Nel 1502 circa Albrecht Dürer incise la Nemesi, era alla ricerca di un metodo corretto per costruire la prospettiva all’interno di una incisione o di un dipinto. E come fare se non cercando di imparare da chi sulla prospettiva e sulle proporzioni stava lavorando già da molti anni? Quando ultimò la Nemesi, il tentativo fu quello di riportare le proporzioni dell’uomo vitruviano su un corpo femminile, quello della dea della vendetta.
Ma, come appare evidente, il risultato ottenuto non fu ottimale, ed è così che passo dopo passo, studio dopo studio, nelle incisioni successive fu introdotto uno degli strumenti di cambiamento: le proporzioni erano legate alla prospettiva, e quale miglior strumento di costruzione dell’incisione se non il contesto all’interno del quale collocare il soggetto? E così nel 1504 circa fu ultimata la natività. I corpi ritratti erano all’interno, in questo caso, di una struttura architettonica ben precisa, con linee orizzontali, verticali, tutto estremamente preciso, ma estremamente innovativo per gli inizi del ‘500. Ma ciò che ancora risulta essere significativo è il ruolo del corpo nello spazio, lì dove acquista il suo statuto di corpo e in particolare di corpo materiale. Dürer cercando le proporzioni del corpo mostrò come il contesto era in grado di rivoluzionare la rappresentazione, fornire prospettiva e possibilità di interpretazione. Concentrandosi soltanto sul corpo avrebbe probabilmente perso quello che è il rapporto tra il corpo e lo spazio, come oggetto tra gli oggetti, rispondente anch’esso alla prospettiva.
È anche in quest’ottica di relazione che bisogna guardare le opere d’arte visuali che troviamo oggi nei musei, nelle gallerie, ma anche sui social e sulle riviste. È in quest’ottica che si genera il rapporto, perché è questo che non era possibile cogliere nel 1500 e che invece oggi risulta centrale. C’è un rapporto tra ciò che viene rappresentato, un corpo nel caso specifico, e ciò che lo circonda, ma non termina qui la reciprocità, perché c’è anche sempre un rapporto tra ciò che viene prodotto e colui o colei che lo produce. Ciò davanti a cui si era fermato Dürer è stato elaborato dalla storia della pittura e successivamente da quella della fotografia: cos’è quel meccanismo di scambio spaziale e temporale che toviamo nell’immagine artistica prodotta dall’uomo?
Ma a cosa serve parlare di Albrecht Dürer per comprendere la fotografia di Guen Fiore? È proprio attraverso l’esempio di Dürer che si riesce a capire cosa è avvenuto e qual è la forza che ogni foto riesce a portare fuori di sé.
Bisogna infatti iniziare con il guardare alcune delle prime foto realizzate da Guen Fiore per comprendere la presa di coscienza degli spazi e della relazione. Sin dall’inizio era il contesto a creare lo stile della foto, ci sono foto realizzate in luoghi anonimi, che presentano una selezioni di colori neutra (tipo FRIENDSHIP NEVER DIES. Pubblicata il 07/12/2011) o foto come (LA VECCHIA PARIGI… Pubblicata il 13/11/2011) lì dove i colori di una parigi d’inizio ‘900 prenono il sopravvento sulla composizione della foto stessa.
La relazione era performativa sul paesaggio così come si presentava, mostrando però già una forza stilistica e visiva in grado di dialogare con i luoghi.
Ma è in questo rapporto tra contesto e soggetto fotografato che emergono lentamente, scorrendo nella produzione e negli anni, i punti caratterizzanti della fotografia di Guen Fiore, infatti i luoghi iniziano, man mano, ad essere funzionali all’idea di fotografia e i soggetti iniziano a guardare sempre più in camera, mettendo definitivamente in mostra quello che è il rapporto essenziale alla base dello strumento fotografico stesso: il rapporto tra fotografo e fotografato.
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È in questo spazio che Fiore costruisce le sue fotografie, nel rapporto, nell’esser guardanti al pari dell’esser guardati, nell’essere nello spazio al pari dell’esser fuori dallo spazio fotografato. Ed è per questo, ad esempio, che viene meno il concetto stesso di autoritratto, perché è già nell’altro il proprio, perché lo sguardo verso se stessi implica una contestualizzazione totalmente differente.
Ed ecco che i soggetti si mettono in posa, la finzione per eccellenza, la posa, diventa dichiaratamente la messa in scena dell’unica verità possibile, quella del contatto (visivo o tattile). Gli sguardi dritti in camera sono il rapporto stesso che viene ostentato fino al raggiungimento della sua impossibilità. Dentro e fuori, spazi interni e spazi esteriori, esser visti ed esser vedenti, tutto lo spazio che si relaziona, si crea nel contatto tra le cose, tra gli oggetti, tra i corpi.
Ovviamente anche il contesto e la composizione si adeguano a questa presa di coscienza, i colori si fanno più morbidi e uniformi di foto in foto, emerge lo stile con forza, soprattutto nei tagli, nei margini della foto, i soggetti gravitano attorno al rapporto, e in foto come Road To Woodstock, del 2015, si notano i segni di questo passaggio verso lo stile attuale, che necessariamente porta con sé anche il secondo aspetto caratterizzante delle ultime foto, la relazione è sempre contatto, il contatto tra i corpi è erotismo.
Erotismo inteso, anche qui, come un forma di scambio, di riconoscimento del corpo. Dallo sfiorarsi allo stringere tra le mani, il corpo diventa anche in questo caso irraggiungibile, mostrando, proprio lì dove l’erotismo si dà a vedere, l’impossibilità stessa di riuscire a raggiungere mai un corpo, né attraverso lo sfioramento, né attraverso il contatto che non può far altro che mostrare il suo più grande desiderio: la fusione impossibile.
Lo sguardo filtrato dalla fotocamera, così come il contatto, filtrato dall’erotismo, mostrano con forza la lontananza. I colori morbidi, saturati ma non tenui, sembrano perdere la lucidità come fosse una dimenticanza, una nostalgia del tempo.
Fino ad arrivare alle ultime foto nelle quali il contesto si spoglia sempre più. Ecco il ribaltamento, è il corpo che genera il contesto ora: si sfoca o si uniforma perché ci sono solo persone che guardano, guardano fino a non vedere più niente, fino a perdersi in chi le guarda: nello spettatore così come nella fotografa.
C’è qualcosa di irraggiungibile nelle foto di Guen Fiore, che è quello che lei crea nel momento dello scatto con i soggetti fotografati, che è sia in quello che loro comunicano, sia in quello che lei comunica loro. Qualcosa che lo spettatore non saprà mai, ma che è lì davanti talmente visibile che non è più possibile coglierlo.
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L’intervista
Forse è proprio da questo aspetto che si potrebbe partire per chiedere a Guen Fiore cosa accade mentre fotografi le modelle o i modelli, che tipo di rapporto crei o cerchi con ognuno di loro?
Solitamente tendo a non dirigere molto. Creo una situazione ed osservo chi ho di fronte, cercando di trarre il meglio dalla situazione e con i mezzi che ho a disposizione. Probabilmente la sensazione di intimità di molte delle mie fotografie dipende dal fatto che fotografo i miei soggetti spesso in spazi ristretti, per cui la distanza tra noi è davvero ridotta. Tendo a mantenerli fermi e a muovermi io molto attorno a loro. Il rapporto che si crea non è sempre lo stesso. Con alcune ragazze mi è capitato di scattare più di una volta, e di costruire un rapporto di reciproca stima. Con altre ragazze invece è puramente un rapporto professionale. Ma è sempre interessante vedere cosa ne viene fuori!
La seconda domanda che mi piacerebbe farti è più orientata, come si sarà compreso dalla lunga introduzione, al contesto, la composizione degli sfondi, così come quella dei colori, sui quali torneremo, negli ultimi anni si è uniformata, tranne forse nelle ultimissime foto che hai pubblicato realizzate in barca in salento (e che forse stanno mostrando un ulteriore cambiamento, lo scopriremo in futuro). La scelta dei luoghi o degli sfondi come avviene? Quanto sono importanti per la realizzazione stessa della foto?
La foto in Salento è stata fatta per un lavoro commissionato da Dior. A livello di location non ho avuto voce in capitolo, ecco perché forse è così distante da ciò che faccio normalmente. La considererei un esempio di quello che posso fare a livello “commerciale”, ma diciamo che almeno per il momento non anticipa alcun cambiamento 🙂
Per quanto riguarda l’“evoluzione” degli sfondi e dei contesti, penso dipenda fondamentalmente dal mio approccio fotografico che è cambiato nel tempo. Quando ho iniziato a fotografare nel 2014 con le mie amiche ed esclusivamente per me stessa, avevo un approccio che potrei forse definire cinematografico.
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Mi piaceva la messa in scena. Immaginare una situazione, i “costumi” e cercare la persona adatta per interpretare la parte. E la location aveva un ruolo fondamentale.
Nonostante io ritenga ancora che lo sfondo sia determinante per una foto, quando vuoi raccontare una storia fittizia la location è cruciale. E dato che ero molto orientata al passato andavo alla ricerca di appartamenti con carta da parati, furgoncini vintage e cose del genere.
Nel 2018, dopo una lunghissima pausa di riflessione, ho ripreso a fotografare con un approccio completamente nuovo. Prima di tutto ho iniziato a ritrarre persone che non conoscevo, e a considerare la persona in quanto tale (e non come personaggio) come il fulcro della mia fotografia. Forse è per questo motivo che gli abiti e le location articolate sono venute lentamente a mancare. Adesso sono molto più focalizzata sulla persona e su una realtà oggettiva, piuttosto che su una fittizia.
Ho iniziato man mano a creare immagini sempre più semplici ed essenziali, con un forte legame con la realtà. A questo punto anche se la location è un semplice angolo di una stanza, contribuisce a raccontare qualcosa sul soggetto.
Negli ultimi mesi probabilmente sto attraversando una nuova fase di evoluzione che non è troppo chiara neanche a me ad essere onesti, e probabilmente sto ancora sperimentando.
Ma sto cercando di integrare la “moda” nella mia ritrattistica, e gli sfondi stanno scomparendo. Ma è tutto in progress!
Sui colori invece c’è qualcosa che, a mio avviso, rimanda a una luce più nordica raccontata anche molto bene da Roy Anderson nella sua trilogia sull’esistenza (in particolar modo in “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”), qualcosa che racconta quella freddezza, quella distanza che però tu colmi in maniera abbastanza forte attraverso gli sguardi e i corpi. Quanto i luoghi in cui fotografi influenzano i colori che utilizzi poi nella postproduzione delle foto?
Moltissimo. Più che i luoghi, direi la luce. A seconda dello spazio e del momento in cui scatto, quando lavoro con sola luce naturale, la luce cambia completamente e continuamente. Non ho mai idea di come lavorerò le mie foto in post produzione nel momento in cui scatto, le considero due fasi completamente distinte. A volte mi viene in modo automatico e riesco a “sistemare” una fotografia in letteralmente meno di un minuto. È come se luci, ombre e colori funzionassero alla perfezione insieme. Altre volte invece la post produzione richiede più tempo, magari perché nella fase di scatto ho sottovalutato alcuni elementi. Comunque sicuramente i “colori” e la tipologia degli ambienti influenza notevolmente il risultato della foto in base al “mood” che le trasmettono. Quando mi trovo al computer con la foto davanti, capisco che direzione dargli in termine di tonalità.
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Per finire volevo chiederti in che modo il racconto del corpo che tu fai nelle tue foto ha poi implicazioni sociali. La naturalezza con la quale i corpi appaiono, racconta di persone con quelli che comunemente vengono definiti difetti, difetti che ognuno degli spettatori potrebbe avere, ma racconta anche della riappropriazione di un corpo che richiede, attraverso lo sguardo, anche un riconoscimento sociale vero e proprio. Quanto influisce questo aspetto nella scelta delle modelle (professioniste o meno) e nella composizione della foto?
La società influenza la percezione che noi abbiamo degli altri e di noi stessi più di quanto riusciamo ad immaginare. Io scatto foto a ragazze che personalmente trovo belle per svariati motivi. Penso che l’elemento che abbiano in comune tra loro sia la naturalezza, la semplicità, l’autenticità e la giovane età (per il momento il mio interesse ricade su una fascia di età abbastanza giovane). Quando ho iniziato a scattare foto a queste ragazze non avevo in mente di farne uno “statement” sociale. Le ho fotografate solo perché le trovavo belle ed interessanti.
Dopo un po’ ho iniziato a rendermi conto di quello che stavo costruendo grazie ai feedback che ricevevo, soprattutto dalle ragazze.
Alcuni bellissimi, che mi hanno fatto sentire fiera di quello che stavo facendo. Alcune ragazze mi hanno detto che grazie alle mie foto avevano ritrovato fierezza e sicurezza, e questo mi ha sorpreso e reso incredibilmente felice.
Alcuni decisamente meno carini. Alcune ragazze sono state definite brutte, non sane, grasse e come dici tu ne sono stati sottolineati solo i “difetti”.
Questo perché credo che la società ci abbia abituato esclusivamente alla visione di immagini di donne “perfette”, ad un livello tale che una bella ragazza “normale” viene percepita male. E ti dirò di più, soprattutto dalle donne!
Io sono sicura che la metà degli uomini e delle donne che hanno criticato alcune delle ragazze che ho fotografato, se le incontrassero per strada si volterebbero a guardarle. È da folli considerare grasse alcune ragazze solo perché messe in una determinata posizione mostrano un po di cellulite. Soprattutto perché io non conosco nessuno che non la abbia nella stessa posizione! È il rapporto cellulite = grassa che è sbagliato.
Non penso di aver mai fotografato una ragazza grassa o non sana, ma in foto la gente è poco abituata a vedere ragazze normali.
Mi piace l’idea di poter promuovere una “normalità” che secondo me andrebbe ritrovata ed apprezzata anche adesso che viviamo in un mondo di filtri instagram, foto ritocco e chirurgia estetica.
Inoltre lavorare con queste ragazze è stato terapeutico anche per me. Ci si costruisce una idea di come bisogna essere per poter essere considerate “belle”, e alla fine mi sono resa conto che la stragrande maggioranza delle persone, uomo o donna che sia, riesce facilmente a trovare il bello in forme diverse. Sempre grazie ai feedback che ho ricevuto.
Ed è bello vedere come queste ragazze si mettano in gioco e mostrino sicurezza in se stesse, nonostante sappiano che non rispecchiano esattamente i canoni imposti.
Luca Romano è nato nel 1985 a Bari dove insegna filosofia ai bambini. Scrive di letteratura e filosofia per Huffington Post Italia, Finzioni Magazine e Logoi.ph.
