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Ora vi racconto la storia di una scatola da scarpe, ma prima un accenno al suo contenuto o, meglio, al contenuto che per qualche tempo, da qualche parte, sostituì il suo contenuto originale, che ho ragione di credere fossero delle scarpe.

Pe qualche tempo la nostra scatola da scarpe contenne la Coppa Rimet, quella che fu la Coppa del Mondo di calcio fino al 1970, quando venne assegnata definitivamente al Brasile, dopo la terza vittoria. La storia della Coppa Rimet comincia nel 1928 e prende il nome del Presidente Fifa di allora: Jules Rimet, fu lui a ordinare a un orafo parigino, uscito dalla scuola Cartier, di realizzare la coppa. L’orafo si chiamava Lafleur. Il trofeo raffigurava una statua alata che reggeva una coppa, peso 3800 grammi di cui 1800 in argento placcato d’oro, la sua altezza era di 30 centimetri, perfetta per una scatola da scarpe, ma volendo anche per essere impugnata per commettere un omicidio, ma limitiamoci alla scatola, restiamo nel reale, lasciamo gli omicidi alla fantasia. La coppa fece il suo debutto nei Mondiali del 1930, a Montevideo in Uruguay, e da lì cominciò il suo viaggio fatto di molte partite, di vittorie e sconfitte, di fughe e tranelli, di rastrellamenti, di furti mancati e riusciti. La coppa Rimet per fare la storia del calcio dovette incrociare per forza di cose tutto il resto della storia. Così vanno le cose, così fanno le coppe.

I successivi Mondiali furono quelli del 1934 e del 1938, quelli delle vittorie dell’Italia di Vittorio Pozzo, dell’Italia – ahinoi – fascista, dell’Italia prima della guerra. La squadra vincitrice della coppa la custodiva per i successivi quattro anni quando sarebbe stata consegnata al nuovo vincitore, ma se scoppia una guerra i Mondiali sono l’ultima cosa di cui ti preoccupi. Se scoppia una guerra ti toccherà custodire la coppa un po’ di più. Quello che sappiamo è che fu prelevata in gran segreto dalla banca in cui era conservata e consegnata a Ottorino Barassi, che all’epoca era il vicepresidente Fifa e il segretario della Federcalcio italiana. Barassi era napoletano ma solo di nascita, era un dirigente di quel tempo con tutte le responsabilità e conseguenze per caso; di certo era un uomo di cui ci si poteva fidare. Barassi porta la coppa Rimet in casa sua, a Piazza Adriana e pensa, io me lo immagino mentre pensa: «Dove la metto la coppa?», pensa perché sa che i tedeschi prima o poi verranno a cercarla e qui entra in gioco la nostra scatola da scarpe.

Di che colore era questa scatola? Me la figuro marrone, comunque scura, anche se negli anni ’30 giravano anche scatole da scarpe molto colorate, e non tutte erano di cartone. Ne esistevano anche di bellissime in legno, per esempio. Ci troviamo, però, nella casa di un funzionario pubblico dell’Italia fascista, un uomo severo, sempre vestito di tutto punto. Un uomo da scarpe lucide e scure. L’uomo che dovette custodire la coppa Rimet. Quando gliela affidarono si dovettero dire: «Diamola a Barassi, è uno di cui ci si può fidare». Sì, la scatola da scarpe doveva essere marrone, marrone scuro e di cartone spesso. Magari sui lati recava la scritta della casa di produzione, oppure non c’era scritto nulla perché era scatola per scarpe fatte a mano, scarpe costose.  Ma scritta o meno, lusso o meno, la nostra scatola a un certo punto è vuota. Barassi prende un paio di scarpe e lo lascia bene in vista, magari accanto alla porta della camera da letto. Le lascia lì pronte per essere lucidate, prende la nostra scatola e ci infila dentro la Rimet, che deve essere protetta e salvata. Insomma, c’è la guerra, le persone verranno deportate e moriranno, ma la coppa può e deve essere salvata, questo è il mio compito, pensa Barassi, con lo sguardo deciso, con le idee chiare. Il nostro Barassi.

È un tardo pomeriggio quando Barassi arriva a casa, ha con sé la coppa. Non sappiamo come l’avrà portata a casa, ma ora è lì, la coppa Rimet è in un appartamento di piazza Adriana. Barassi entra in camera da letto, si toglie la giacca, prende la nostra scatola da scarpe e solleva il coperchio. Ha già calcolato le misure ad occhio, è quasi certo che la Rimet ci starà perfettamente, ma è il momento della conferma. Prende la coppa con cura, con entrambe le mani e la appoggia dentro la scatola, con la delicatezza con cui una mamma appoggerebbe il suo bambino appena addormentato in culla. La Rimet è a casa, sta precisa dentro la scatola, scatola che sa di cuoio ma che da adesso in poi saprà d’oro e d’argento, saprà di pallone che è altro cuoio, saprà di erba, tacchetti e fango, saprà di partite e storie a venire. Saprà, in maniera un po’ presuntuosa, di futuro, anche se al tempo non si sa bene di quale futuro si tratterà. Barassi chiude la scatola e si guarda intorno, sorride (lo crediamo almeno, sorridevano quegli uomini?) e guarda verso il letto. Si inginocchia e appoggia la scatola lì sotto, la infila dal lato dove dorme, la coppa starà sotto di lui, si vigileranno a vicenda. Secondo Barassi la coppa è al sicuro.

C’è qualcosa di folle e romantico in tutto ciò.

Un giorno i tedeschi arrivarono a casa di Ottorino Barassi per perquisirla, nonostante questi avesse dichiarato che la coppa Rimet si trovasse al CONI. I tedeschi non si fidarono, una truppa di soldati perquisì casa Barassi da cima a fondo, la coppa andava trovata e requisita per essere fusa. Non la trovarono, nessuno di loro pensò di cercare sotto il letto, o se lo fece non aprì la nostra scatola da scarpe, che lì sotto dovette fare più di un sussulto; come fece mia nonna quando durante un rastrellamento dei tedeschi nascose suo fratello sotto il letto, anche in quel caso i tedeschi non trovarono niente. La coppa è in salvo come mio nonno che si nascose in un comignolo durante lo stesso rastrellamento. Adoro, andando all’indietro, quel comignolo e un po’ voglio bene a quella scatola da scarpe.

La coppa è in salvo. In seguito, forse, viaggiò nella stessa scatola da scarpe, passò di mano in mano prima nelle mani dell’avvocato Giovanni Mauro che la nascose in una casa di campagna di Brembate. Le cronache raccontano due versioni. La prima narra di una consegna della coppa Rimet alla Fifa, nel 1950 da parte dello stesso Mauro. La seconda (la più verosimile, quella che trova più conferme) ci racconta che fu lo stesso Barassi a portare in salvo la coppa nel 1946, in Lussemburgo.

La storia della Coppa è poi continuata, ci sono stati altri mondiali e altri furti, smarrimenti e riconsegne. Della coppa sappiamo tutto, non sappiamo invece che fine fece la nostra eroina: la scatola da scarpe. Arrivò in Lussemburgo con la coppa nel 1946? E a quel punto un funzionario qualunque se ne disfece e la buttò via? Finì alla Fifa nel 1950? È stata usata in seguito da un’impiegata come porta penne, gomme e matite?

Mi piace pensare che la scatola di scarpe che salvò la coppa visse ancora un po’, resistente col suo scuro cartone, con la sua rigidità e – perché no – il suo buon cuore (se fossi un burlone direi: d’oro). Magari è finita a Londra in un mercatino oppure è tornata a Roma e ora sta sotto il letto di qualcuno ed è piena di lettere e di fotografie. E sa di carta e sa ancora di cuoio. Quando gira il vento giusto sa di erba.

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Autore

giannimontieri@minimaetmoralia.it

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagioneAndrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia. Altre info qui: https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

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