
Giuliano Battiston, a Kabul durante gli attentati degli ultimi giorni, ci ha inviato questo diario/reportage uscito in forma ridotta sulle pagine del «manifesto» e dell’«Unità».
Kabul, domenica 15 aprile 2012
Kabuli palau – il piatto tipico da queste parti –, raffiche di kalashnikov, esplosioni e colpi di mortaio. Oggi hanno pranzato cosi gli abitanti della capitale afghana, sorpresi dalla clamorosa, nuova operazione dei Talebani, che con una serie di attacchi simultanei a Kabul e in altre province del paese hanno inaugurato la “campagna primaverile”, prevista e prevedibile come ogni cambio di stagione ma inaspettata nella sua portata. Sono particolarmente ambiziosi, e fortemente simbolici, gli obiettivi scelti dai “turbanti neri”: nella sola Kabul, sono stati colpiti la sede del Parlamento e il palazzo presidenziale di Hamid Karzai, l’ambasciata russa, quella inglese (la cui torre di guardia è stata centrata da due razzi), una residenza dei diplomatici inglesi, il centro delle operazioni delle forze Isaf-Nato (Camp Warehouse) e altri edifici governativi.
Le esplosioni e le raffiche di mitra sono echeggiate per molte ore, trasformando la città – immersa da alcuni mesi in un’atmosfera di pace apparente – in un vero e proprio campo di battaglia. Soprattutto in certe zone, come quella a cavallo tra Shar-e-now e Wazir Akhbar Khan, sede di numerose sedi diplomatiche e dei più importanti luoghi del potere politico e militare, dove un gruppo di persone armate di granate e RPG ha occupato un edificio in costruzione alle spalle dell’ambasciata iraniana, facendone il luogo di tiro ideale sui sottostanti edifici governativi.
Il messaggio – chiaro e diretto quanto può esserlo un attacco multiplo nel cuore di una delle città più militarizzate del pianeta – è rivolto a entrambi gli antagonisti principali dei movimenti antigovernativi: a Karzai i Talebani mandano a dire, ancora una volta, di considerarlo un presidente illegittimo, un “fantoccio” al soldo delle potenze straniere, ricordandogli che non deve sentirsi sicuro neanche nel suo palazzo; agli americani e agli altri membri della coalizione Isaf-Nato fanno sapere invece che il ritiro già deciso delle truppe straniere non significa affatto una tregua: gli attacchi continueranno fino a quando ci saranno soldati internazionali sul suolo afghano. Questo hanno detto e ribadiscono i Talebani. Ma il messaggio è rivolto anche alla popolazione locale e a quella mondiale: l’operazione con cui è stata lanciata l’offensiva di primavera non punta tanto a ottenere un successo militare in senso stretto, quanto a esibire in modo plateale una capacità strategica ancora integra, a dispetto degli sforzi compiuti – e dei soldi buttati – dalla comunità internazionale nel corso dei dieci anni che ci dividono dall’inizio dell’occupazione. La popolazione ha accolto il messaggio con un doppio sentimento. C’è la rassegnazione di chi sa di trovarsi nel bel mezzo di una guerra di cui non si vede ancora la fine. E c’è il timore che, come ogni anno, i mesi primaverili ed estivi si traducano in una escalation del conflitto, e dunque di vittime civili senza colpa. Per la modalità degli attacchi – avvenuti anche nelle province di Logar, Paktia e Nangarhar – molti hanno puntato il dito, piuttosto che sui Talebani che comunque hanno rivendicato l’operazione – sulla rete Haqqani, specializzata nelle offensive di questo tipo e appoggiata dai servizi segreti pakistani.
Così hanno fatto per esempio alcuni funzionari del ministero dell’Interno e dell’intelligence afghana. Difficile stabilirlo, ora, in un momento in cui si accavallano le dichiarazioni. E con esse le interpretazioni. Tra queste, la più forzatamente positiva è quella dell’ambasciatore americano a Kabul, Ray Crocker, che nel corso di un intervento sulla rete CNN si è dimostrato speranzoso: “Le forze di sicurezza afgane – ha detto sicuro – sono state in grado di gestire gli eventi da sole e questo è un chiaro segno di progresso”. Basterebbe che Crocker sporgesse l’orecchio oltre le finestre blindate della sua residenza-bunker per accorgersi che si sentono ancora colpi di kalashnikov. Mentre scriviamo il buio ha già inghiottito da un pezzo gran parte di Kabul. Alloggiamo a due chilometri circa dall’edificio occupato, e si sentono riecheggiare nitidamente le esplosioni, intervallate da raffiche di mitra. “Hanno tolto la luce, e la zona è completamente isolata”, ci conferma al telefono un’amica afghana che risiede da quelle parti. Quando c’è, il silenzio delle armi è solo momentaneo. Domani si finiranno di contare i morti. Finora 16 quelli certi. Molti temono che la lista si allunghi, questa notte. Tutti aspettano l’assalto finale delle forze Isaf-Nato.
Giornalista e ricercatore freelance, direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22, collabora con quotidiani e riviste tra cui l’Espresso, il manifesto, Gli asini, il Venerdì di Repubblica, oltre che con Radio3 e l’Ispi. Docente di “Tecniche di reportage” alla Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso, è coordinatore scientifico di Collettiva.org e dal 2010 al 2018 ha curato il programma del Salone dell’editoria sociale.
Con Giulio Marcon ha curato “La sinistra che verrà. Le parole chiave per cambiare” (minimum fax 2018). Per le edizioni dell’asino ha pubblicato “Arcipelago jihad. Lo Stato islamico e il ritorno di al-Qaeda” (2017) e due libri-intervista: “Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione” (2009) e “Per un’altra globalizzazione” (2010). Dal 2008 si dedica all’Afghanistan con viaggi, ricerche, saggi.
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