
Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, un estratto dal libro di Fernando Rennis Pop is dead. La storia dei Radiohead, uscito per Nottetempo.
Per non perdere altro tempo, il management decide nuovamente di cambiare aria e affittare un edificio antico, come fatto per Ok Computer. Prima c’è una pausa. Nel suo rifugio in riva al mare in Cornovaglia, quando Yorke prende una chitarra in mano, inevitabilmente si blocca. Ma, anche in questo caso, qualcosa sopravvive. Per esempio, un frammento minimale suonato in glissando su una corda, che intitola Hunting Bears, e un demo oscuro dal titolo I Might Be Wrong, ispirato alla sensazione che qualcuno vegli su di noi e alle presenze avvertite in casa dal cantante. Una notte, fuori dal suo rifugio in riva al mare, Yorke vede qualcuno camminare all’interno dell’abitazione, che in quel momento è vuota. Quando Stanley Donwood lo va a trovare, i due si mettono a dipingere all’aperto, seguendo i percorsi suggeriti da libri come la guida The Modern Antiquarian di Julian Cope, pubblicata nell’ottobre del 1998 e adorata dal cantante, che propone all’amico di riprodurre il paesaggio attorno, mentre Donwood suggerisce di usare soltanto tonalità di blu e viola.
L’Arboretum è incantevole: aprile è tutto un fiorire di magnolie, bucaneve, ciliegi. In attesa che il loro studio sia pronto, i Radiohead affittano un edificio a Batsford, nel Gloucestershire. Come nel maniero del Somerset, qui il gruppo e lo staff allestiscono la regia in una stanza, gli strumenti in un’altra. Al piano superiore ci sono le camere da letto, nel cielo a volte sfrecciano improvvisamente degli aerei militari che interrompo le registra- zioni. Oltre alle passeggiate nel parco, il gruppo di lavoro può contare sui pasti preparati da una cuoca.
Yorke e Donwood sono passati a dipingere soprattutto su tele quadrate di 1,68 x 1,68 metri. Donwood, in particolare, ha in mente le drammatiche immagini della guerra in Kosovo, soprattutto del massacro di Račak. Gli è rimasta impressa una foto: un metro quadrato di neve. Sembra una tela su cui sono dipinte impronte di scarponi, mozziconi di sigarette, olio di motore, sangue. Aveva già riflettuto sulla neve, “una dolce coperta che rende bello il nostro brutto mondo, un vestito luccicante che nasconde la miseria di rifiuti, merda e immondizia”. Ma non in Kosovo. Lì, la neve è una “prova” della barbarie umana. Da bambino, Donwood era rimasto affascinato da quadri di soldati inglesi in redingote, rappresentazioni di antiche battaglie in cui gli eroi nazionali massacravano il nemico straniero. Le aveva in seguito cercate nelle gallerie e nei musei, ma non era più riuscito a trovarle. Non ha un titolo, né un autore. Non ha prove. Sa, però, che vuole “rendere terribile il bello”. Donwood ha in mente anche un altro dettaglio. Si tratta delle piscine rosse con cui la CIA raffigura in codice il numero di 20.000 morti. È uno dei segreti raccontati da un’aquila antropomorfa nel fumetto Shadowplay di Alan Moore e Bill Sienkiewicz.
Dal canto suo, Yorke sta leggendo Cronache marziane di Ray Bradbury. Vuole che la musica dei Radiohead sia proprio come quella che viene descritta in alcuni di quei racconti. Come quelle folate, quei “refoli sonori aleggianti qua e là, voci echeggianti ri- chiami, voci mormoranti che venivano da case immacolatamente infestate dalla televisione”. Oppure, come quella musica che vaga “sulle montagne, scuotendo e facendo cadere polveri minerali in una pioggia di cipria”. È la descrizione perfetta del modo in cui voci, sintetizzatori ed effetti sono manipolati dai Boards of Canada in Music Has the Right to Children del 1998 e, in particolare, in brani come l’eterea The Color of the Fire, o nell’atmosfera lunare di Turquoise Hexagon Sun, o ancora nei tagli di frequenze verso l’alto o il basso del sintetizzatore nella breve Olson.
Quando O’Brien dice di voler fare qualcosa che suoni come Tusk dei Fleetwood Mac o Scott Walker, Yorke ringhia citando Aphex Twin e Boards of Canada: “Ho questa sensazione. E dovreste averla anche voi”. Il cantante è intrattabile. Ha un’idea precisa di come vuole che suonino i nuovi brani e non è disposto a cedere o starsene zitto fin quando non la vede realizzarsi. Sulla lavagna arriva ad annotare fino a una sessantina di titoli, alcuni non li ha nemmeno fatti ascoltare agli altri. I Radiohead lavorano con i macchinari, poi Godrich, per scaricare un po’ di pressione, propone di suonare comunque insieme. Quando una nevicata imprevista si abbatte sul Sud-Ovest inglese e sul Galles Meridionale nel bel mezzo di aprile, il gruppo coglie al volo l’occasione e registra verso mezzanotte qualcuno che passeggia sulla neve. Ma è un entusiasmo che dura poco. Porte sbattute e una tensione montante esplodono in una resa dei conti piena di incertezze. Ancora una volta, i Radiohead sono a un passo dallo sciogliersi o, forse, è già successo e non se ne rendono conto.
Se il programma a Batsford prevedeva di lavorare cinque giorni a settimana e tenere liberi i weekend, adesso i lavori vengono sospesi del tutto.
Riprendono a giugno, in attesa che il nuovo studio a Sutton Courtenay sia finalmente pronto. In una notte inoltrata d’inizio estate, Yorke e Godrich stanno lavorando a Everything in Its Right Place, quando il produttore suggerisce di trasportare su un sintetizzatore quello che il cantante stava suonando sul pianoforte a muro. I nastri stanno girando, il giallo delle lampade combatte con il bianco degli schermi dei computer. Nella penombra, Yorke setta i controlli e canta alcune frasi scritte su un foglio che ha davanti. Su quella registrazione, Jonny si mette a manipola- re i suoni usando lo strumento “scrubber” di un software, che permette di riprodurre l’audio avanti, indietro e a diverse velocità, emulando l’analisi del nastro che si faceva in passato durante l’editing analogico, in cerca del punto giusto dove tagliarlo. Quei suoni sembrano finalmente riflettere la visione di Yorke, che adesso è pienamente convinto del valore di Nigel Godrich e di come sta mettendo ordine nel caos piovutogli addosso dai Radiohead. Quando la mattina seguente Ed O’Brien ascolta i progressi, gli scappa un sorriso. Dopo alcune pause per permettere a Phil Selway di raggiungere sua moglie Cait, che sta per dare alla luce il primogenito della coppia, e a Yorke e Greenwood di partecipare al Tibetan Freedom Concert ad Amsterdam, i lavori continuano. Nel concerto olandese, il cantante suona a sorpresa una versione pianoforte e voce del brano ispirato a Freedom di Mingus. Non ha ancora un titolo, ma i fan la chiamano Nothing to Fear, da un verso ripetuto più volte nel finale. In giugno, Yorke raggiunge Colonia in occasione del G7 per la campagna Drop the Debt, promossa a favore della cancellazione del debito del Terzo Mondo nei confronti dell’Occidente.
Ammesso che i Radiohead fossero riusciti a pubblicare il loro nuovo disco, su quale ecosistema sarebbe atterrato? L’avvento dei nuovi supporti musicali – CD e musicassetta – e i video di MTV avevano spostato l’attenzione sulle singole canzoni, svuotando di significato il concetto di album. Se nel 1988 il sociologo Simon Frith considerava realistico lo sfaldamento dell’“era del disco”, dieci anni dopo il New York Times scrive a chiare lettere: “Uno spettro si aggira nel settore musicale: l’idea che gli ascoltatori possano ottenere direttamente la musica che vogliono da Internet, gratuitamente”. È un’idea che mette in crisi la ritualità fondata sull’approccio “fisico” all’ascolto – andare di persona in un negozio di musica, cambiare lato del vinile, inserire un CD o una cassetta in un lettore – e sull’importanza di elementi come l’artwork. Ora che le copertine sono compresse in icone su uno schermo e che non si parla più in termini di al- bum ma di intere discografie scaricate o scambiate in rete, tutto ciò ha ancora un senso?
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