C’è un libro che più di ogni altro ha segnato, per chi scrive, l’anno appena concluso. Il libro in questione è Steve Jobs non abita più qui (Adelphi, La collana dei casi 136); è comparso in estate sugli scaffali, ed è una delle novità editoriali più interessanti che si possano trovare e leggere avidamente oggi.
Il volume è stato prima ancora un fitto accumularsi di reportage, buona parte riscritti per l’occasione (e alcuni apparsi su Il Foglio) da uno studente fuoricorso e ispirato dai più illustri numi tutelari del campo letterario.
Il nome dell’autore risponde a quello del giornalista Michele Masneri. Lo stesso Masneri che, come recita la biografia m&m, “è nato a Brescia, e poi si è esoticamente trasferito a Roma perché, come sosteneva Alberto Arbasino, bisogna vivere nella capitale dello stato di cui si è cittadini.” E siccome allo scrittore bresciano non è più bastato trasferirsi nella capitale per seguire, studiare, e, quando serviva, mimetizzarsi abilmente nella coolness della borghesia locale (e successivamente raccontarla con un acume straordinario), decide un giorno di fare le valigie e di prendere il primo aereo che lo porterà nella Silicon Valley (soggiornandovi dal 2016 fino all’anno seguente): culla dell’alta tecnologia e delle sue numerose startup fondate dalle schiere di programmatori in erba; tutti con la fame al collo e con il sogno in testa di sbarcare il lunario grazie alla loro miracolosa invenzione (così si spera).
Non ho più l’età, era ovvio, per questo Erasmus da quarantenne – eppure l’idea era semplice, lasciare per un anno Roma e l’Italia decotta, le buche e la depressione economica e morale, e venire nel posto in cui sono tutti giovani, e felici, progettano il futuro.
Il libro si apre come uno squarcio sul giorno successivo alle elezioni americane (tenutesi in data 8 novembre 2016): un risveglio che sa di catastrofe annunciata con Donald Trump vincitore, pronto a vestire la carica di quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.
Un day after che paralizza i/le giovani startuppari provenienti da ogni angolo del pianeta, che speravano solamente di vivere in un ambiente al passo con i tempi e con un presidente democratico – e mai con Trump al comando della nazione che li ospita.
Ventidue anni dopo l’ascesa dell’imprenditore Berlusconi in Italia, lo spauracchio del politico-televisivo che si vende come nuovo si presenta alla popolazione americana e con maggiore intensità. Scorrendo le parole del giornalista bresciano vi si può leggere da subito il tracollo emotivo degli/lle startuppari, e della gente che anima la Silicon Valley e della California tutta.
Un sisma politico, anzi, un grosso difetto che può essere definito come “Millennial Bug”, che nel libro farà dire a qualcuno che “Trump è la cosa peggiore successa nella mia vita” (immaginate di sentire come colonna sonora la Cavalcata delle Valchirie di Wagner). L’apocalisse socio-politica è servita. Ma la Silicon Valley non ci sta. Si fa sentire rumorosamente, si ribella!
Prima delle ultime elezioni, Reid Hoffman (cofondatore di LinkedIn) aveva promesso che avrebbe donato la cospicua cifra di cinque milioni di dollari qualora Donald Trump avesse reso pubblica l’intera documentazione fiscale. Salvo poi scoprire “tardivamente” che – sopresa sopresa – grazie alla pubblicazione del New York Times in data 28 settembre 2020, Donald Trump non avrebbe tirato fuori neanche un centesimo nei dieci anni precedenti; versando da presidente nel 2016, e nell’anno successivo, una esigua somma di soli 750 dollari di tasse federali.
Il risultato delle presidenziali del 2016 costituisce uno spartiacque nella storia americana recente e nella cultura occidentale tout court. Qui Masneri pone subito le basi per quello che sarà il contesto locale e nazionale – a cui ruoteranno attorno le sue vicende di acuto e serafico reporter.
Tutti hanno minacciato di emigrare, come gli intellettuali italiani con Berlusconi. Nessuno naturalmente lo farà (come con Berlusconi, anche, arriva la negazione: è colpa del sistema elettorale, perché Hillary ha avuto più voti popolari. È colpa dei russi. Poi, dei social).
Steve Jobs non abita più qui non si limita però a raccontare la lunga ed estenuante notte delle elezioni, di una popolazione attonita e avvilita dal risultato il giorno dopo, l’ascesa del nuovo e prepotente (e molti altri aggettivi poco lusinghieri) presidente al comando. Il compendio delle cronache siliconvalliche è stratificato è vuole essere tante altre cose riuscendoci brillantemente.
Quello di Masneri non vuole essere affatto un oggetto dall’intenzione archeologica: certamente ne imbottiglia lo spirito del tempo vissuto in loco, ma punta lo sguardo ad altri temi caldi che presto avrebbero attraversato il vecchio continente e tuttavia di stringente attualità (se non profetici).
La Silicon Valley raccontata dal giornalista bresciano si è manifestata nel nostro paese un po’ come il film Tenet: “il presente è sempre stato sotto attacco dal futuro” Un volume che vale come un boomerang che torna sulla attualità tricolore. Nella culla delle startup sono scoppiate di fatto tutte quelle vicende che vanno dal movimento #metoo (più nota con il caso Weinstein in quel di Hollywood) – avente come primo episodio Sarah Fowler e le continue molestie subite in casa Uber – e del becero cameratismo che vi si respirava già da diverso tempo.
E a proposito di mezzi: Masneri dedica un capitolo, tra i più riusciti e i più cupi, al trasporto delle compagnie aziendali quali Google, e nella fattispecie al suo Google bus (come simulacro delle nefandezze aziendali che vanno contro ogni principio etico).
Nella valle machista c’è anche spazio per il bel ritratto di Alice Waters: cuoca che con il ristorante Chez Panisse ha rivoluzionato la cucina locale, introducendone una nuova e più vicina all’healthy food e con degli ingredienti freschissimi (bye bye surgelati). Ma nei vertici delle aziende, fino a qualche anno fa affollati rigorosamente da manager maschi (gli stessi che insabbiano i casi di molestie e di stalking), la musica ha cominciato finalmente a cambiare verso.
La California rimane ad oggi l’epicentro del progresso civile e sociale, ma con luci e ombre che si proiettano su tutto il resto del mondo occidentale; che arranca sulle ultime conquiste civili e che invece opprime e reprime le voci delle minoranze.
Ma la California, d’altronde, è sempre stata lungimirante in tal senso: le illustrazioni omoerotiche di Tom of Finland hanno edificato l’iconografia gay a San Francisco nel 1964. Città talmente all’avanguardia che ricevette il titolo di Capitale gay d’America. Recentemente resa omaggio dalla coreografia di Costantino della Gherardesca nella trasmissione Ballando con le stelle.
Mentre la vita e le proteste antirazziste e antiomofobia acceleravano, e proseguono incandescenti in questo momento storico negli USA per mezzo di BLM, in Italia si fa la fila per prendersela con il cosiddetto movimento del politicamente corretto – accompagnato dal solito adagio “ah ma non si può dire più nulla”, negando o, addirittura minimizzando, alcune problematiche legate all’uso della controversa blackface. Negli states rimane una discussione matura che ha messo a tacere una pratica antica, ormai sparita da ogni palinsesto televisivo e in ogni prodotto audiovisivo. Una tematica che in terra nostrana appare distante e incomprensibile a una folta schiera di giornalisti, e ancora adesso a tante trasmissioni mandate in onda in prima serata sulla tv di stato (ci ha provato Ghali via Instagram a sensibilizzare sulla questione, ma ahinoi rimane inascoltato).
A portare avanti questa crociata della tanto decantata libertà di pensiero, troviamo sempre schierati in prima linea gli streamer del Cerbero Podcast; spesso oggetto di raccolta firme #freecerbero perché gli venga tolto “il magico e ingiusto” ban di Twitch. Come se nessuno sapesse che nelle loro dirette, ospitate dalla piattaforma viola, i ragazzi avanzano discorsi e frasi discutibili sulle delicate questioni di genere con troppa disinvoltura.
E con il politically correct se la sono presa gli scrittori Jonathan Franzen e Bret Easton Ellis: intervistati dallo stesso Micheli Masneri, resi dei veri e propri mattatori nelle ultime pagine più concitate e appassionanti di Steve Jobs. L’autore di Le correzioni e Libertà si mette a nudo raccontando l’odio che prova nei confronti del popolo di Twitter che – a detta sua – ama farsi odiare e a stare al centro dell’attenzione per qualsiasi polemica sterile del giorno.
Franzen preferisce dedicarsi ossessivamente (?) ai volatili e al birdwatching, che sicuramente lo tengono distratto e ben distante dalla politica e dai cinguettii social. L’altro zio brontolone è proprio BEE, che vive a Los Angeles con il suo compagno millennial. Anche lui non ha avuto vita facile sul social azzurro, perché ce l’ha contro tutto e tutti/e dedicando loro parole al vetriolo nei suoi post (ultimi bersagli David Foster Wallace e la regista Kathryn Bigelow), Nel libro è alle prese con la vendita di un personale merchandising, e degli script per ideati il piccolo schermo, ma che si sono rivelati uno più fallimentare dell’altro (si direbbe che The Lady di Lory Del Santo abbia fatto scuola).
Ellis, in preda a una forte crisi di mezza età, ricorda con forte nostalgia gli anni ottanta: momento in cui dava alle stampe l’esordio cult, e deflagrante manifesto letterario generazionale, Meno di zero.
L’autore intervistato da Masneri, prima che avrebbe nuovamente sollevato il vespaio con Bianco (“The Boomer’s Compliant”, cit.), se la prende aspramente anche con il compagno con cui convive, da lui apostrofato come “millennial socialist”; ma il ragazzo è disgustato e depresso dalle ultime elezioni americane di cui sopra. BEE appare nelle tristi vesti di nobile decaduto, il cui impero artistico e intellettuale è stato smantellato con l’avanzare insesorabile del tempo. Lasciandosi dietro i luccicanti trascorsi da autore di successo e da giovane prodigio della letteratura americana.
Ma chi lo ama? Chi?’ esala. ‘Come si fa ad amare Twitter, oggi? E perché bisognerebbe amarlo?’ Fra l’altro l’uccellone azzurro di Twitter è uguale a quello che campeggia sulla copertina del suo Libertà
Milionari e miliardari. Scrittori e opinionisti. Direttori di giornali e politici. Imprenditori e streamer.
Tutti gli uomini si stanno riunendo attorno a uno strano falò. Un po’ come accade in una puntata de I Simpson, in cui dei nostalgici imprenditori miliardari (poco più avanti sono invece relegati i “reietti milionari”) si scambiano dei ricordi vantandosi al contempo delle loro proprietà e delle ricchezze – molte di queste andate perdute come lacrime nella pioggia.
Nel mondo si sta consumando da un po’ il falò delle vanità delle vecchie generazioni, che nella Silicon Valley riportata abilmente da Michele Masneri non durerebbero nemmeno un giorno.
Una cosa divertente che non farà mai più, o forse sì?
Simone Tribuzio (Terracina, 1991) lavora dal 2015 come ufficio stampa per case editrici di fumetti. Ogni mese invia la newsletter di approfondimento culturale Sticky Drama. Scrive per Esquire Italia, minimaetmoralia, Noisey (Vice), Altri animali, e ha scritto per le riviste Il Mucchio Selvaggio e Finzioni Magazine. Dal 2020 è coordinatore della Classifica di Qualità Fumetto per L’indiscreto. Sempre nel 2020 entra a far parte della web tv Decamerette con uno spazio dedicato al fumetto e alla musica.
