
Corsage è il film diretto da Marie Kreutzer che parla di dell’imperatrice Sissi, o meglio, del suo corpo, il campo di battaglia su cui si sono scontrate ideologie, interessi, narrazioni contrastanti. La regista prova a restituire al personaggio storico una dimensione umana ed esistenziale, evitando sia la lettura meramente storico-biografica, che quella politica e femminista, ma preferendo percorrere la strada di un intimismo che la lega ad altre eroine del cinema. La modernità di Sissi emerge proprio in questo suo essere alienata, sola, inadatta, fuori posto, trincerata sotto montagne di oggetti che non placano la sua inquietudine esistenziale.
Se siete stati nella piazza Neuer Markt, vicino al palazzo imperiale di Hofburg a Vienna, uno degli snodi principali della città dove le vetrine delle pasticcerie sbrilluccicano di Sacher Torte e i sontuosi palazzi di marmo ospitano enormi store di H&M, avrete notato il contrasto stridente tra tanta eleganza belle époque e la scarna chiesa di Santa Maria dei Cappuccini, che ospita la cripta consacrata agli onori della letteratura dall’omonimo romanzo di fin de siecle di Joseph Roth.
La facciata asciutta e appuntita, che contribuisce a conferire all’edificio un’austerità più da conventicolo di campagna che da capitale della Mitteleuropa, come un monumento inamovibile al rigore dello spirito germanico, dissimula l’illustre contenuto della cripta, le tombe dei sovrani Asburgo (Kaisergruft, la “Cripta degli Imperatori”): tra le molte cose che a Vienna incutono timore reverenziale, una passeggiata tra le spoglie mortali degli imperatori è quella più inquietante, oltre che foriera di vaghe riflessioni filosofiche sulla caducità della vita e sulla gloria mundi che transit, in una specie di danza macabra della morte livellatrice.
In tanta solennità spiccano le manifestazioni di pietà popolare che i nostalgici della monarchia giunti in pellegrinaggio da tutta Europa, hanno tributato nella forma di cartoline, ex voto, coccardine coi colori della casa reale, benedizioni e richieste di protezione. E mentre lo stile dei monumenti funebri passa da essere riccamente barocco a elegantemente neoclassico e le ossa asburgiche si accumulano nei secoli, rannicchiata accanto alla tomba faraonica del marito Franz Joseph, compare quella della più famosa delle imperatrici, adornata di piccoli pegni d’amore come fiori finti scoloriti e pieni di polvere, cartoline ingiallite, fotografie, in un trionfo di kitsch postmoderno.
Sul corpo vivo o morto di Elisabeth Amalie Eugenie di Wittelsbach, nata duchessa di Baviera, nota universalmente come Sissi, si sono consumate battaglie ideologiche e narrazioni contrastanti di tra storici, sudditi, femministe, curatori di mostre e anarchici (come quello che pose fine alla vita da romanzo dell’imperatrice sparandole un colpo di pistola mentre passeggiava sul lungolago ginevrino, nel 1898).
L’ossessione per il corpo dell’imperatrice Sissi è alla base anche di Corsage, il film del 2022 diretto da Marie Kreutzer, che ha scelto per il ruolo della bavarese un’algida e perfetta Vikey Krieps, i cui zigomi incorniciati dai lunghi capelli ramati varrebbero, da soli, la visione della pellicola. Per il corpo, appunto: la scena di apertura ritrae la routine mattutina dell’imperatrice – i lunghissimi capelli consegnati a un culto femminile quasi isterico, la vita stretta senza pietà nel corsetto, l’attività fisica sfiancante, il viso votato a un’eterna, eterea giovinezza («che resti bella, e ancora di più» cantano i cortigiani per il quarantesimo compleanno dell’imperatrice, mentre lei invece si sente «scolorire»). Sissi è un corpo divinizzato e venerato nella misura in cui è oggetto di sofferenza e il cui culto è sancito quotidianamente dal digiuno e dall’infelicità. Sottrae peso a sé stessa con una tazza di tè per colazione e mezza fetta d’arancia «tagliata sottilissima» per cena, sale solennemente sulla bilancia per guardare con soddisfazione quell’altra libbra persa per tenere fede al mito di sé stessa, per corrispondere perfettamente al sogno dell’imperatrice che non invecchia.
Relegata al topos veterofemminista di moglie, bellissima e muta, le “gesta gloriose” di Sissi sono imprese di autodisciplina sul proprio corpo – la capacità di sopravvivere al digiuno, di fermare i segni del tempo sul viso, di stringere ancora un po’ il bustino (quest’ultimo, non semplicemente il simbolo dell’oppressione, ma un feticcio su cui riversare la propria aspirazione assoluta alla bellezza, la disperazione nel vederla scomparire, l’unico potere consentito perfino a un’imperatrice, quello di sedurre).
La regista non tenta né la strada ideologica, stigmatizzando il suo privilegio o romanticizzandolo con l’intento di sbirciare nel privato dei grandi detentori del lusso (la stessa curiosità con cui guardiamo i milionari su Instagram o The Crown), ma neppure ci consegna una Sissi femminista ante litteram, in rotta col marito e con la monarchia, impegnata per i poveri e gli emarginati. Quello di Corsage è semmai un femminismo esistenzialista, un tentativo di rappresentare fuori dagli stereotipi della critica una donna di cui si è detto di tutto, mostrata tanto come simbolo del potere decadente e corrotto in un impero ormai morente, quanto come una paladina moderna, emancipata, colta, solidale con i diseredati.
Poiché, di questo, Sissi probabilmente fu tutto e nulla, il film rinuncia alla minuziosa ricostruzione storica e agiografica, ma prova a dar voce a una donna debole, inquieta, cresciuta nel lusso e quindi viziata, annoiata, infantile, completamente inadatta al ruolo di madre, moglie e sovrana, intrappolata in un’eterna adolescenza anche mentre scivola inesorabilmente verso la vecchiaia. Abortito ogni altro ruolo, il suo riparo dall’orribile fardello dell’esistenza, ma anche l’affermazione di sé, è un’armatura di pizzo francese, gioielli, perle intrecciate nei capelli, amanti occasionali e piccoli e patetici atti di bullismo perpetrati sulle dame da compagnia, le vestali addette al culto della bellezza dell’imperatrice, come in uno Sleepover club iper esclusivo di cui lei è l’immancabile reginetta.
La modernità di questa Sissi è proprio nel suo sentirsi alienata, sola, inadatta e fuori posto, trincerata sotto montagne di oggetti che non placano la sua inquietudine esistenziale. È lontanissima dall’altra grande Sissi dello schermo, Romi Schneider, e rimanda più che altro alla Maria Antonietta di Sofia Coppola (2006), per il piglio adolescenziale e pop, e alla Diana di Pablo Larrain (Spencer, 2021), per lo scavo nel proprio malessere psicologico. Il film sembra dirci che se è spesso difficile ricostruire la verità in modo oggettivo, questo è ancora più vero per le donne, il cui punto di vista non è mai raccontato in prima persona, ma sempre attraverso filtri di natura ideologica, o politica o anche semplicemente letteraria. Anche una storia nota, dunque, può essere raccontata in modo nuovo, se è farlo è uno sguardo che sospende il giudizio, depone le armi dell’interpretazione a tutti i costi e prova a dare voce e spessore a un corpo. Chissà che alla fine non sia anche quello più vicina alla verità.
Pugliese trapiantata a Milano, ho studiato lettere moderne e lavoro come editor e copywriter. Mi occupo di editoria e new media; scrivo di film, libri e cultura digitale su Minima&Moralia, The Vision e Rivista Studio.