di Giuseppina Oneto

Peter Cameron l’ho voluto conoscere io, dopo che dall’Adelphi mi era arrivato il file di quello che sarebbe diventato Un giorno questo dolore ti sarà utile. Ero tornata da poco da New York, dove avevo vissuto quasi dieci anni e con quel romanzo avevo New York fra le mani,  fra le pagine: il ritmo, il frastuono della città, il mix unico di stramberie e insensatezze – ma tutte profondamente umane. E tutti i personaggi almeno in qualche punto erano profondamente umani.

Non mi stupisco che sia stato ripreso di recente dai Tiktoker, che li abbia affascinati un diciottenne incapace di comprendere l’insulso, assurdo mondo degli adulti e di sentirsi a suo agio con i coetanei; il James Sveck che rifiuta la modernità fagocitatrice delle fragilità e del silenzio. E che della conoscenza e dell’arte – e della Natura – riesce a farsi beffe.

In poche parole mi sono innamorata del testo e così ho voluto conoscere l’autore di un romanzo che sentivo rispecchiava anche me. Sono stata accolta da una persona gentilissima, con uno sguardo molto profondo, gli occhi intensi, nell’appartamento in cui è nato James. Avevo letto quasi ogni suo libro disponibile allora ed ero emozionata, mi sembrava di trovarmi di fronte a una persona che per vie molto indirette mi aveva raccontato tanto di sé e volevo mostragli quanto gliene fossi grata. Perché oltre ai tanti temi che tratta, mi sono trovata soprattutto davanti un autore che sapeva cogliere l’inesorabile senso dell’umorismo che ha la vita. E il tutto immerso nella potente eleganza della sua scrittura, con il suo tenue manto di classicità, con la brillantezza di certi dialoghi fulminanti.

I racconti che formano questo ultimo libro sono invece in grande parte una produzione dei primi anni (Ottanta e Novanta) e mettendomi al lavoro, ho ritrovato tante radici della scrittura di Cameron, tante direzioni che hanno preso forma negli anni successivi. Per esempio, un primo nucleo della tematica di Un giorno questo dolore ti sarà utile. E Andorra con la sua città misteriosa. La strada che ha portato a Il Weekend. Il surrealismo di Cose che succedono la notte. E ancora, Gli inconvenienti della vita, dove i dolori della giovinezza irrompono nella vecchiaia. Così mentre traducevo mi è capitato di riprendere in mano quei libri e rileggere piccoli passaggi per scovare alcune parole specifiche che ne sottolineassero la continuità.

Cameron in quegli anni era stato catalogato come minimalista, etichetta che non ha mai sentito sua, e anche se l’eco del Carver editato qua e là si sente, l’autore ha preso ben altre strade. Ha una sua unicità, sottolineata da Micheal Cunningham a proposito di  Cose che succedono la notte: «Questo libro non è paragonabile a niente di ciò che ho letto, la massima lode che si possa fare a un autore».

Di fronte a una scrittura che non presenta nella sua superficie – quella da cui comincia il traduttore (e sono sempre stata convinta che il traduttore faccia il percorso inverso dell’autore: dalla superficie al fondo, e non dal fondo alla superficie) – non presenta delle asperità particolari, è fluida, elegante, scorrevole,  ha delle citazioni letterarie incastonate con leggerezza, una certa circolarità delle ripetizioni – dei piccoli vortici provocati da ali di farfalla: la traduttrice nella lingua d’arrivo si trova davanti a contenuti uragani a cui trovare riparo, per restituire tale tessuto testuale, che avvolge il lettore, grazie alla sua struttura, al suo ritmo curato e anche a continui, ironici riferimenti a oggetti e luoghi reali che sottolineano e intensificano il testo, e lo trasportano fino alla soglia dei dialoghi. E qui Cameron è maestro, ha battute a volte fulminanti, divertenti e dei fraintendimenti che provocano malintesi, cortocircuiti linguistici; che mettono a nudo i bivi dove le persone non s’incontrano, o dove magicamente si riconoscono.

Gli strumenti analitici a cui ricorro sono fondamentali per ricostruire il linguaggio, ma questo non spiegherebbe del tutto da dove proviene la voce inconfondibile del testo;  gli elementi razionali competono e concorrono con altri elementi, quelli che, a mio parere, vanno a confluire nella parte più inafferrabile della traduzione. Cioè quella particolare evocazione del messaggio scritto che rivela molto più di sé stesso laddove tace certe cose e non ci fornisce informazioni esplicite. Che pur nominando non nomina, ma rimanda a qualcos’altro. Ecco, questo per me è il punto più delicato. E qui, nella mia visione della traduzione, è importante il bianco; il bianco sul quale la scrittura prende forma, il supporto – analogico o digitale – che sempre dovrà esserci per leggere quanto è scritto. È lì che respira il testo, cosa che ovviamente ha a che fare con il ritmo, ma anche con il non detto, come se fosse una cassa toracica in cui il testo si espande e si contrae e dunque vive, e fa muovere invisibilmente i suoi muscoli. Senza che il lettore se ne accorga sempre; ma è questa la parte che contribuisce alla vita dell’interpretazione del testo, a quella vita ulteriore che integra quella dell’originale e si moltiplica per il numero di lettori. Io ho la responsabilità di esserne la prima lettrice e interprete, rispetto a tutti coloro che l’originale non lo possono leggere, o non lo vogliono leggere. Devo dunque lasciare lo spazio agli altri lettori per interpretarlo, e non devo mai agire per coprire il testo, anzi, a volte proprio perché il testo abbia la voce libera devo “levare”, devo lavorare per togliere tutti quegli elementi che possono essere d’intralcio senza essere rilevanti ai fini della scrittura e dell’interpretazione, perché la stessa cosa fra due lingue e due culture spesso non si dice “quasi allo stesso modo”, ma in modi che possono annullarsi nel passaggio dalle une alle altre.

Cameron, ad esempio, usa spesso riferimenti realissimi della sua America: catene di ristoranti, oggetti particolari, topografia precisa, e gli intenti possono essere i più diversi, consci o inconsci che siano nell’autore. Prendiamo i supermercati – i grandi, enormi supermercati americani – portatori di microdeserti pieni di merci. In questa raccolta, ne compaiono due: A&P e Safeway.

A&P lo ricordo perfettamente, l’insegna dal rosso al giallo con la grafica anni Settanta, la sua presenza spettrale nella notte, il senso di isolamento che quella grande insegna luminosa comunicava per contrasto nel buio che la circondava. I grandi parcheggi male illuminati davanti.

Quando A&P è comparso in uno dei racconti però l’ho tolto. Su quanti lettori potevo contare che rievocasse una qualche immagine di per sé? A chi avrebbe detto qualcosa in più fra le parole italiane, oltre a essere una sigla poco identificabile, che magari va intralciare anche un po’ la lettura, a distrarre? Allora mi sono affidata alla scrittura, perché nel racconto in questione le scene si svolgono di notte, nel microdeserto del piazzale vuoto davanti al supermercato, con due personaggi immersi nella loro solitudine: e questo avrebbe già parlato da sé. Ho tolto con il fine di non coprire, di non sviare l’attenzione dalla solitudine del piazzale del supermercato e dei due protagonisti.

Safeway invece, in un altro racconto, è rimasto: nella frase si inseriva perfettamente nel ritmo, dava sapore di supermercato, anche perché il fulcro della scena, nel caso in questione era tutt’altro. Dopo un dialogo spiazzante, che scombussola i personaggi lì presenti – un ragazzo con sua madre e il compagno dello zio –, il ragazzo quattordicenne viene mandato a comprare patatine e Gatorade: niente di più familiare e rassicurante in una famiglia americana che il junk food. È la safe way, la via sicura al riparo dal pericolo che si era presentato, lo schermo dietro cui cercare di chiudere gli occhi all’adolescente. E mi sono detta, che non tutti, ma qualche lettore di sicuro poteva coglierlo e allora l’ho lasciato.

E questo procedimento si ripete sempre, per ogni scelta, di volta in volta. E gli autori della traduzione siamo noi, i sottopagati traduttori.

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Giuseppina Oneto, storica traduttrice di Peter Cameron, traduce attualmente dall’inglese per le principali case editrici italiane.

 

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