Pubblichiamo un estratto dal libro di Vincenzo Frungillo Il rischio e la perdita – su identità e linguaggio in Martin Heidegger, uscito per Mimesis. Ringraziamo editore e autore.

di Vincenzo Frungillo

Con il termine Selbst si verifica dunque quel soffermarsi sulla parola, quell’insistere sul senso che è tipico di Heidegger; anche se questa volta il termine vale come direzione di domanda (Richtungfrage) preliminare rispetto all’essenza del linguaggio. Ora, ciò che conta sottolineare è quanto il non poter riportare il senso di questo termine in un concetto generale renda, e anzi aumenti, il carattere sorprendente della stessa presenza dell’uomo: il sorprendente attiene allo stupore che l’uomo prova nei confronti dell’altro da sé e nei confronti di se stesso. Ed è proprio per questo motivo che la domanda circa il Selbst è preliminare, perché essa, più che poter essere chiusa in una risposta definitiva, conduce chi domanda, verso questa stessa parola, ad un’apertura ancora maggiore. Parola che non esaurisce mai il suo portato in un significato definitivo, anzi, fissa come stupefacente la presenza dell’uomo: dice il valore di ogni cosa come “appello, denominazione e resa”. In uno dei primi interventi in Italia su questo corso di lezioni, Giometti si sofferma a considerare proprio l’aspetto fondamentale dell’uomo come Selbst. La sua analisi linguistica offre degli spunti interessanti. Dice:

Nel linguaggio corrente dire: io stesso può significare: proprio io, io e non un altro, io in persona, oppure anche: persino io; il valore aggiunto dal Selbst, quando è usato così, il suo termine di riferimento è rafforzativo, ma del tutto impalpabile; nella definizione di Heidegger non vi è più la cosa trascesa verso se stessa, ma resta solo un trascendimento senza cosa, quella che si può definire una pura intensificazione. Ci avviciniamo in tal modo all’idea deleuziana di ‘uso intensivo asignificante’ della lingua, un uso che, a quanto pare, nella filosofia di Heidegger è in grado di sostituire le ‘definizioni’ in senso tradizionale, alla ricerca di possibilità inesplorate del pensiero.[1]

Si può per questo accettare quanto dice Giometti sul ruolo centrale del Selbst:” Si potrebbe ipotizzare che è in quanto Selbst che l’uomo abita la “casa” sua e dell’essere, vale a dire il linguaggio, e che dichterisch auf dieser Erde zu wohnen non significa altro che abitare il linguaggio in quanto Selbst. Quindi (in conformità alla deflagrazione del soggetto) non abitarlo né come soggetto di enunciato, né come soggetto di enunciazione, ma nella pura intensità del Selbst.[2] Volendo riassumere in una formula il ruolo cruciale che questo termine occupa nella meditazione heideggeriana si può affermare che il Selbst dispone di volta in volta la domanda preliminare circa il linguaggio perché raccoglie e sostiene la Fraglichkeit propria di ogni singola esistenza come relazione di senso e significato, di essere e ente, di identità e differenza. In questo senso si può porre ancora una precisazione seguendo quanto dice Agamben a proposito dell’identità e dell’ipseità: “La relazione espositiva fra l’esistenza e l’essenza, la denotazione e il senso, non è una relazione di identità (la stessa cosa, idem), ma di ipseità (la cosa stessa, ipsum). Molte confusioni, in filosofia, nascono dall’aver confuso questa con quella. La cosa del pensiero non è l’identità, ma la cosa stessa. Questa non è un’altra cosa, verso la quale è trascesa la cosa, ma neppure semplicemente la stessa cosa. La cosa è qui trascesa verso se stessa, verso il suo esser tale qual è”.[3]

Questo passaggio di Agamben è commentato nell’articolo di Giometti Der Mensch ist ein Selbst: “Si può osservare come il discorso di Heidegger sembri andare oltre questa impostazione. Nella sua definizione dell’uomo l’ipseità è bensì presente, ma senza alcun termine di riferimento sostanziale, senza la cosa[4] A proposito del “trascendimento senza cosa” del termine Selbst, a cui Giometti fa riferimento secondo un’impostazione tipicamente deleuziana, bisogna fare un’ulteriore precisazione. Il Selbst non dice la “cosa”, come giustamente nota Giometti, ma non per questo non deve riferirsi ad una ben individuata singolarità. La mancanza di riferimento sostanziale non deve portare all’oltrepassamento dell’individuazione. Questo è quanto fa Heidegger alla fine del corso del trentaquattro, quando inizia la definizione dell’identità del Selbst come Volk, andando oltre il Selbst quale identità del chi dell’esserci. Su questo punto, l’ipseità di Agamben la dice lunga. Il Selbst, più che essere sostanziato e ridotto nella sua eccedenza, può essere ancor più intensificato se riferito come ipseità del singolo. Il Selbst è il nome proprio del chi dell’esserci, ma l’intensificazione maggiore di questo termine è data dal suo presentarsi come nome proprio della singola persona. Si pensi a questo proposito alla resa del nome proprio di uso comune. L’ipseità, dunque, non perde stupefacenza e mistero se denotata con il nome proprio delle singole persone. Anche se il singolo a cui appartiene quel determinato nome fosse individuabile, ciò non significherebbe affatto che appellarlo o nominarlo specifichi una riduzione della stupefacenza della presenza dell’uomo e del suo mondo, anzi, proprio l’intensificazione, che il nome proprio garantisce, permette il mostrarsi sorprendente dei singoli e dell’apertura di senso e di mondo. Senza il nome proprio, l’ipseità dell’uomo rischia ancora di essere dispersa in una definizione deterministica o assolutistica della sua essenza, cosa che di fatto accade allo stesso Heidegger.

Il nome proprio garantisce l’originarietà e la singolarità della significatività nella quale si è coinvolti: una determinata trama interpretativa si snoda nell’articolazione dell’appello e della resa a cui costringe un determinato nome: esso ha così una “funzione intima e fondamentale”, nell’articolazione del dire dell’uomo. Scrive Benjamin nel suo saggio Sulla lingua: “La teoria del nome proprio è la teoria dei limiti della lingua finita rispetto a quella infinita. Di tutti gli esseri l’umano è il solo che nomina egli stesso i suoi simili, come il solo che Dio non ha nominato.”[5] Quindi il Selbst in quanto parola che dice il chi stupefacente dell’uomo è l’identità dell’uomo come ipseità (Selbstheit), almeno nella misura in cui in essa non è possibile scorgere un elemento sostanziale che la sostenga in un determinato significato. L’ipseità è lo scacco di ogni significato concettuale che sostantivizzi e assolutizzi, è l’individuazione e l’intensificazione della relazionalità originaria dell’uomo che regge e offre trazione all’articolazione del discorso umano. L’ipseità, la Selbstheit, dell’uomo comprende la possibilità dello snodarsi del Mitdasein in molteplici e contemporanee significatività oltre qualsiasi determinismo. Usando le parole di Carlo Sini, si può dire che questo termine rileva il senso aporetico più proprio dell’essere umano. Ruggenini parla a questo proposito invece di eccedenza dell’uomo, nel suo essere costitutivamente un punto di differenza. Il Sinn che eccede è già la “direzione di una domanda”. Lo stesso chi dell’uomo, nella sua essenza stupefacente, è allora il punto in cui si realizza la Fraglichkeit esistenziale come apertura originaria di Sinn e Bedeutung. È ancora Agamben a venire in aiuto in tal senso:

Senso e denotazione non esauriscono la significazione linguistica. Occorre introdurre un terzo termine: la cosa stessa, l’essere tale quale, che non è né il denotato né il senso. […] Non l’essere assolutamente non posto e irrelato (athesis), né l’essere posto, relativo e fittizio, ma una esposizione e una fatticità eterna: aeisthesis, una sensazione eterna. Un essere che non è mai esso stesso, ma è solo l’esistente. Non è mai esistente, ma è l’esistente, integralmente e senza riparo. Esso non fonda né destina né nullifica l’esistente: è solo il suo essere esposto, il suo nimbo, il suo limite. L’esistente non rimanda più all’essere: è nel medio dell’essere e l’essere è interamente abbandonato nell’esistente. Senza riparo e, tuttavia, salvo –salvo nel suo essere irreparabile. L’essere, che è l’esistente, è per sempre salvo dal rischio di esistere esso stesso come cosa o di essere nulla. L’esistente, abbandonato nel medio dell’essere, è perfettamente esposto.[6]

Volendo raffigurare in un’immagine il percorso heideggeriano tracciato finora, si potrebbe dire che il Selbst costituisce lo spettro attraverso il quale la luce diffusa irradiata dalla struttura esistenziale prende forza e colore. Detto in altri termini, nel punto del Selbst è possibile riunire i caratteri discussi finora e da questo stesso punto è possibile partire per tentarne una descrizione meno astratta. Nel singolo uomo, come punto ineffabile della sua unicità, si devono riconoscere i caratteri esistenziali, e solo a partire dalla rinnovata problematicità circa se stessi che questi caratteri accolgono e sostengono il senso del linguaggio. Heidegger, ponendosi la domanda sull’essenza dell’uomo, e riponendo tale domanda nell’eccedenza del singolo che si presenta con il suo chi stupefacente, riduce l’ambito dei suoi riferimenti teoretici all’identità dell’uomo. Ciò che preme ad Heidegger è chiarire il rapporto che sussiste tra il singolo uomo inteso come ipseità e il linguaggio. Fare questo significa interrogarsi sul senso che ha l’uomo come Selbst, tentare di dare una risposta all’apertura esistenziale che noi stessi siamo: per questo motivo egli si confronta apertamente con l’acquisita Fraglichkeit che è l’Anwesenheit (presenza) di ogni singolo uomo.

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[1]G. Giometti, Der Mensch ist ein Selbst, in AA. VV., Heidegger e la fenomenologia dell’esistenza.; Discipline filosofiche, IX, 2, 1999, p. 315.

[2]Ivi, p. 314.

[3]G. Agamben, La comunità che viene, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 79.

[4]G. Giometti, Der Mensch ist ein Selbst, op. cit. p. 315.

[5]W. Benjamin, Schriften, Frankfurt, Suhrkamp, 1955; tr it. di R. Solmi, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1995, p. 62. Cfr. inoltre, ivi, p. 57, dove Benjamin scrive: “Il nome ha, nel campo della lingua, unicamente questo significato e questa funzione incomparabilmente alta: di essere l’essenza più intima della lingua stessa […] È ciò che fonda la differenza tra lingua umana e quella della cosa […]” Ma Platone nel Cratilo, Milano Rizzoli, 1996, p. 87, aveva già stabilito che “il nome […] è uno strumento atto ad insegnare e a farci discerner l’essenza, come la spola il tessuto.” Sulla teoria del nome proprio rimando, inoltre, a letture d’impostazione fenomenologica, semiotica ed analitica: C. Sini, Col dovuto rimbalzo, in AA. VV., La giustizia del discorso, Milano, Jaka Book, 1984, pp. 13-50; J. Derrida, De l’hospitalitè, Paris, Calmon-Lévy, 1997, tr. it. di I. Landolfi, Sull’ospitalità, Milano, Baldini & Castaldi, 2000; S. Kripke, Naming and necessity, Oxford, Basil Blackwell, 1980; tr. it. di M. Santabrogio, Nome e necessità, Torino, Bollati Boringhieri, 1999. Cfr. inoltre il saggio di R. Barthes Proust et les noms in Le degré zéro de l’écriture suivi de ouveaux essais critiques, Paris, Editions du Seuil, tr. it. di G. Bertolucci, R. Guildieri, L. P. Caruso, R. L. Provero, Il grado zero della scrittura, Torino, Einaudi, 1982, pp. 118-132.

[6] G. Agamben, La comunità che viene, op. cit. pp. 82-83.

 

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