di Marco Malvestio
Dal 2 al 4 settembre 2022, lo scrittore americano William T. Vollmann sarà presente al Festival della Letteratura Indipendente di Pomigliano d’Arco. Era l’8 febbraio 2020 quando, in occasione della presentazione di Conversations with William T. Vollmann, un volume curato da Daniel Lukes che raccoglie alcune delle sue migliori interviste, mi ritrovavo alla libreria Unnameable Books di New York con una vasta pattuglia di altri vollmanniani americani a condividere la nostra esperienza con questo autore. C’erano accademici, scrittori, editori, e pure il suo research assistant, ossia la persona che fa le ricerche online per lui, gliele carica su un disco e glielo spedisce per posta, perché WTV non usa internet. A tutti noi era richiesto di parlare per una decina di minuti intorno a una questione: come ha cambiato la tua vita William T. Vollmann? Questa è la mia risposta, che ripropongo in occasione della visita dell’autore in Italia.
Com’è che William T. Vollmann ha cambiato la mia vita? Proverò a rispondere tra un minuto. Prima viene un’altra questione – che è forse il contributo più originale che posso portare in questa piccola riunione. Dal momento che il mio primo incontro con Vollmann ha avuto luogo in Italia, potrebbe farvi piacere sapere cosa significa leggere Vollmann dalla periferia dell’impero. So che lui è stato in Italia in diverse occasioni, e che ha incontrato pure Roberto Saviano, una volta. Alcuni racconti di Ultime storie e altre storie sono ambientati non lontano dalla mia città natale, Padova. E tuttavia, non ho storie o aneddoti da condividere su Bill, non l’ho mai incontrato né gli ho mai parlato per telefono. Quando ho letto per la prima volta Europe Central, nel 2014 (il primo libro di Vollmann che ho mai preso in mano), non avevo nemmeno idea di dove fosse Sacramento: la California, per me, significava Hollywood, non Imperial County; era un luogo insieme reale e inattingibile come il suo simulacro.
È piuttosto singolare che uno scrittore così ossessionato dalle periferie dell’impero americano circoli così poco nelle periferie stesse (ma potreste ribattere, naturalmente, che Vollmann non circola particolarmente nemmeno negli Stati Uniti). Una parte significativa dei suoi scritti non è stata tradotta in italiano, mentre molti testi importanti sono rimasti a lungo fuori catalogo – anche se, in questi ultimi due anni, minimum fax ha fatto un grande lavoro di ripubblicazione e traduzione ex novo di molte opere chiave. Difficile incolpare gli editori per quello che è rimasto fuori: dov’è il pubblico, in Italia, per le esperienze di crossdressing di uno scrittore cinquantenne (The Book of Dolores), o per le sue teorie sul teatro noh (Kissing the Mask)? Per me, tuttavia, questo ha significato che la lettura di Vollmann è coincisa con la ricerca dei suoi libri, dal momento che la mia conoscenza dell’inglese, all’epoca, mi impediva di capire lo slang del Tenderloin quando lo leggevo in lingua originale, e mi rendeva ostica la lunghezza poderosa dei Sette sogni. Oltre a Europe Central, Puttane per Gloria e Storie della farfalla erano stati pubblicati in italiano, ma restavano irreperibili; La camicia di ghiaccio era disponibile usato, e così Venga il tuo regno; mentre l’edizione tagliata di Come un’onda che sale e che scende poteva costare, di seconda mano, centinaia di euro (Storie della farfalla, La camicia di ghiaccio e Come un’onda sono nel frattempo stati ripubblicati da minimum fax). Ora che le traduzioni non mi servono più, sono usciti anche I fucili.
Fortunatamente, Europe Central, che a lungo è stato il solo libro di Vollmann facilmente reperibile in italiano, è anche di gran lunga il suo lavoro migliore, e per me ha rappresentato quasi un’epifania. A quel tempo della mia educazione sentimentale e letteraria, ero abituato solo al realismo di seconda mano della narrativa italiana contemporanea e alla lugubre giocosità del postmodernismo internazionale. Invece, leggere Europe Central mi ha rivelato un modo nuovo e diverso di fare le cose, non troppo distante dagli effetti speciali postmoderni, ma che si riappropria anche, nello spirito e nei modi, della grande tradizione romanzesca dell’Ottocento. Nel suo improbabile realismo, Europe Central unisce prosa lirica, modo epico, rappresentazione storiografica, riflessione metastorica, e paradosso etico. La sequenza di apertura, Acciaio in movimento, ricorda la Waterloo di Stendhal o le prime pagine dell’Uomo senza qualità: nervoso, spalancato, l’occhio del narratore contiene i destini di decine di personaggi, con un’estensione geografica e cronologica quasi senza precedenti nelle mie letture. Come cominciai a leggerlo, mi ritrovai incapace di lasciare Europe Central, avvolto dalle storie dei personaggi che conoscevo (Paulus, Akhmatova, Shostakovich, un certo Sonnambulo) e che non conoscevo (Vlasov, Gerstein).
Legata alla multiformità del suo sforzo letterario, c’è un’altra caratteristica del lavoro di Vollmann: tutti i suoi libri sono meravigliosamente imperfetti. Non riesco a pensare a un libro di Vollmann di cui posso dire senza remore che sia privo di difetti, impeccabile come lo sono i romanzi di diversi suoi contemporanei e predecessori. Ci troviamo sempre davanti testi che sono troppo lunghi, troppo caotici, il cui materiale narrativo procede orizzontalmente, con la logica dell’accumulo e della giustapposizione. Anche in Europe Central, in cui compaiono alcune delle storie più perfette di Vollmann (penso a Il sonnambulo e Mani pulite, per esempio), le parti su Shostakovich sono semplicemente troppo lunghe, mentre diverse storie si sarebbero potute omettere senza danneggiare il libro – anzi. E tuttavia, qui sta la grandezza di Vollmann: nel suo magnetismo, nel modo in cui forza il lettore a proseguire sempre più in profondità in testi che sono spesso ripugnanti, spesso incredibilmente lunghi, per cercare le magnifiche perle che ornano la sua prosa e la sua narrazione. Quando leggi Vollmann, il più delle volte non sai dove stai andando, ma continui a sperare che il libro non finisca.
Ci sarebbe molto altro da dire – l’empatia di Vollmann, sia nei romanzi che nei reportage, il modo in cui Vollmann registra, accetta, e cerca di capire ogni fenomeno, ogni evento, ogni individuo, meriterebbe un discorso a parte. Così come ogni cosa, per Vollmann, è degna di curiosità, ogni cosa è degna di rispetto. Questo è un altro dei grandi meriti del lavoro di Vollmann, e uno dei più problematici, che gli permette sì di addentrarsi nelle viscere e nei dilemmi morali di personaggi come Vlasov e Gerstein, e persino di Hitler, ma che allo stesso tempo fa suonare disturbante, a tratti, la totale assenza di giudizio con cui si avvicina a certi temi – uno su tutti, la prostituzione. Eppure, è un’assenza di giudizio che non coincide con una freddezza morale né con una mancanza di principi: come ci ricorda Vollmann, non dovremmo mai scrivere senza sentimento, e occorre sempre credere che la verità esista.
Oso dire, comunque, che se Vollmann ci presentasse libri più eleganti e raffinati, se ci presentasse scene di vita e della storia più chiare e in bianco e nero, non sarebbe il grande scrittore che è e che siamo qui riuniti a celebrare. In un tipico apologo vollmanniano contenuto in The Atlas (un apologo che amo molto), il nostro comune amico scrive: “Povero il biologo che ha dovuto provare (non ho mai saputo come) che il caribù canadese perde una pinta di sangue a settimana per colpa delle zanzare. Naturalmente i caribù hanno più sangue da sprecare di noi; forse non è così male come sembra, una pinta a settimana per il privilegio di essere vivi”. Una pinta di sangue in cambio dell’orrore e della meraviglia di essere vivi: questo è lo scambio che ci offre Vollmann – e sembra davvero un buon compromesso.
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