Sabato 4 ottobre, alle ore 16.00, Alice Zanotti presenterà Scintille presso il Palazzo Ducale di Genova nell’ambito di BookPride. Dialogherà con l’autrice Alessandro Mantovani.
di Alice Figini
È la lingua a dominare. Le parole, oltre al significato, hanno un peso che si fa materia: irretiscono il lettore, lo avvolgono e lo ammaliano, non lasciano scampo, sono le vere “scintille” capaci di attizzare il fuoco di questa storia. La voce plurale si fa coro, un noi che costantemente confabula, dialoga, intesse una trama di vita, in bilico tra sogno e memoria.
Sono le tre sorelle Kokulčua, tre bambine, a raccontare: Alma, Anna e Buia, il cui vero nome, in realtà, è Maria. Proprio Buia, colei che non parla perché ha perduto la voce «per colpa di Pietro, di un fiore blu e di un bidone del latte rovesciato», sarà l’unico “io” a inserirsi nel racconto, spezzando l’incanto ammaliante della voce plurale.
«Le nostre voci, una sopra l’altra, sono vive, accendono il fuoco. Le nostre voci sono come i rami. Nella nostra lingua vive la scintilla».
Scintille (Nottetempo, 2025) è l’esordio nella narrativa di Alice Zanotti, alla sua prima opera in prosa dopo Tutti gli appuntamenti mancati (Bompiani) un originale saggio biografico dedicato alla poetessa Amelia Rosselli, vincitore del Premio Fiesole Narrativa nel 2021.
Lo stretto contatto dell’autrice con l’opera di Rosselli si avverte nel singolare impasto linguistico con cui questo romanzo è stato scritto: la lingua di Scintille è materica, come la poesia di Rosselli, si fa al contempo scudo e talismano, varcando il confine tra significante e significato sino a inventare una nuova simbologia. Il vero fil rouge del romanzo è proprio la capacità di nominare le cose: le sorelle Kokulčua hanno un rapporto bizzarro con il linguaggio, Alma e Anna parlano sempre in coro, mentre Buia non parla affatto, perché «piangono le parole che non vengono capite. Le parole che non vengono capite fanno piangere». Le parole indicibili, che di fatto non esistono nel dialetto del paesino di montagna in cui le sorelle vivono, sono «amore», «felicità» e «futuro», parole sconosciute in un linguaggio che ha fatto propria la fatica quotidiana del lavoro ed è perciò imbevuto di violenza, dolore, sforzo e solitudine – «solitudine è una parola che conosciamo bene».
Nella volontà di inventare un nuovo linguaggio si sprigiona anche la virtuosa capacità immaginativa dell’infanzia che cerca, da sempre, di ricreare il mondo e riadattarlo al proprio sguardo, che è puro, incondizionato. Buia tace perché sente di avere dentro «il buio delle parole che non capisco» e soprattutto perché «la prima parola che non capisco è “amore”. So solo che l’amore mi ha riempito di buio il cuore».
La riflessione sulla lingua compiuta da Alice Zanotti in queste pagine va oltre la forma e tocca l’essenza. La prima parola che Buia pronuncerà, infine, sarà «No»: un atto di ribellione, ma anche di sfida; deciderà di dare alla propria voce la forma acuminata del dissenso.
La dialettica tra “luce e buio” è un’altra fondamentale protagonista della storia: lo sperduto paese balcanico dove vivono le tre sorelle Kokulčua si chiama Montefosca, nell’originale Čàrni Vàrh che significa appunto «cima buia» o «cima nera», un nome che non a caso riecheggia quello della stessa protagonista. Il luogo non è semplicemente lo sfondo di Scintille, ma è ciò che alimenta il fuoco segreto della trama: un piccolo paese al confine con la Jugoslavia, smarrito in una conca tra le montagne, si trova a ingaggiare la propria personale lotta contro il progresso che assume la forma di una strada, metafora stessa del futuro, ma anche della corruzione, del denaro. La strada taglierà il paese in due, «spezzerà il nostro campo a metà», viene percepita come una minaccia, una ferita, qualcosa che aggredisce «ho visto i denti della strada», a indicare che il progresso, quando arriva, è qualcosa di feroce, violento, ingovernabile.
Il paese di Montefosca «mormora con una voce sola» perché ogni abitante si porta dentro il proprio buio, ognuno il suo: c’è lo scultore Špleat – personaggio dolente e indimenticabile – che è impazzito per amore della bella Iole e ha inciso il proprio messaggio in una scritta segreta sepolta dall’edera; poi c’è Dora, che non ha avuto figli e ancora attende che il marito ritorni dalla guerra; la maga Nina che cerca di curare le malattie con i suoi medicamenti d’erbe e nelle ossa degli animali vede il futuro; la piccola adorabile Rina, con il viso sfregiato da una voglia, che non sa dove orientare la propria fame d’amore e insegue le tre sorelle Kokulčua, che la rendono partecipe dei loro giochi però, a tratti, la respingono. Sono, in fondo, tutte creature della vita e del dolore: gli abitanti di Montefosca si fanno riflesso speculare del grande consorzio umano, di un’umanità alle prese con il quotidiano smarrimento dell’esistenza, purtroppo incapace di dire la parola più importante: “amore” – «tutti in paese rincorrono questa parola che non sanno dire, per questo accarezzano la testa dei propri figli, tengono per mano le loro mogli fino alla chiesa, la domenica, ma non la dicono».
Nel mezzo scorre il tempo, con l’eterno andirivieni delle stagioni e il senso della memoria nell’antitesi tra il desiderio di trattenere con sé frammenti d’esistenza e il baratro della dimenticanza «i vecchi si esercitano a ricordare, non vogliono perdere i loro ricordi. Ma a cosa serve?».
La lingua di Alice Zanotti è poetica, intonata e lirica e fa riscoprire la passione antica per l’affabulazione. Forse alla fine di una favola si tratta, di quelle favole popolari che si raccontano intorno al fuoco per intrattenersi e, al contempo, riflettere in maniera più profonda sulla vita e ciò che comporta. C’era una volta il paese di Montefosca e le tre sorelle Kokulčua, tra loro c’era una bambina che aveva deciso di chiamarsi Buia: potrebbe iniziare così. Ci sono anche degli antagonisti spaventosi in questa storia, si tratta degli Škrat, presenze demoniache da incubo su cui converge tutto il male da cui bisogna proteggersi; ma a una lettura più attenta gli Škrat in fondo personificano tutte le paure che abitano il cuore dell’uomo e che, forse, solo i bambini sanno vedere, concretamente, nel buio. Gli Škrat sono anche il tempo che tutto inesorabilmente consuma, ricoprendo d’edera i messaggi d’amore, facendo crescere le erbacce nei campi e i rovi ai bordi delle strade «il tempo passa e farà sparire il paese e pure noi».
L’oscuro paese di Montefosca, infine, assume le sembianze della Spoon River cantata da De André in cui gli abitanti levano il loro grido “Non al denaro né all’amore né al cielo” e diventano, con le loro manie, le loro ossessioni, le loro mancanze, catalogo dei vari tipi umani che si possono ritrovare in ogni tempo e in ogni luogo. Come nella poesia di apertura di Edgar Lee Masters, musicata da Fabrizio De André, tutti «dormono sulla collina» e noi ancora ci chiediamo: dov’è Dora? Dove sono Alma, Anna e Maria? Dov’è lo scultore Špleat che aveva nella testa il nome dei morti e delle pietre? Forse in fondo è lui il suonatore Jones di questa storia.
Scintille è un romanzo dal ritmo incantatorio e della lingua adamantina, che mescola memoria e desiderio e, facendo propria questa miscela incandescente, riesce a farsi portavoce della forza primigenia dell’infanzia.
Buia è una bambina che non vuole crescere, che vuole restare bambina per sempre «io le vorrei dire che non voglio sanguinare una volta al mese e che voglio rimanere piccola» – ma è impossibile ribellarsi al futuro, che comunque arriva, feroce e rapido come la strada, anzi, è già dietro l’angolo. La capacità infantile di reinventare il mondo è imprigionata nelle scintille che nutrono questo libro e ancora ardono come il fuoco fatuo di sogni, dei desideri sterminati e ribelli che abbiamo nutrito da bambini quando tutte le possibilità erano aperte, a ricordarci con straziante consapevolezza che «non abbiamo immaginato abbastanza».
«Della nostra scintilla nessuno sa, del fuoco che ci portiamo dentro nessuno immagina».
E, voltata l’ultima pagina, tutti noi con Buia ci ritroviamo a domandare: «E il mio nero che forma ha? E il vostro?» Ma forse ciò che ci portiamo dentro non è oscuro, ma è luce, è fuoco che arde, può divampare con la forza immaginifica delle parole –e farsi ancora estate e forza e splendore.
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