
Pubblichiamo la versione estesa di un pezzo apparso su Robinson, l’inserto domenicale di Repubblica, che ringraziamo (fonte immagine).
Il problema di Aldino è l’«ora seria». Vale a dire quel tempo in cui tocca smetterla col vagabondaggio della giovinezza per fare il proprio ingresso in un’età adulta non procrastinabile oltre, l’epoca in cui all’andirivieni succede l’andare, e dunque va definita una direzione, addirittura una meta, un’idea infine robusta della propria presenza nel mondo. Prima però che quest’ora implacabilmente severa scocchi, ad Aldino – forse non solo a lui – è data ancora una notte, una soglia oscura che coincide con un’intera città e con un’epoca precisa, la Milano del 1960, da percorrere ed esplorare, uno spazio e un tempo attraverso cui fare la spola da un capo all’altro nella speranza ostinata di poter tenere ancora un poco a bada questa famigerata età adulta, rimandando il più possibile l’alba.
Pubblicato per la prima volta nel 1963, a lungo fuori catalogo e adesso riproposto da Baldini+Castoldi, Tirar mattina di Umberto Simonetta è il racconto picaresco di una peregrinazione notturna lungo le strade di una Milano scabra e rugginosa, vecchissima e ancora tutta in potenza. Aldino – voce narrante e protagonista del romanzo: trentatré anni, un abbaino scalcinato a Porta Genova, in passato rappresentante di elettrodomestici, poi ruffiano (ma non è più il caso, «coi tempi che corrono»), un grumo di italianità di cui fanno parte l’acutezza e il qualunquismo, la spacconeria, il razzismo, la vulnerabilità – attraversa la città e la osserva sotto la pioggia battente a bordo del suo alfone, penetra nella penombra e poi nel buio, vaga e divaga, si ferma in un bar, in un altro, sa che sarebbe bene ritirarsi («quando si è stanchi bisognerebbe trovare la forza di andare a dormire») ma non c’è modo, l’impulso all’andirivieni è troppo forte, e allora c’è un altro viale, un’altra curva, un altro terrain vague, altri tiratardi da incontrare, uno sbarbato con cui chiacchierare, una prostituta con cui negoziare, un locale ancora aperto dove mangiarsi una bistecca grassa e bere un grappino: così, semplicemente, disperatamente, per stirare il tempo dall’interno e dilatarlo e renderlo un presente che non si esaurisce mai; consapevole che, al di là di questa soglia che è la notte milanese, alle sette del mattino gli toccherà presentarsi all’autorimessa per cominciare il suo primo giorno da garagista (perché è in un lavoro vero che si incarna l’ora seria), «cinquantamila al mese, più le mance», Aldino l’ha promesso alla fidanzata, Lina, e comunque ha ormai trentatré anni, e se anche la prospettiva di farla finita con la notte i giri i bar gli fa precipitare addosso uno «spavento vuoto», questo Amleto italiano degli anni ’60 sa che è il momento di cambiare passo e mettere la testa a posto («Aldino questa è l’ultima volta che si trotta nella notte a perdere il tempo, diamo un addio alla vita, tra poco scatta la trappola»).
L’anno in cui viene edito il romanzo di Umberto Simonetta – scrittore, autore teatrale e televisivo, nato a Milano nel ’26 e scomparso vent’anni fa – è lo stesso in cui vengono pubblicati Libera nos a Malo di Luigi Meneghello, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda (circostanza che da sola consegna il libro di Simonetta a un destino – del quale l’autore era autoironicamente consapevole – di «minore», ma si tratta di un grandissimo minore). L’arcipelago narrativo in cui Tirar mattina, con una sua peculiare selvatichezza, trova una collocazione naturale è però ancora più ampio e si sviluppa attraverso poco più di un decennio. Siamo nel pieno del boom e, nonostante la crescita economica (o forse proprio per questo), una serie di romanzi film e canzoni cominciano a rendere percepibile una tonalità tutt’altro che ottimistica: da Il posto di Ermanno Olmi (1961) a La cuccagna di Luciano Salce (1962) – dove il lavoro viene stretto d’assedio oppure evitato a ogni costo – e arrivando fino a L’ultima estate in città di Gianfranco Calligarich (1973) e a Vincenzina e la fabbrica di Enzo Jannacci (1974), a farsi centrali (e trasversali) sono il disorientamento e la malinconia (perché ogni boom genera detriti, ogni «miracolo» irradia intorno a sé miscredenti), e l’immaturità non è più una condizione circoscritta ma una forma di conoscenza di sé e del mondo (a mo’ di architrave di questa costellazione di storie, l’immagine emblematica è quella di Marcello, nel finale di La dolce vita, che dopo avere a sua volta tirato mattina solleva le braccia a segnalare che gli dispiace ma non sa, non può, si arrende, non c’è niente da fare).
Fondamentale, in Tirar mattina, è Milano, trama tessuto e midollo del romanzo, e al contempo cartina di tornasole delle metamorfosi in atto nel Paese. La prima esperienza metropolitana con cui Aldino si confronta – qualcosa che all’inizio dei ’60 è un’assoluta novità – è il loisir; un tempo libero in sé ambiguo perché, se male amministrato, può spietatamente rivelarsi tempo sprecato. Si deve allora capire cosa farne: «Partono le vecchissime stronze proposte: “Andiamo a mangiar gli spaghetti dal Duardin; No: andiamo di sopra a Leruà a sentire il giubbòx…; Dài, andiamo un po’ in giro, muoviamoci: decidiamo fuori!; Vogliamo andare al parco a trovar la Marta?; Dalla Luisa: ci facciam fare i ravioli…”».
Siamo a un passo da quel senso di déjà vu – «ti passo a prendere… cosa facciamo… che film vediamo… no, l’ho già visto… tutto previsto…» – cantato da Giorgio Gaber in Le nostre serate (1964), non a caso su testo di Simonetta (che per Gaber scrisse anche Trani a gogò, La ballata del Cerutti e Il Riccardo).
Insieme al mutare del tempo c’è quello dello spazio. Se in La ragazza Carla (1962) Elio Pagliarani descriveva ironicamente affascinato quanto accadeva sotto il «cielo contemporaneo» di Milano («quella gente che marcia al suo lavoro / diritta interessata necessaria»), Aldino osserva gli scavi della metropolitana che gli ricordano i bombardamenti e le baracche di legno costruite dai veneti e dai meridionali nel mezzo di largo Cordusio – la Milano agra, insieme già moderna e ancora in embrione, raccontata in quegli stessi anni da Luciano Bianciardi e fotografata da Carla Cerati – percependo questa proliferazione di lavori come qualcosa di vano: «Tutta la città è drogata da sta smania di distruggere e rifare distruggere e rifare e tutti sgobbano come negri e maledicono di dover sgobbare presi come sono dal sospettino che alla fine a cosa è servito?»
Ed eccolo, il disincanto, il cuore di Tirar mattina – un cuore che però non se ne sta fermo in un punto ma si irradia, tramite una scrittura sempre febbrile, per l’intero romanzo. Un disincanto – di fatto un metodo – che, trascorsi dal 1963 oltre cinquant’anni, sembra essere stato espulso da una Milano scintillante, costantemente elegantissima, ineccepibile e inossidabile: una città in cui tutto ciò che c’è – ogni corpo, ogni forma, ogni comportamento, ogni sofferenza (soprattutto quella) – è convertito in stile, una città che in tutto ciò che fisicamente e culturalmente è terrain vague non vede un patrimonio ma uno sperpero e subito si industria per farne coworking network talent garden incubatore di startup: uno spazio a ogni costo funzionale.
E allora viene da pensare che, nel mutare dei tempi e dello spazio, il romanzo euforicamente malinconico di Simonetta continua a riguardarci perché Aldino, così alieno alla possibilità di sistemarsi davvero, è il perfetto disertore: colui che, renitente alla chiamata dell’epoca, sceglie di non servire a nulla, non va in nessun posto perché sa che non c’è nessun posto dove andare: qualcuno che, come la letteratura (e attraverso la letteratura), non fa altro che tenere a bada l’ora seria, la argina, la rinvia ancora e ancora, e a volte, se la notte gli è complice e si lascia stirare, tirare fino a che è mattina, riesce persino a dimenticarsi che quell’ora esiste – e prima del suo arrivo, ignorandola, se ne va a dormire.
Giorgio Vasta (Palermo, 1970) ha pubblicato il romanzo Il tempo materiale (minimum fax 2008, Premio Città di Viagrande 2010, Prix Ulysse du Premier Roman 2011, pubblicato in Francia, Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Inghilterra e Grecia, selezionato al Premio Strega 2009, finalista al Premio Dessì, al Premio Berto e al Premio Dedalus), Spaesamento (Laterza 2010, finalista Premio Bergamo, pubblicato in Francia), Presente (Einaudi 2012, con Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori). Con Emma Dante, e con la collaborazione di Licia Eminenti, ha scritto la sceneggiatura del film Via Castellana Bandiera (2013), in concorso alla 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Collabora con la Repubblica, Il Venerdì, il Sole 24 ore e il manifesto, e scrive sul blog letterario minima&moralia. Nel 2010 ha vinto il premio Lo Straniero e il premio Dal testo allo schermo del Salina Doc Festival, nel 2014 è stato Italian Affiliated Fellow in Letteratura presso l’American Academy in Rome. Il suo ultimo libro è Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Humboldt/Quodlibet 2016).
Mi hai convinto. Lo leggerò!