Nel “pomeriggio dorato” del 4 luglio 1862, un professore di matematica e logica a Oxford, il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, accompagna, in un piccolo viaggio in barca sul Tamigi fino a Godstow, tre bambine: Lorina, Alice ed Edith Pleasence Liddell. Per ripararsi dalla canicola, si fermano in uno spazio all’ombra e per la prima volta, su richiesta delle fanciulle, quel signore diventa Lewis Carroll e la Alice in carne e ossa muta nella Alice che scopre il Paese delle Meraviglie. La scena si ripete diverse volte, la storia piace alle bambine, e così, nella notte di Natale del 1864, Dodgson decide di raccogliere quelle storie in un piccolo volume manoscritto che ha, come primo titolo, “Alice’s adventures underground”. Quel libriccino, oltre a una maniacale e certosina grafia, contiene però non soltanto parole. Forse perché, come si legge nell’incipit, «Alice cominciava a essere molto stanca di starsene seduta accanto alla sorella sulla riva, senza niente da fare: una o due volte aveva sbirciato nel libro che stava leggendo sua sorella, ma non c’erano né figure né dialoghi, e a che serve, pensava Alice, un libro senza figure né dialoghi?». Alice inventava la moderna pedagogia, la contemporanea “pedagogia visuale”: secondo alcuni critici, sua sorella stava realmente studiando da un libro scolastico dell’epoca vittoriana, e noi immaginiamo la noia di quella sbuffante Alice sbirciante nei confronti di un libro che non riusciva a parlarle.

Con un salto di oltre centocinquant’anni, dalle tre sorelle di Carroll veniamo alle “due sorelle” di un libro che nasce proprio dal sodalizio di figure e dialoghi, di immagini e parole. Antonella Abbatiello, illustratrice con all’attivo un centinaio di libri per l’infanzia, ha deciso di scendere nel buio dei suoi cassetti (la Alice in stop-motion di Svankmejer è curiosamente alle prese anche con i tiretti durante le sue molteplici mutazioni) per recuperare alcuni lavori rimasti troppo tempo in ombra. Come una parola che viene fuori spontanea, come un “scusate, dovevo dirlo”. Il suo è un “scusate, dovevo mostrarlo”. Illustrare è illuminare, dare luce: l’opera deve venire alla luce. La fiaccola si è accesa come in un passaggio di testimone in un’olimpiade, e il corridore “fratello” è uno scrittore, poeta per l’infanzia per eccellenza: Bruno Tognolini. Come chiamare chi illustra con la parola? Si può illustrare un’illustrazione? Si può illuminare un dipinto, certamente, attraverso il discorso verbale. Allora ecco all’opera illustratrice e illuminatore. Se fotografia è scrivere con la luce, Tognolini ha cercato di scrivere la luce, quella luce che premeva dal buio. Di infilarsi in quel cassetto con Antonella (con la quale collabora da decenni, con risultati sempre degni di nota) e appuntare il disegno, il segno. Era già accaduto con l’albo illustrato “Maremè” (titolo sublime, profondissimo), in cui il poeta era arrivato dopo l’artista visuale e aveva disegnato la storia di un bambino che vive bagnato dal mare. Si era insinuato persino lì, dove brillano il rosa e il verdeacqua, l’oscurità: «Notte scura lunghissima, nanna nera incantata / Luna però tu guardami in questa traversata». La luce non esiste senza il buio.

Parola e immagine, segno e disegno. Di segni e disegni è composto quest’ultimo libro della felice coppia d’artisti, “Rime buie” (Salani, 2021). Ma come, abbiamo detto che lo scrittore illumina e cosa succede, le parole sono buie? Perché il gioco, la sfida è infinita: nel momento in cui la parola illumina l’immagine, la parola spende tutta la sua energia, acquista una forza oscura, e solo l’immagine può, a sua volta, re-infondergliela. «Di noi due chi è la più bella», si chiede Tognolini in queste “filastrocche per adulti”. Buie anche per questo insolito “destino”, questa incerta “destinazione”. Quali adulti? (Adulto a chi?) Eppure, a guardare l’immagine, le sorelle sono due lucertole, due animali che camminano su un tronco di luce lunare, ma lo scrittore ha illuminato oltre, ha illustrato altrove. Le due sorelle di questo libro sono allora i piccoli rettili sull’albero, ma anche la parola e l’immagine, dentro il contesto del testo, testo verbale e testo visuale nel loro gioco continuo, nel rapporto di sangue che a volte s’interrompe, bruscamente o “naturalmente”: ma si resta sorelle per sempre, anche venendo a mancare una delle due. Più avanti nel libro Tognolini scrive che «l’anima è passata / mentre cadevo giù / e io non l’ho guardata», come se il corpo fosse la scrittura, ma la scrittura senza l’immagine, senza il potere immaginifico è una scrittura cui manca lo spirito. «Chi ha visto la mia anima? / Mia perduta sorella / Era un viso, una nuvola? / Era bianca, era bella?».

Abbatiello mi ha condotto, a mo’ di illustratrice ed anche illuminatrice, tra gli spazi in cui oggi si snoda anche la mostra di questi disegni: non in una galleria d’arte, ma in una libreria, nel bookshop di Palazzo delle Esposizioni a Roma. Un luogo dove le immagini dell’illustratrice dialogano con le illuminazioni di Tognolini, ma anche quelle dei volumi su cui lei, diplomata con Scialoja all’Accademia di Belle Arti della capitale, si è formata. Proprio con Scialoja, principe sì della pittura astratta informale, ma anche della scrittura non-sense. Tognolini invece trova il senso, ricostruisce il filo di queste immagini di Abbatiello, creando storie, storie in cui cercare continuamente l’uscita, la luce, ancora, anche se «dalla selva non si esce». Lo spazio della libreria in cui il libro si mostra, l’illustrazione si illumina e la parola si disegna diventa la dimora ideale in cui rintracciare ancora altri fili, perché rintracciamo anche alcune fonti letterarie del poeta. Ma i fili più visibili sono quelli delle aderenze artistiche, delle influenze pittoriche, come quelli della pittura fiamminga o di Adolphe Appia, scenografo svizzero alla cui fonte Abbatiello si è nutrita copiosamente. Appia ha portato la luce in teatro, trasformando la bidimensionalità delle scenografie in spazio corporeo, proprio attraverso l’uso sapiente dell’illuminazione. Sembra aver risposto a questa domanda formulata nei versi di Tognolini: «Non c’è riparo dunque a questo scuro? / Perché, perché, perché?». C’è riparo, si può riparare. Si racconta che Appia non avesse mai visto uno spettacolo teatrale fino a tarda età, ma che, sebbene lo avesse desiderato fortemente, la prima volta che accadde rimase profondamente deluso, deluso dalla “piattezza” dell’immagine rispetto alla rotondità della parola e del suono. L’ultima immagine del libro, che è anche l’ultima del percorso della mostra, è “L’angelo”, un angelo che sembra sorgere dal bianco di gesso di un fondo nerissimo bagnato di un rosso infernale che resta, però, al fondo, è vinto. «Io dico il buio / lui non dice me / Una battaglia di cui l’angelo è degno / tu mi cancelli, buio / io ti disegno / Per mille secoli la lotta è una soltanto / Mi ammutolisci, buio / e io ti canto / Tu mi consumi, ma io resto vivo / Se tu mi bruci, buio, buio / Io ti scrivo / L’inchiostro è nero, ma la carta è bianca / Vieni, tenebra / Vediamo chi si stanca». Vediamo chi si stanca in questa lotta millenaria tra dire l’immagine e disegnare la parola, una sfida naturale, data per sempre.

 

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Autore

simonedibiasio@minimaetmoralia.it

Simone di Biasio è laureato in editoria e giornalismo alla Sapienza di Roma. Per Mimesis ha pubblicato il primo saggio in Italia sulla radiovisione col titolo Guardare la radio. Ha scritto due libri di poesia, Assenti ingiustificati (Premio A. Gatto) e Partita Penelope. È tra i fondatori dell’Associazione “Libero de Libero”, che organizza il Festival poetico "verso Libero" e il premio nazionale di poesia "Solstizio". Giornalista, scrive per Il Tascabile e Doppiozero. Ha un blog: unpoetico.com.

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