza, questa sì organizzata e ancor più feroce, proprio perché silenziosa e istituzionalizzata, è quella di un Paese che vede innumerevoli cassintegrati e licenziati in tronco, migliaia di terremotati ancora in attesa di casa, 3 morti sul lavoro ogni giorno e la strage quotidiana dei sucidi in carcere; la violenza di un paese che priva di dignità e di futuro una generazione che molto spesso non ha altra via d’uscita che la rinuncia alla vita stessa.
La nostra forma di violenza è quella che si legge nella storia di questa generazione, la risposta politica e sociale che porta avanti uno scontro diretto, che si esprime in una maniera radicalmente alternativa di interpretare i rapporti sociali, nel nostro rifiuto dell’individualismo e dell’egocentrismo come motore della società: al palazzo, simbolo chiuso del potere ridotto a mercanteggiamenti, noi opponiamo una piazza aperta e multiforme, libera; alla società dei consumi e della vuota comunicazione di massa noi contrapponiamo le facoltà liberate, le assemblee e la partecipazione collettiva: collettività che decide e non delega, che rappresenta la vera forma politica, che sceglie il conflitto come comunicazione contro chi è incapace di qualsiasi forma di dialogo.
Non riteniamo possibile altro confronto contro chi utilizza la moneta come unico strumento di dialogo e ribadiamo come questo movimento, proprio per la sua radicale novità e complessità, non è né rappresentato né compreso, ma solo stereotipato e strumentalizzato dalle varie forze e movimenti presenti nel paese.
Come chi difende la libertà noi abbiamo il dovere di resistere un minuto di più.
Nicola Lagioia (Bari 1973), ha pubblicato i romanzi Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (vincitore Premio lo Straniero), Occidente per principianti (vincitore premio Scanno, finalista premio Napoli), Riportando tutto a casa (vincitore premio Viareggio-Rčpaci, vincitore premio Vittorini, vincitore premio Volponi, vincitore premio SIAE-Sindacato scrittori) e La ferocia (vincitore del Premio Mondello e del Premio Strega 2015). È una delle voci di Pagina 3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Nel 2016 è stato nominato direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.
“Siamo qui per dire a coloro che ci hanno maltrattato per tanto tempo che noi siamo stanchi. Siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Siamo stanchi di essere presi a calci in maniera brutale, di essere oppressi. Non abbiamo altra alternativa che la protesta. Per molti anni abbiamo mostrato una pazienza sorprendente. A volte abbiamo dato ai nostri fratelli bianchi l’impressione che il modo in cui venivamo trattati ci piacesse. Ma questa sera siamo venuti qui per dire che la nostra pazienza è finita, che saremo pazienti solo quando avremo libertà e giustizia.”
E’ un pezzo del discorso che Martin Luther King tenne la sera del boicottaggio dei mezzi di trasporto a Montgomery. Ed era dicembre.