Le storie che ci raccontiamo non sono mai innocenti. Ci insegnano chi siamo e chi possiamo diventare. Questa una delle riflessioni centrali di Deforme (Nottetempo, 2025) di Amanda Leduc, in un testo che è insieme memoir, saggio critico e atto politico. Non si tratta soltanto di un libro sulla disabilità: è piuttosto un’indagine sull’ossatura invisibile che sostiene le culture occidentali, un’ossatura fatta di fiabe, miti e narrazioni popolari che, con la forza della ripetizione, hanno modellato i nostri sguardi. Leggere Deforme significa prendere coscienza di come quelle stesse storie che ci hanno cullato nell’infanzia siano anche matrici di esclusione.
Leduc insiste sul nesso tra bellezza e bontà, deformità e malvagità: «Nelle fiabe, la bellezza è sempre una ricompensa, mentre la deformità diventa una punizione». Da Biancaneve a La Sirenetta, dalla matrigna di Cenerentola a Ursula, il corpo non conforme diventa sempre minaccia, deviazione, difetto morale. Un repertorio che la Disney ha codificato e diffuso su scala globale, facendo di certi archetipi la grammatica stessa dell’immaginazione infantile. Così, il volto affilato e sinistro di Malefica o la gobba di Frollo non sono meri dettagli estetici: sono dispositivi di senso, destini narrativi già tracciati.
Qui si innesta il legame con altre opere letterarie. Come Gregor Samsa in La metamorfosi (Vallecchi, 1934) di Kafka, anche i personaggi “deformi” delle fiabe si risvegliano in corpi che li condannano. Come il mostro di Mary Shelley, portano inciso nella carne lo stigma della società. La differenza, suggerisce Leduc, è che mentre Kafka e Shelley rendono visibile la violenza del pregiudizio, le fiabe popolari la naturalizzano, la rendono invisibile perché apparentemente innocente. È questo il veleno sottile del mito: l’abitudine.
Leduc ribadisce con decisione che la disabilità non è un’allegoria, né un codice segreto per dire altro e questo sposta radicalmente il baricentro: il corpo disabile non è un segno da interpretare, ma un’esperienza da riconoscere. Dove la tradizione fiabesca tendeva a usare la deformità come simbolo di male o di colpa, Deforme rivendica il diritto alla concretezza, alla materialità della vita vissuta. In questo, il libro si avvicina ad altre voci contemporanee che hanno rifiutato l’uso strumentale della malattia o della diversità – pensiamo ad Audre Lorde con il cancro, o a Eli Clare nei suoi scritti sul corpo e la natura. Leduc ci ricorda che leggere la disabilità come “simbolo” è già un atto di cancellazione: significa sottrarre umanità a chi vive quella condizione, riducendolo a funzione narrativa.
Il libro però non si ferma alla diagnosi. È anche un invito a riscrivere le narrazioni, a sovvertire i ruoli. Perché raccontare diversamente significa vivere diversamente. Qui Leduc si avvicina a esperimenti letterari come Wicked (Sonzogno, 2006) di Gregory Maguire, che rovescia il punto di vista del Mago di Oz (L. Frank Baum, Mursia, 1949), o a serie come Game of Thrones (2011-2019), dove un personaggio come Tyrion Lannister incarna la complessità di un corpo non conforme che non può più essere ridotto a caricatura. Nel cinema, pensiamo a The Elephant Man (1980) di David Lynch, che interroga lo sguardo voyeuristico dello spettatore. Nella musica, la trasgressione estetica di David Bowie o la corporeità aliena di Björk hanno aperto spazi di possibilità, mettendo in discussione il binomio tra normalità e bellezza.
Deforme è un libro che si legge come un saggio, ma che pulsa come un diario intimo. Leduc racconta le difficoltà dell’infanzia, le operazioni chirurgiche, le attese in ospedale, ma subito dopo sposta lo sguardo sulle logiche narrative che trasformano la diversità in colpa: il corpo non è mai solo biologico, è sempre un campo di battaglia simbolico.
La scrittura non teme l’oscillazione tra registri, anzi la rivendica: perché solo così si può restituire la complessità di un tema che non è né puramente individuale né puramente collettivo. In questo, Leduc si inserisce in una tradizione che va dai disability studies anglosassoni fino a scrittrici come Audre Lorde, che hanno intrecciato corpo e teoria, autobiografia e militanza.
La risonanza contemporanea di Deforme è evidente. Se da un lato denuncia i meccanismi narrativi del passato, dall’altro illumina le trame del presente: la figura del “diverso” è ancora centrale, ma raramente emancipata. Pensiamo alla dialettica tra supereroe e villain, dove la deformità o la menomazione diventano ancora spesso segno di corruzione interiore (Darth Vader, Thanos, il Dottor Destino). Contro questa semplificazione, Leduc oppone una pluralità di storie, un mosaico di possibilità che si oppone alla logica binaria del bello/brutto, sano/malato, buono/cattivo.
Ma ciò che resta, chiudendo il libro, non è soltanto l’analisi culturale. È soprattutto la forza testimoniale, la tenacia con cui l’autrice rivendica la dignità di ogni corpo. Deforme non è un manifesto vittimista, bensì un atto di resilienza. La scrittura diventa una forma di resistenza, uno strumento per abitare la vulnerabilità senza vergogna. In questo senso, il testo non è rivolto soltanto a chi vive una disabilità, ma a chiunque si senta escluso da un modello normativo: per peso, per genere, per orientamento, per colore della pelle. È un libro che parla della disabilità, ma parla anche della condizione umana, del desiderio universale di essere visti e riconosciuti.
La sua lezione più radicale è che non esistono corpi neutri, e che la neutralità stessa è un mito, costruito e imposto. Se «raccontare storie significa costruire mondi. Se raccontiamo sempre gli stessi mondi, chi non vi trova posto resterà per sempre escluso», Deforme ci affida un compito: guardare di nuovo le fiabe che conosciamo, smontarne i codici, e soprattutto inventarne di altre, facendolo diversamente. E questo è un programma politico e letterario: in un’epoca in cui i racconti sono sempre più globali e pervasivi, non c’è atto più rivoluzionario.
Ilaria Padovan nasce a Pavia nel 1990 e lavora in consulenza a Milano. Suoi racconti sono comparsi su «Topsy Kretts», «Crunched», «Risme», «Turchese», «Grado Zero», «Yanez»., «Pastrengo», «Wertheimer», «Gelo». Si è classificata terza a «8×8, si sente la voce 2024». Ha tradotto dall’inglese per «Turchese». Collabora con Treccani, Il Tascabile, The Vision e Limina.
