La scrivania la piazzarono in mezzo al nulla, in un punto di passaggio senza finestre.

Chiunque abbia lavorato anche solo per un’ora per la pubblica amministrazione, non può non avvertire il vuoto, il senso pieno di inutilità, percepire il nulla come se fosse un sentimento. Non può evitare di avvertire queste sensazioni ogni volta che pensa a quegli strani (anche se a volte bellissimi) e tetri e polverosi palazzi, con uffici nascosti in lunghi corridoi, sottratti alla vista degli utenti da rampe di scale che si palesano in mezzo al nulla, da porte che danno su altre porte che danno su niente. E in mezzo a questi lunghi corridoi, a volte, scrivanie, con una sedia colma di assenza, dove avrebbe dovuto esserci un usciere, qualcuno a cui chiedere un’informazione. Non può far altro che vedersi di schiena sfilare davanti a una serie di sportelli, di impiegati a capo chino. E poi ridiventare uno di quegli impiegati a capo chino, con la testa rivolta a una pila di carte, a volte ingiallite lungo i bordi. Carte appoggiate su un tavolo, un tavolo piazzato in mezzo al nulla. La donna o l’uomo chini sulle carte, sul vuoto. Un vuoto costante, che si alimenta giorno dopo giorno, un vuoto statico e che contemporaneamente s’agita come mosso da un vento di polvere. Il vuoto che regge Il concorso, il nuovo bellissimo romanzo di Sara Mesa (La nuova frontiera, 2025, traduzione di Elisa Tramontin).

Mi sedetti nell’ultima fila, studiai le schiene dei presenti. Quali erano gli intrusi, quali no? Alcuni avevano dei taccuini di carta, altri dei tablet. Siccome il pubblico impiego tendeva a essere antiquato – io stessa, senza andare troppo lontano, mi ero presentata con il mio quaderno a spirale -, mi sembrò un valido elemento di identificazione.

Il vuoto, la tensione, le difficoltà nei rapporti personali, la ricerca di sé, l’esigenza di trovare un posto nel mondo – all’interno delle convenzioni e, contemporaneamente, al di fuori da queste -, di scappare dalla realtà così come, tentare, dunque, di ridisegnarla, dandole a volte una carezza, altre un pugno, una testata. Il desiderio di nascondersi; questi sono gli elementi che ricorrono nei libri – sempre stupendi e interessanti e tutti editi in Italia da La nuova frontiera– della scrittrice spagnola Sara Mesa. In Un amore la protagonista, una traduttrice, si sposta per un periodo in campagna (da chi, da cosa fugge? Cosa cerca?), lì scoprirà che l’amore non è una cosa soltanto, scoprirà cosa vuol dire essere osservata, additata, scoprirà una solitudine diversa da quella che conosceva e che il conforto può nascere dallo scambio, una sorta di negozio giuridico sentimentale.

In La famiglia, il nucleo all’apparenza sereno, unito, è disastrato, fatto a brandelli da incomprensioni, cose taciute, non dette, tradimenti molto più che sentimentali. In questo nuovo romanzo è un libro burocratico, tentacolare e sentimentale. Sara Villalba la protagonista, inizia a lavorare per la pubblica amministrazione e subito avverte la sensazione di vuoto, oppressiva, di inutilità, di vaghezza. Trovare un posto di lavoro e – allo stesso tempo – venire risucchiati, sparire dal mondo, come se ci togliessero il colore. Sara è là, non sa nemmeno perché, non si riconosce particolari meriti o abilità. Spera, però, che quello possa essere il punto dal quale far partire la vita adulta. Ed ecco, il filo sotteso, più forte della trama stessa, che lega questo agli altri romanzi, un’agitazione semisommersa che muove la protagonista e il contesto. I rapporti che via via Sara intrattiene con qualche collega fanno parte della routine, delle cose che capitano oggi e che capiteranno uguali domani e dopodomani. Per molto tempo la protagonista risulterà l’elemento di disturbo di quella routine, ogni sua richiesta – dalla più semplice in su – che ha a che fare con il lavoro resta inascoltata, cade nel silenzio, in quel vuoto appunto.

A volte ricordavo i miei reclami inventati e allora, solo allora, venivo colta dall’agitazione, un turbamento che non arrivava a essere veramente paura, ma solo lo scomodo pensiero che mi avrebbero scoperto e poi chissà. Tuttavia, chi se ne sarebbe potuto accorgere?

È un romanzo su come tutti quanti prima o poi ci sentiamo precari, non accettati. Una storia sul fallimento, fallimento, in misura e ambienti diversi, ben presente nei due romanzi precedenti di Sara Mesa. In più, qua troviamo la noia, la noia così forte che non è subito avvertita, capita, è il correlativo oggettivo di quel vuoto, simile a quella raccontata da David Foster Wallace ne Il re pallido (Einaudi, traduzione di Giovanna Granato) quando descrive le giornate di lavoro in ufficio dell’Agenzia delle entrate. E Foster Wallace ci aveva lavorato sul serio, e Sara Mesa ha lavorato per la pubblica amministrazione sul serio.

Sara Mesa è bravissima a inquietarci sempre un poco, a farci avvertite il peso delle cose, e a lasciarci intravedere qua e là un modo diverso per farla franca (anche solo per qualche istante). Accettazione e rivoluzione in piccoli gesti, minuscoli cambiamenti. Mesa anche qui lavora sul linguaggio, su come inevitabilmente si lasciano indietro pezzi di sé come una matita temperata per bene, inutilmente, giorno dopo giorno. Eppure, la matita è lì, sopravvive, va avanti. Il concorso è una storia sullo straniamento e sulle piccole vie di fuga per provare a orientarsi, Mesa ne indica – tra le altre – attraverso la protagonista un paio, la poesia, un’ossessione.

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Autore

giannimontieri@minimaetmoralia.it

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagioneAndrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia. Altre info qui: https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

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