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Un uomo entra nel bosco… Iniziano così tante fiabe, tante avventure classiche, destinate a essere tramandate per generazioni. Inizia così anche il secondo disco di Davide Ambrogio, Mater Nullius, pubblicato dalla francese Viavox, che arriva dopo l’esordio, molto apprezzato, di Evocazioni e invocazioni (Catalea, 2021).

Un uomo entra nel bosco, dicevamo, e inizia il suo viaggio: quattordici stazioni, le stesse della Via Crucis, in cui quest’uomo diventa tutti gli uomini e si scopre separato dalla madre. È la madre del titolo dell’album, che non è più madre di nessuno, perché quell’uomo ha perduto (non: reciso; perduto) il filo rosso che lo legava a lei, tra tenerezza e violenza. Nel corso del cammino, il viaggiatore/ascoltatore muore dunque a sé stesso per ritrovarsi in quel legame, per reimparare l’arte del conflitto e dell’ascolto, della saggezza cieca e femminea, della ricerca del giusto presagio (i presagi sono cattivi solo per chi non sa coglierli).

Nel buio fitto del bosco e delle grotte di questo racconto di formazione suona molto la trènula (o troccola o battaglino), strumento di tenebra che nel corso della Settimana Santa sostituisce la festa delle campane, vietate da alcune tradizioni. È uno sferragliare cruento del metallo sul legno, vero terrore che viene dallo spazio profondo per chi lo abbia sentito risuonare almeno una volta nel corso delle processioni notturne del sud. Ma qui la trènula diventa anche percussione, partecipando agli episodi più noise e quasi punk del disco, e dunque dissuasione dal credere che tutto sia davvero perduto. Se il viaggiatore si fa viandante e si mette in ascolto puro e sincero delle parole di Davide (e di Anna Ida Cortese e Gianvincenzo Pugliese, che hanno collaborato ai testi), scoprirà che il viaggio è fatto di molte possibilità, e che tra queste c’è la speranza che qualcosa verrà ancora, dopo di noi (che poi è il senso del suonare musica di tradizione, di qualsiasi tradizione).

Ci sono i diavoli e c’è la morte, in questo disco, ci sono gli aedi, i serpenti incatenati e i tiranni impotenti, morti e derisi, i quattrini perduti e quelli guadagnati, c’è una voce che assume su di sé il timbro della Passione per sussurrare, urlare, invitare alla rissa e all’amore… e poi ancora pregare.

C’è avventura, in Mater Nullius, energia, elettricità, c’è il clangore della Settimana Santa dei fabbri e dei falegnami, di chi crocifigge ed è eternamente crocifisso in questo gioco circolare che da sempre sono i Passion Plays; c’è una lingua che smette di essere un siculo brunastro con innesti di feralità calabresi per diventare una glossolalia ancestrale, una rocciaspina che si conficca in piccoli frammenti nell’orecchio dell’ascoltatore; c’è il canto che “liquefa chi canta” (cito a memoria da Ben Lerner, Le luci) ed è consapevole di partire dal coro, dal cerchio, per potervi riapprodare in qualsiasi momento a viaggio concluso: non si è Ulisse tra altri ulissidi, ma solo una volta tornati a casa, nel canto altrui.

Mater Nullius non fa della tradizione un revival, la cosa morta in quanto esotica e iper-rappresentata come attrazione turistica. E neppure il solito ritornello: oh, com’eravamo belli e sani e forti ieri, che empi e corrotti siamo oggi! La tradizione, specie se di matrice orale, è ciò che siamo pienamente oggi, non ieri o domani – anche a nostra insaputa. Sul domani, su quello che potremo essere domani, si esprimono forse, anche, dischi come questo di Davide; ma che la tradizione possa esistere in una qualche forma stabile ancora domani è un quesito che non ha senso; dovesse esistere domani come canone nella stessa forma cristallizzata di ieri e di oggi non sarebbe più neppure tradizione, ma rappresentazione; non dovesse esistere più, si sarebbe estinta l’umanità stessa.

Ed è in fondo questo il tema dell’album: il true ending dell’umanità cosmica, però cantato finalmente dalla prospettiva, questa sì tradizionale, di chi sa che l’umano non si estingue mai. Possiamo continuare a discuterne in eterno, farne materiale distopico che vende al cinema e in libreria, saggistica illuminata da aperitivo metropolitano: no, l’umanità non si estingue. Adesso, per favore: andiamo avanti.

Perché poi, a ben guardare, Mater Nullius non è neppure un disco di temi. È un disco di suoni, molto articolati, stratificati e insieme liquidi e granulari grazie all’elettronica e alla produzione di Walter Laureti e alle percussioni di Vincenzo Gagliani. Percussioni elettrificate e rivoltate verso le budella, ritmo di diàvuli e dispute di coltelli, e ancora paesaggi notturni e lunari sognati da un vecchio cantore orbo e saggio, consapevole che solo passando dall’oscurità si vede più chiaramente.

Alla fine, si esce dai tre quarti d’ora d’ascolto come alla luce del giorno dopo aver fatto l’alba dentro un sogno sognato collettivamente in un sabato sera di bagordi tra le fiaccole di un centro storico ancora vissuto soltanto da fantasmi; non solo gli occhi vedono meglio, ma anche il naso sembra percepire nuovi odori: l’acre e pungente umore di nebbia del primo mattino, un caffè caldo che schiuma in nero dalla moka in una casa a piano terra dove si fa colazione con le finestre spalancate, il secco bruciato dei carboni spenti sulle cui fiamme qualcuno ha danzato scalzo per tutta la notte.

Forse non è un disco di cui avrei voluto scrivere, Mater Nullius, convinto come sono che le opere che ti pigliano insieme al cuore alla testa e alle gambe andrebbero semplicemente consumate fino allo sfinimento, senza razionalizzare troppo. In conclusione di quest’ennesimo anno sconclusionato, per il 2026 auguro allora di andare a vederlo dal vivo, Davide Ambrogio e il suo disco, di viverlo, di ballarlo cantarlo piangerlo e pogarlo nel cerchio dell’anello che inevitabilmente si crea nell’incontro, sempre più raro, col rito, con la musica dal vivo, con la musica dei vivi.

(Foto in copertina: Valeria Taccone)

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marcomontanaro@minimaetmoralia.it

Marco Montanaro (1982) vive in Puglia, dove si occupa di scritture e comunicazione. La sua newsletter si chiama Sobrietà.

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